GUBBIO (A. T., 24-25-26)
Città dell'Umbria, in provincia di Perugia, posta tra 478 e 529 m. d'altezza sulle ultime pendici del M. Ingino, verso l'altipiano che costituisce il fondo della conca eugubina, presso lo sbocco in pianura del Fosso Camignano. È la città umbra che ha maggiormente conservato l'aspetto medievale; tre vie principali quasi parallele, ma a livello diverso, corrono normalmente al pendio della montagua, unite tra loro da ripide e strette viuzze trasversali, spesso a gradinata. La maggior parte degli edifici è costruita con blocchi di calcare più o meno squadrati, e ha facciate di aspetto severo, in cui, accanto alla porta principale, si apre spesso, con la soglia un po' alta sul piano stradale, la "porta del morto", donde si facevano uscire le bare.
Gubbio, lontana dalle principali vie di traffico, ha avuto uno sviluppo topografico lentissimo; la popolazione, negli ultimi due secoli, per i quali si hanno dati precisi, è rimasta stazionaria, diminuendo, anzi, in alcuni periodi: essa era di 4221 ab. nel 1701, di 6348 nel 1736, di 6066 nel 1861, di 5343 nel 1871, di 5540 nel 1881, di 5673 nel 1901, di 5503 nel 1911 e di 6284 nel 1921. Scarsissimo è il movimento commerciale di Gubbio, e piccola la sua importanza industriale: vi si lavora, in piccoli stabilimenti, la lana e la seta; vi si fabbricano rinomate ceramiche artistiche, rinomati oggetti in ferro battuto (lampadarî, torcieri, alari, piatti a sbalzo, ecc.) e mobili artistici in legno. Nel 1919 vi fu costruito un grande stabilimento per la fabbricazione del cemento Portland, chiuso dopo pochi anni, poiché la bontà della materia prima e la facilità con cui questa si trovava non compensavano le difficoltà dei trasporti, poiché Gubbio è collegata col resto dell'Umbria mediante una ferrovia a scartamento ridotto (la Fossato di Vico-Arezzo) che obbliga al trasbordo delle merci.
Il comune di Gubbio comprende la conca eugubina, lunga 24 chilometri e larga cinque, ricoperta da una coltre di depositi alluvionali recenti, dai quali, sui margini, affiorano depositi del Pliocene lacustre, e le montagne arenacee e calcaree che la circondano (quote estreme: 240 a 1010 m.); è il comune più vasto dell'Umbria (543,70 kmq., dei quali 199 sopra i 600 m.). Il 40% di questo territorio è occupato da seminativi (21.652 ettari, per la metà semplici e per la metà alberati), il 31% da boschi (17.164 ett.), il 25% da prati e pascoli (13.374 ett.). Il resto è improduttivo. I prodotti agricoli principali sono i cereali, il vino, i legumi e i foraggi. Nella conca eugubina si estrae un po' di lignite (miniera di Galvana).
La popolazione del comune di Gubbio (21.772 ab. nel 1861, 23-316 nel 1881, 26.320 nel 1901, 30.450 nel 1921 e 30.836 nel 1931) vive in assoluta prevalenza nelle case sparse (nel 1921, ab. 24.166, cioè l'87%), addensandosi soprattutto nella zona altimetrica tra 400 e 600 m. (67 ab. per kmq.)
Monumenti. - Le tavole eugubine (o iguvine; v. appresso) ricordano che nell'antica Iguvium esisteva un grande tempio, il più antico monumento di cui si abbia memoria in Gubbio. Alla tarda età repubblicana risalgono i resti d'un teatro, che dovette essere inferiore, per grandezza, solo a quelli di Pompeo e di Marcello in Roma. Non molto lontano si vedono ruderi delle terme e un mausoleo che si vuole, ma senza fondamento, sia il sepolcro di Genzio re dell'Illirio. Vicino all'antico feudo di Bisinia sono poche rovine del tempietto di Marte Ciprio, nei cui pressi fu eretto il Cenobio di Caprignone (ne rimane la sola chiesa del sec. XII).
Straordinariamente ricca di monumenti è la Gubbio medievale e del Rinascimento. Principalissimo il Palazzo dei consoli, quasi per intero costruito da Angelo da Orvieto, ma terminato da Matteo di Giovannello detto Gattapone. Decretata nel 1321, iniziata nel 1332, la grande mole, tutta in calcare, era quasi compiuta nel 1346. Vi si conserva la Pinacoteca comunale ricca d'un centinaio e mezzo di opere, fra cui un magnifico reliquiario con un dittico del sec. XIII, due miniature bizantine e altre della scuola di Simone Martini e tre affreschi staccati di Guido Palmerucci. Di fianco al Palazzo dei consoli è quello del Podestà, iniziato nel 1349 e lasciato incompiuto. Qui ha sede la Biblioteca comunale, con molti manoscritti di memorie storiche locali. Intorno al 1480, dopo la riunione di Gubbio allo stato di Urbino, fu costruito, sul modello di quello urbinate, il palazzo dei Montefeltro, che si eleva più alto della torre consolare. Non è noto con certezza chi ne fu l'architetto, ma l'esame stilistico aggiunge credito alla testimonianza di Vespasiano da Bisticci, che l'attribuisce a Luciano Laurana. Gli elementi principali dell'edificio e molti particolari sono infatti similissimi a quelli che si vedono nel palazzo di Urbino e la loro lavorazione evidentemente più trascurata si deve forse al fatto che gli esecutori non operavano sotto la sorveglianza diretta dell'architetto.
Poche città in Italia hanno conservato un aspetto caratteristico come Gubbio, con quelle sue architetture medievali, con gli edifizî cupi, coperti di parietarie e di musco, col vasto intrico delle masse pittoresche sottostanti a una grande piazza pensile, posata sopra quattro archivolti cavi e giganteschi. Fra le chiese più antiche meritano ricordo S. Pietro, le cui memorie risalgono al sec. VII, ma riedificata nel XIII; S. Giuliano, già esistente nel 1192, e la cattedrale, costruita sull'area della più antica chiesa di S. Mariano. Distrutta da un incendio verso la metà del Duecento fu subito riedificata, ma la facciata fu ancora una volta ricostruita fra il 1514 e il 1550; vi si conservano avanzi di affreschi dei secoli XIV e XV e uno splendido piviale a lamina d'oro, ricamato con storie della Passione su disegno fiammingo della metà del sec. XV. Al sec. XIII risalgono lo Spedaletto, rifabbricato nel 1890, la palazzina del Capitano del popolo, le chiese di S. Francesco, costruita nel 1259 dall'architetto Bevegnate, ma trasformata-nell'interno durante il secolo XVII; di S. Spirito; di S. Giovanni Battista, ch'ebbe anticamente titolo di cattedrale; di S. Martino, consacrata nel 1287 e alterata da restauri nel 1765; di S. Maria Nuova, nella cui cappella, rifatta nel Settecento, si conservano avanzi di pitture trecentesche e la Madonna del Belvedere, capolavoro di ottaviano Nelli, e di S. Agostino, che sull'arcone sovrastante all'altar maggior mostra un Giudizio universale del Nelli e sulla vòlta e le. pareti del coro storie del santo titolare, affrescate dai suoi scolari. Tutte codeste chiese, a eccezione di S. Francesco, sono costituite di una sola nave, con grandi arcate a sesto acuto, trasversali, che sorreggono il tetto in sostituzione delle capriate. Appartengono al secolo XIV il serbatoio d'acqua, detto Bottaccione, e la chiesa di S. Maria dei Laici, fondata nel 1313. Il Rinascimento, oltre che nel palazzo Ducale, ha lasciato numerosi ricordi nel Santuario suburbano di S. Ubaldo e nei palazzi Pamphily, Beni, Benvenuti, Accoramboni.
L'arte a Gubbio. - Alla gloria artistica di Gubbio rende omaggio Dante Alighieri, che nel primo girone del Purgatorio riconosce il miniatore Oderisi (v.). Poco si conosce di Guido Palmerucci, nato forse nel 1280, operante fra il 1315 e il 1349 sotto l'influsso di opere senesi che probabilmente vide durante i cinque anni in cui fu esiliato da Gubbio. Altre memorie si conservano di artisti vissuti in Gubbio nella seconda metà del Trecento, come Angelo di Masolo e suo figlio Niccolò, Petruccio di Luca (notizie certe dal 1378 al 1391), Donato d'Andrea (ricordato dal 1340 al 1384), Bartolo di Cristoforo e Martino Nelli, padre di Ottaviano, che nei primi anni del sec. XV impersonò la scuola eugubina, accentuandone il naturalismo forzato e spesso volgare.
Lontane tradizioni ha in Gubbio l'arte della maiolica, ricordata in un documento del 1348, portata ad altissima perfezione da Giorgio Andreoli detto Mastro Giorgio (v.), e continuata dai figli di lui Cencio e Ubaldo e da vittorio del Prestino; ma subito dopo decadde, per la perdita del segreto di fissare i lustri a oro e iridati sullo smalto.
V. tavv. XI-XIV.
Storia. - L'antica Iguvium (nella trad. più recente, Eugubium; demotico Iguvinas e Iguvinus) fu città umbra fuori della via Flaminia. Ebbe vita preromana, testimoniata soprattutto nelle tavole iguvine (v. qui appresso). Dal principio del sec. III a. C. fino alla guerra sociale fu città alleata dei Romani. Il suo sviluppo, che le derivava dal trovarsi proprio nel centro della regione umbra, venne ad arrestarsi quando, nella nuova economia con lo stato di Roma, fu tagliata fuori dalla via Flaminia. Pur diminuita d'importanza Iguvio mantenne il benessere civile; la tradizione menziona ivi, nel 167, la relegazione del re illirico Genzio. Ebbe la cittadinanza romana con la fine della guerra sociale e da allora fu municipio iscritto nella tribù Clustumina con quattuorviri come magistrati supremi. Menzionata dai geografi e passata sotto silenzio negli Itinerarî, pur, durante l'Impero, è lecito supporre che non sia stata priva di vita economica e sociale, rivelata da alcune particolari industrie locali e dal culto speciale di Giove Appennino.
Durante l'età barbarica, sappiamo solo che soggiornò a Gubbio Carlomagno, reduce dall'incoronazione di Roma nell'800. Poi anche Gubbio entra nel quadro dell'Italia comunale, con alterni reggimenti ghibellini e guelfi, toccando l'età più splendida nella prima metà del sec. XIV, quando i suoi figli ebbero nome anche nella storia generale: i Gabrielli, che diedero più d'un podestà a Firenze, e Bosone Novello Raffaelli. Conquistò la città, per il papato avignonese, il cardinale Albornoz. Contro la Chiesa il Comune si rivendicò in libertà nel 1376: ma la triennale democrazia che ne seguì fu l'ultima pagina di storia municipale. Scansò la tirannia del vescovo Gabriele Gabrielli, dandosi in volontaria sottomissione ad Antonio di Montefeltro, conte di Urbino e signore di altre città delle Marche (1384). Da questo momento la storia di Gubbio si confonde con quella dello stato di Urbino, ma la città ebbe lo splendore d'una corte con Federico. Devoluto alla chiesa lo stato di Urbino, nel 1631, per l'estinguersi dei Della Rovere succeduti ai Montefeltro, Gubbio, fino ai plebisciti del 1860, fece parte dello Stato Pontificio, rimanendo aggregata alla provincia di Urbino e Pesaro, o Metaurense.
Bibl.: M. Sarti, De episcopis eugubinis. Praecedit de civitate et ecclesia eugubina dissertatio, Pesaro 1755; G. Colucci, Dell'antichità d'Iguvio, in Antichità picene, XV, 1792; L. Ranghiasci, Del tempietto di Marte Ciprio e de' suoi monumenti dissotterrati nelle campagne di G. nel 1781, in G. Colucci, Antichità picene, XV, 1792; L. Ranghiasci, Dell'antico teatro Iguvino, 1801; H. Brunn, Scavi del teatro di G., in Bull. inst., 1863, pp. 223-331; Corp. Inscr. Lat., XI, p. 853 segg.; E. Bensa, G., Genova 1887; F. Ranghiasci Brancaleoni, Nei palazzi municipale e pretorio di G., illustr. stor. artist., in Arch. stor. ital., s. 3ª, VI, ii, pp. 21-65; O. Lucarelli, Mem. e guida storica di G., Città di Castello 1888; G. Mazzatinti, Inventari d. Biblioteche d'Italia, I, 1891, pp. 121-154; G. Tesorone, La città di G. e i soffitti di pal. Pamphily; pensieri sull'arte decorativa, in La Nuova Antologia, s. 3ª, 41 (1894), 1° giugno; L. Mac Cracken, G., past and present, Londra s. a.; G. Mazzantini, G. dal 1515 al 1522, in Boll. Soc. umbra di storia patria, I (1894); C. Moratti, Alla ricerca delle porte di G., in Bull. Fil. Classica, V (1898); H. Nissen, Italische Landeskunde, II, Berlino 1902, p. 390 segg.; A. Colasanti, G., Bergamo 1905; S. Polizzi, L'epigrafe dell'antico teatro di G., in Riv. Storia Ant., XII (1908); R. Schulze, G. u. seine mittelalterlichen Bauten, Berlino 1915; A. Briganti e M. Magnini, Perugia, Gubbio, Todi. Guida stor.-artist., Perugia 1910; Philipp, in Pauly-Wissowa, Real-Encyclop., IX, Stoccarda 1916, col. 968 segg.; M. Salmi, Le chiese gotiche di G., in L'Arte, XXV (1922), pp. 220-31; L. Ferrini Baldini, G., Firenze 1926; L. Barbi, G. (Le cento città d'Italia illustrate, n. 60), Milano s. a.; E. Giovagnoli, G. nella storia e nell'arte, Città di Castello 1932.
Le tavole iguvine.
Nel Palazzo dei consoli si conservano oggi sette tavole di bronzo contenenti descrizioni di sacrifici e statuti di una confraternita sacerdotale in lingua umbra: documenti epigrafici fra i più importanti d'Italia perché unica fonte diretta per lo studio della civiltà umbra. Quattro di esse sono scritte in alfabeto etrusco, due in alfabeto latino, una in parte nell'uno in parte nell'altro; due altre infine, secondo una tradizione incontrollabile, sono andate smarrite. Sono venute in possesso della città di Gubbio nel 1456 dopo essere state trovate nel 1444 in un sotterraneo press0 ll teatro romano.
Hanno acquistato interesse scientifico fin dalla prima metà del secolo XVI quando un certo padre Stefano di Cremona, quindi il conte Gabriele Gabrielli e Bernardino Baldi procurarono di darne edizioni parziali. La prima completa è dovuta a Thomas Dempster che la inserì nel suo libro De Etruria regalî composto fra il 1616 e il 1619, ma pubblicato solo nel 1723. A lungo furono ritenute scritte in etrusco: ne dubitò per primo il Buonarroti, editore del Dempster, che non vi trovò traccia della desinenza -al, così frequente in etrusco. L'interpretazione dell'alfabeto fu favorita dal Bourguet (1734) che constatò l'esistenza di due diverse redazioni, l'una in alfabeto latino, l'altra in etrusco, di uno stesso testo; fu compiuta da Richard Lepsius (1833). L'alfabeto etrusco in parte si è adattato alle esigenze umbre, assumendo nuovi segni o nuovi valori; in parte ha resistito, continuando a non distinguere le due vocali o e u.
Al Lepsius risale anche la numerazione, diventata poi tradizionale, delle tavole: I-IV in alfabeto etrusco, V nei due alfabeti, VI-VII in alfabeto latino. Le tavole I da una parte, VI-VII dall'altra si riferiscono agli stessi argomenti. Il metodo combinatorio esattamente definito dall'abate G.B. Passeri verso il 1750, associato a quello etimologico che la scoperta della parentela delle lingue indoeuropee ormai legittimava, hanno condotto all'interpretazione degli elementi essenziali delle tavole, interpretazione dovuta in prima linea a T. Aufrecht e A. Kirchhoff (1849-51), quindi a M. Bréal (1875) e F. Bücheler (1883). Dopo d'allora, spezzato il legame fra l'elemento filologico e quello linguistico, i progressi dell'interpretazione si arenarono, l'interesse andò diminuendo e solo oggi si nota un certo risveglio.
La cronologia più arcaica è stata sostenuta da W. Corssen (sec. V) quella più recente da M. Bréal (età augustea). Sembra certo che si debba risalire più in là della guerra sociale; che l'impiego delle consonanti doppie e del gruppo XS leghi le tavole in alfabeto latino alla seconda metà del sec. II a. C.; che quelle in alfabeto etrusco debbano risalire almeno ai primissimi tempi dell'influenza romana in Umbria (prima metà del sec. III). Naturalmente la redazione è assai più antica della fissazione sul bronzo: anzi da alcune incongruenze, dalla penetrazione di vocaboli latini anche nelle tavole in alfabeto etrusco, sembra che si debbano distinguere redazioni prossime e redazioni remote. Qualunque tentativo di stabilire una cronologia relativa d'ordine filologico e non soltanto epigrafico è quindi destinato a fallire. Alcune formule religiose antichissime come dupursus peturpurus "ai bipedi e ai quadrupedi" o viro pequo "gli addetti alla famiglia e i capi di bestiame" trovano addirittura esatto riscontro in formule dell'India vedica.
Le divinità appaiono talvolta raggruppate in triadi e contraddistinte, oltre che dal nome proprio, da un attributo che normalmente le lega, con un rapporto imprecisato, ad altre divinità o a determinati oggetti di culto. Esse sono: Giove, Marte, Vofione (il Consacratore) raggruppati nella triade Grabovia (della Quercia Sacra); Trebo (la casa) Giovio, e Tefro (il Focolare) Giovio; Fiso Sacio il protettore dell'arce iguvina: Honto (dio infero) Çerfio e Marte Hodio; Çerfo Martio con le due divinità femminili Prestata Cerfia e Torsa (la Fuga) Çerfia, Vestico Sacio; Spetore (l'Osservatore) e Pordoviente (l'Offerente); Pomono e Vesona divinità della creazione, non prive di legami con Liber, il Dioniso italico; Hola (il Gorgo). Nella cerimonia sacra si distingue il vovçis o consacrazione, l'avie o auspicio, l'esono o sacrificio propriamente detto. In questo si distingue l'ampenom "uccidere", il pordoviom "offrire", il subtbraspaoni "disperdere i resti". I sacrifici descritti sono i seguenti: sacrificio espiatorio, lustrazione, doppio sacrificio in caso di auspici avversi, sacrificio del cane, sacrificio delle feste decuriali, sacrificio annuale della confraternita.
La confraternita è detta "dei fratelli Atiedii" e si compone nella forma originaria di due cinquine di fratelli, di un flamenco arfertor e di un presidente. Questi è nella redazione più antica un magistrato civile detto uhtur o "autore"; nella redazione più recente è esclusivamente religioso ed è detto fratrexs. Il magistrato civile corrispondente è detto kvestur cioè questore, e figura come magistrato eponimo in luogo dell'uhtur in calce ai decreti.
L'unità statale appare definita dalle due coppie ocri Fisia tota igovina, tota igovina trifu igovina. La prima coppia vale "arce Fisia, cittadinanza iguvina" e nella prima parte preesiste alla fissazione topografica in Gubbio, determinando solamente la cittadella, luogo sacro e forte nel tempo stesso, degli Indoeuropei; la seconda vale "cittadinanza e tribù" cioè abitanti della città o nucleo antico, e abitanti del territorio. I cittadini erano divisi nelle due categorie di iovies "giovani" e ners "uomini" confermandosi così l'esistenza delle organizzazioni giovanili già note in Campania e nella Sabina. Unità amministrative erano le dekvias o "decimi", di cui ci sono rimasti i dieci nomi, decimi che poi sono stati raddoppiati con l'incremento territoriale e demografico senza introdurre nuovi nomi. Il popolo si radunava per dekvias in occasione delle feste decuriali. Il nome di Atiedio che compare come attributo dei membri della confraternita, di un'arce non precisata, e di una dekvia iguvina, fa supporre la provenienza transappennica degl'Iguvini: Attidium è città presso Fabriano. Favorisce questa ipotesi l'abbondante toponomastica etrusca che si riscontra nella regione iguvina.
Bibl.: T. Aufrecht e A. Kirchhoff, Die umbrischen Sprachdenkmäler, Berlino 1849-51; M. Bréal, Les tables Eugubines, Parigi 1875; F. Bücheler, Umbrica, Bonn 1883; A. v. Blumenthal, Die iguvinischen Tafeln, Stoccarda 1931; G. Devoto, Gli Antichi Italici, Firenze 1931.