guerra e pace
Guerra è uno dei lemmi in assoluto più adoperati da M.; gli strumenti informatici di studio lessicale rilevano più di 800 occorrenze complessive, al singolare o al plurale, nei Discorsi, nel Principe, nell’Arte della guerra e nelle Istorie fiorentine; occorrenze alle quali bisogna aggiungere quelle, assai numerose, negli scritti diplomatici e di legazione, e nelle corrispondenze familiari. Ciò non stupisce se si pensa all’attenzione di M. alla «qualità de’ tempi» e quindi alla situazione di guerra permanente, che lo portava a scrivere nel 1526: «sempre, mentre che io ho di ricordo, o e’ si fece guerra, o e’ se ne ragionò» (M. a Francesco Guicciardini, 3 genn. 1526). Il lemma pace, meno adoperato, ha nondimeno una presenza cospicua (più di 250 occorrenze, a considerare solamente il Principe, i Discorsi, l’Arte della guerra e le Istorie fiorentine). Indagare il legame tra pace e guerra nei testi di M. significa interrogarsi sull’esistenza di un sistema guerra-pace e sulla scelta di un modello politico e politico-militare, sull’uso politico delle ‘arti (o modi) della pace’ e delle ‘arti (o modi) della guerra’ secondo la «qualità de’ tempi» e la nuova temporalità della guerra (guerre lunghe o guerre ‘corte’, ‘stagioni’ di guerra), sulla metaforizzazione della guerra nei conflitti interni e cercare quindi di capire cosa significa la formula «amare la pace e saper fare la guerra» (Arte della guerra I 108).
«Credo ch’e’ sia necessario seguire l’ordine romano» (Discorsi I VI 37): la scelta di un modello politico e politico-militare. La questione della guerra non è trattata da M. in modo descrittivo o narrativo: l’articolazione tra g. e p. e il ruolo della guerra nella vita politica sono strutturalmente legati al modello di repubblica. Questa scelta fondamentale viene messa a fuoco nei Discorsi, nel capitolo intitolato Se in Roma si poteva ordinare uno stato che togliesse via le inimicizie intra il Popolo ed il Senato (I vi 1). In questo capitolo M. si chiede «se in Roma si poteva ordinare uno stato che togliesse via dette controversie» (I vi 4) e stima che, per rispondere, «è necessario ricorrere a quelle republiche le quali sanza tante inimicizie e tumulti sono state lungamente libere, e vedere quale stato era in loro e se si poteva introdurre in Roma» (I vi 5). Questo processo lo porta a opporre al modello romano quello di Sparta e di Venezia: il modello romano permette di fare la guerra per «ampliare», mentre il modello Sparta-Venezia, che tende a «stare dentro a brevi termini», potrebbe permettere la pace e la «vera quiete d’una città»:
Crederrei bene che, a fare una republica che durasse lungo tempo, fusse il modo ordinarla dentro come Sparta o come Vinegia, porla in luogo forte e di tale potenza che nessuno credesse poterla subito opprimere, e dall’altra parte non fusse sì grande che la fusse formidabile a’ vicini; e così potrebbe lungamente godersi il suo stato. […] E sanza dubbio credo che, potendosi tenere la cosa bilanciata in questo modo, che e’ sarebbe il vero vivere politico e la vera quiete d’una città (Discorsi I vi 29, 33).
Ma M. aggiunge subito che la condizione espressa dall’inciso «potendosi tenere la cosa bilanciata in questo modo» è un’ipotesi astratta, perché «tutte le cose degli uomini [sono] in moto, e non [possono] stare salde». La repubblica concepita sul modello spartano e veneziano potrà essere costretta, dalla «necessità», a tentare di ampliare, e in questo caso «si verrebbe a tor via i fondamenti suoi e a farla rovinare più tosto» (I vi 34); e anche nel caso contrario, «quando il Cielo le fusse sì benigno che la non avesse a fare guerra, ne nascerebbe che l’ozio la farebbe o effeminata o divisa; le quali due cose insieme, o ciascuna per sé, sarebbono cagione della sua rovina» (I vi 35). La scelta si enuncia allora molto semplicemente: «credo ch’e’ sia necessario seguire l’ordine romano, e non quello dell’altre republiche», poiché la repubblica, tollerando le inimicizie interne e considerandole come «uno inconveniente necessario», deve scegliere la via dell’ampliare e prepararsi alla guerra (I vi 37). Nei testi di M. la guerra non è mai un’aberrazione, una parentesi, un fallimento della ragione: la guerra ha e deve avere un suo ordine.
Eppure, la pace è spesso presentata come una situazione positiva e felice, un bene da ricercare, secondo il topos tradizionale del pensiero politico medievale. Non a caso viene espressa questa valutazione positiva della pace nella retorica diplomatica delle lettere d’ufficio: «E possonsi rendere cotesti Magnifici Signori certissimi che, così come noi per ogni tempo siamo stati della pace amatori e osservantissimi della fede, dobbiamo essere per lo avvenire» (M. a Ser Antonio de Colle, 12 sett. 1498, LCSG, 1° t., pp. 55-56). In Discorsi I x è presentato un quadro della Roma imperiale nel quale vengono contrapposti i regni di «quelli imperadori che vissero sotto le leggi e come principi buoni», e quelli degli imperatori «che vissero al contrario» (I x 16); l’opposizione non potrebbe essere più netta e la pace vi ha una parte importante: chi esamina quei tempi, «in quelli governati da’ buoni vedrà un principe sicuro in mezzo de’ suoi sicuri cittadini, ripieno di pace e di giustizia il mondo» (I x 22); mentre chi considera
di poi tritamente i tempi degli altri imperadori, gli vedrà atroci per le guerre, discordi per le sedizioni, nella pace e nella guerra crudeli: tanti principi morti col ferro, tante guerre civili, tante esterne (I x 24).
L’attenzione agli imperatori romani come fautori di guerra spiega perché nel cap. xix del Principe M. sviluppi un’analisi degli ultimi imperatori romani: lo scopo in tal caso è di mettere in rilievo l’apparizione, nella dialettica politica, dei soldati e dell’esercito in quanto «terzo umore» (che si aggiunge ai due umori individuati nel cap. ix, cioè il popolo e i grandi). La pace è indubbiamente legata al regno buono; le guerre civili ed esterne al regno cattivo. Ma la pace è auspicabile solo se sussistono alcune condizioni: bisogna in tempo di pace prepararsi alla guerra e bisogna risolversi a non fuggire mai una guerra.
La prima condizione è espressa nel modo più chiaro e imperativo nel Principe:
Debbe pertanto mai levare il pensiero da questo essercizio della guerra; e nella pace vi si debbe più essercitare che nella guerra, il che può fare in dua modi: l’uno, con le opere; l’altro, con la mente (xiv 7).
Dopo aver spiegato come il principe vi si può esercitare con le opere («tenere bene ordinati e essercitati i suoi, [e] stare sempre in su le cacce», xiv 8), e prima di spiegare che «quanto allo essercizio della mente, debbe el principe leggere le istorie» (xiv 14), ribadisce lo stesso inderogabile obbligo con un esempio antico:
Filopomene, principe delli Achei, in tra le altre laude che dagli scrittori gli sono date è che ne’ tempi della pace non pensava mai se non a’ modi della guerra: e quando era in campagna con gli amici spesso si fermava e ragionava con quelli (xiv 11).
È in gioco qui la costituzione di un sapere di guerra complesso, fatto di storia, geografia, tecnica militare e valutazioni demografiche o economiche: un sapere insomma che va ben oltre quello cui alludeva il cardinale di Roano quando dichiarava a M. che «gli italiani non si intendevano della guerra» (Principe iii 48), limitandosi a considerarli combattenti inaffidabili e poco efficaci sul campo. Un «esempio freschissimo» è dato invece nei Discorsi, a proposito della guerra degli inglesi contro il regno di Francia, nell’estate 1513: se il re d’Inghilterra non ha esitato ad assaltare, con buoni esiti, la Francia, benché non avesse fatto guerra da «più che trenta anni», «tutto nacque da essere quel re prudente uomo e quel regno bene ordinato, il quale nel tempo della pace non intermette gli ordini della guerra» (Discorsi I xxi 8).
La seconda condizione viene esposta in Principe iii, portando prima un esempio positivo antico (§ 29), e poi un esempio moderno negativo (§ 45): e anche in questo capitolo, la tesi è ribadita:
Però e’ romani, vedendo discosto gli inconvenienti, vi rimediorno sempre; e non gli lasciorno mai seguire per fuggire una guerra, perché sapevano che la guerra non si lieva, ma si differisce a vantaggio di altri (§ 29). E se alcuno dicessi: el re Luigi cedé a Alessandro la Romagna e a Spagna il Regno per fuggire una guerra; rispondo con le ragioni dette di sopra, che non si debbe mai lasciare seguire uno disordine per fuggire una guerra: perché la non si fugge, ma si differisce a tuo disavvantaggio (§ 45).
Difatti, per M., la pace può essere molto pericolosa, perché non rimuove, ma aggrava, le cagioni della guerra; e perché fa nascere l’ozio, e l’ozio rende i popoli e le città «effeminati». Ciò viene ribadito in diversi luoghi: «e’ Medi molli ed effeminati per la lunga pace» (Principe vi 13); «l’ozio la farebbe o effeminata o divisa» (Discorsi I vi 35); «quella città sarebbe diventata effeminata, e preda de’ suoi vicini» (Discorsi I xix 3). È questa d’altronde, nei Discorsi, una delle colpe storiche del cristianesimo.
La pace non può essere stabile e certa; tutte le «cose mondane» sono in perpetuo movimento: nel celebre primo capitolo del libro V delle Istorie fiorentine, M. esplicita questa sorta di movimento perpetuo: «la virtù partorisce quiete, la quiete ozio, l’ozio disordine, il disordine rovina, e similmente dalla rovina nasce l’ordine, da l’ordine virtù, da questa gloria e buona fortuna» (Istorie fiorentine V i 2). Dopo aver ricordato che «si è da i prudenti osservato come le lettere vengono dietro alle armi», M. suggerisce che le lettere e la filosofia sono «il maggiore e più pericoloso inganno» con il quale l’ozio può «nelle città bene institute entrare» (V i 4), ricordando che Catone, vedendo come la gioventù romana cominciasse a seguire «con ammirazione» gli insegnamenti di Diogene e Carneade, «e cognoscendo il male che da quello onesto ozio alla sua patria ne poteva risultare, provide che niuno filosofo potesse essere in Roma ricevuto» (V i 5). Probabilmente la ripresa dell’aneddoto di Carneade mira non tanto a una critica della filosofia, quanto a illustrare il rifiuto di ciò che tendeva a indebolire le virtù militari dei Romani: le armi devono sempre avere il primo posto in una città bene ordinata e «bene instituta»; solo il loro mantenimento permette di evitare la rovina promessa a chiunque passi dalla quiete all’ozio, per quanto «onesto» possa essere. Va notato che, quando applica l’analisi all’Italia dal 1434 al 1494, M. aggiunge che non è solo la pace a «spegnere» la virtù e a provocare l’ozio e quindi l’inizio della rovina: «quella virtù che per una lunga pace si soleva nelle altre provincie spegnere fu dalla viltà di quelle [le guerre] in Italia spenta» (V i 11). Anche le guerre possono partecipare del processo di declino inevitabile quando sparisce la virtù, e questo avviene quando non sono guerre vere e aspre, ma guerre deboli
nelle quali gli uomini non si ammazzano, le città non si saccheggiono, i principati non si destruggono: perché quelle guerre in tanta debolezza vennono, che le si cominciavono sanza paura, trattavansi sanza pericolo e finivonsi sanza danno (V i 10).
Non stupirà dunque che «ordinarsi» alle armi sia la cosa da fare per evitare che dalla pace nascano l’ozio e l’effeminatezza e che queste finiscano con il prevalere sulla virtù.
Un passo dell’Arte della guerra (I 243-58) sembra effettivamente dare una risposta al pericolo che potrebbe nascere quando un Paese è «imbelle» e «unito». Fabrizio Colonna risponde a un dubbio di Cosimo che nasce dall’opinione di chi biasima l’ordinanza: «Costoro dicono che tale moltitudine di armati è per fare confusione, scandolo e disordine nel paese» (I 242), dove si intravedono implicitamente le critiche di quei grandi che accusavano Piero Soderini di volere con l’ordinanza farsi tiranno, come viene riferito dalla cronaca di Piero di Marco Parenti e dal giovane Francesco Guicciardini nelle Storie fiorentine. La risposta di Fabrizio a questa «vana opinione» vale sia per il rischio che corre un Paese «effeminato», sia per il rischio opposto dei disordini e degli «scandoli» interni: se un «capo pubblico» ordina i popoli alle armi, per via dell’ordinanza,
le provincie unite e effeminate perdono la viltà e mantengono l’unione; le disunite e scandolose si uniscono e quella loro ferocia, che sogliono disordinatamente adoperare, si rivolta in publica utilità (I 249).
In questo passo M. non tratta solamente dei pericoli che nascono dalla lunga pace che può rendere una città, una provincia, un Paese imbelle ed effeminato; egli dà anche una risposta che vale per una congiuntura ben differente: quella di un Paese «armigero e disunito». Perché M. sa che i disordini all’interno di una città possono provocare vere e proprie guerre civili; l’aveva già sottolineato a proposito di Roma, nel passo citato sopra di Discorsi I x 24: chi considera il regno dei cattivi imperatori, vi vedrà «tante guerre civili, tante esterne». Insiste di nuovo su questo punto nell’Arte della guerra I 256:
Né per altra cagione nello imperio romano, spento che fu il sangue di Cesare, vi nacquero tante guerre civili tra’ capitani degli eserciti e tante congiure da’ predetti capitani contro agli imperadori, se non per tenere continuamente fermi quegli capitani ne’ medesimi governi.
Nelle Istorie fiorentine M. fa la storia delle divisioni interne a Firenze, città «più che alcuna altra macchiata» (come scrive in III v 11) dai disordini provocati dalle sette, se pur non si possa dire che le divisioni all’interno di una città siano una caratteristica specifica di Firenze: anche Roma, Atene e tutte le repubbliche antiche conobbero «la disunione intra i nobili e la plebe» (proemio 7). Firenze è però sicuramente l’archetipo di una città «armiger[a] e disunit[a]», piena di disordini e di tumulti che avrebbero distrutto ogni altra, a tal punto che M. osserva:
E senza dubio, se Firenze avesse avuto tanta felicità che, poi che la si liberò dallo Imperio, ella avesse preso forma di governo che l’avesse mantenuta unita, io non so quale republica, o moderna o antica, le fusse stata superiore, di tanta virtù d’arme e di industria sarebbe stata ripiena (proemio 11).
Le divisioni interne di Firenze hanno fatto nascere delle vere e proprie guerre, che si alternano con le guerre esterne, come viene rilevato nel discorso del gonfaloniere Luigi Guicciardini (si veda III xi 6) oppure in IV xv 6: «Seguita la pace di fuora, ricominciò la guerra dentro». Si nota d’altronde che il lessico adoperato da M. per descrivere le lotte interne è quello medesimo che adopera per parlare delle guerre esterne: ci sono «zuffe» e, una volta, «battaglia» (II xli 3), «amici» e «nemici», «vincitori» e «vinti», «morti» e «feriti»; i cittadini «si armano», «pigliano o prendono le armi», «la città è tutta in arme»; «si viene alle armi», «si fa testa», «si assalta e si combatte il nemico».
Tornando all’Arte della guerra, anche la considerazione di Fabrizio sull’utilità dell’«ordinarsi» alle armi significa, in generale, che l’uso disordinato delle armi e le guerre interne che esso può provocare sono nocivi, ma si indirizza, in particolar modo, a Firenze, città disunita. Si torna alla scelta dell’ordine romano, che significa qui scegliere le buone armi e «quelle inimicizie che intra il popolo ed il senato nascessino, tollerarle» (Discorsi I vi 37), perché da quei tumulti tra la plebe e i grandi possono nascere «leggi e ordini in beneficio della publica libertà» (I iv 7).
In M. appaiono spesso espressioni come ‘tempo/i di guerra’ e ‘tempo/i di pace’, poiché tener conto dei tempi e della loro qualità è di importanza fondamentale. Si pensi al cap. xxv del Principe, nel quale, per spiegare «che dua, diversamente operando, sortiscono el medesimo effetto: e dua, equalmente operando, l’uno si conduce al suo fine e l’altro no» (§§ 14-15), M. afferma che ciò «non nasce da altro, se non da la qualità de’ tempi che si conformano, o no, col procedere loro» (§ 13). Si veda anche nei Discorsi, dove M. ribadisce l’idea secondo la quale «la cagione della trista e della buona fortuna degli uomini è riscontrare il modo del procedere suo con i tempi» (III ix 2), traendone la tesi sulla superiorità delle repubbliche sui principati:
Quinci nasce che una republica ha maggiore vita e ha più lungamente buona fortuna che uno principato, perché la può meglio accomodarsi alla diversità de’ temporali, per la diversità de’ cittadini che sono in quella, che non può uno principe (III ix 11).
Sarebbe errato pensare alla semplice ripresa di un modo di dire frequente nella tradizione romana, giuridica e biblica (Cicerone, De Oratore III 55; costituzione imperatoriam maiestatem delle Institutiones di Giustiniano; Ecclesiaste III 8). Questa distinzione, se viene ripresa solo per descrivere una situazione obiettiva (si svolge o no una guerra), è necessaria quanto generica. M. l’adopera sia nei testi politici, storici e militari, sia nelle lettere, commissarie e scritti di governo; ma si sente che, dietro la formula generica, sono presenti analisi, almeno implicite, della situazione, analisi che si possono ricostruire dagli effetti che si sperano o che si temono, o dalle azioni che bisogna esercitare. La questione centrale, l’esito favorevole o meno di un’azione politica e militare, è decisamente legata ai tempi e, secondo la qualità dei tempi, il modo in cui si procede avrà risultati differenti. Si veda come esempio Discorsi II xxiv, in cui
M. riflette sull’utilità delle fortezze; la conclusione della prima parte della sua analisi è la seguente:
se tu fai le fortezze, le sono inutili ne’ tempi di pace, perché ti danno più animo a fare loro male; ma ne’ tempi di guerra sono inutilissime, perché le sono assaltate dal nimico e da’ sudditi, né è possibile che le faccino resistenza e all’uno e all’altro. E se mai furono disutili sono ne’ tempi nostri, rispetto alle artiglierie, per il furore delle quali i luoghi piccoli, e dove altri non si possa ritirare con gli ripari, è impossibile difendere, come di sopra discorremo (II xxiv 11-12).
C’è una specie di graduazione dell’inutilità secondo i tempi. In tempo di pace, le fortezze sono «inutili» perché «ti dànno più animo a fare loro [ai sudditi] male», e quindi ne provocano l’odio: si prepara così l’assalto congiunto, e la vittoria sicura, dei nemici e dei sudditi in tempo di guerra, quando le fortezze si manifestano «inutilissime». D’altronde, bisogna anche distinguere fra i tempi di guerra: «ne’ tempi nostri», un fatto militare nuovo – l’esistenza delle artiglierie – rende ancora più inutile e dannoso il ricorso alle fortezze. Nell’uso di M. la complessità dei momenti storici va sempre indagata. Il modo in cui, per l’appunto, le ‘arti (o i modi) della pace’ e le ‘arti (o i modi) della guerra’ vengono adoperate secondo i tempi ne è un altro indizio, proprio perché non c’è adeguatezza necessaria tra i modi della guerra e i tempi della guerra, né tra le arti della pace e i tempi della pace. Abbiamo già visto, in Principe xiv 11, che Filopemene, principe degli Achei, «ne’ tempi della pace non pensava mai se non a’ modi della guerra»; ma anche un caso molto differente e quasi opposto si verifica quando, a due riprese, in Discorsi I xxxiii 18, M. spiega che per i vicini di Roma sarebbe stato «più salutifero con gli modi della pace cercare di placarla e ritenerla addietro, che coi modi della guerra farle pensare ai nuovi ordini e alle nuove difese»; e, di nuovo, a proposito del tentativo degli Etruschi di «estinguere il nome romano»: «se i Veienti fussono stati savi eglino arebbero, quanto più disunita vedevono Roma, tanto più tenuta da loro la guerra discosto, e con l’arti della pace cerco di oppressargli» (II xxv 7).
Si può vedere la complessità dell’analisi di una situazione storico-politica precisa in un passaggio di una lettera a Francesco Vettori, del 26 agosto 1513, quando i due «compari» discutono della pace auspicabile per l’Italia e per Firenze. Vettori vorrebbe una pace fondata su un’alleanza antifrancese che convincesse il re di Francia a ritirarsi dalla Lombardia, mentre M. vorrebbe una pace fondata sull’alleanza del papa con la Francia. L’insieme della corrispondenza tra i due, che prosegue durante tutto il mese d’agosto, è interessante proprio per il nesso tra g. e p., tra operazioni belliche, alleanze e pace. Basti qui citare un passo della lettera a Francesco Vettori del 26 agosto, peraltro molto nota perché felicissima letterariamente:
E quanto allo stato delle cose del mondo io ne traggo questa conclusione: che noi siamo governati da così fatti principi, che hanno, o per natura o per accidente, queste qualità: noi abbiamo un papa savio, e per questo grave et rispettivo; uno imperadore instabile e vario; un re di Francia sdegnoso e pauroso; un re di Spagna taccagno et avaro; un re di Inghilterra ricco, feroce e cupido di gloria; e svizzeri, bestiali, vittoriosi et insolenti; noi altri di Italia poveri, ambitiosi e vili; gli altri re, io non li conosco. In modo che, considerato queste qualità con le cose che di presente corrono, io credo al frate che diceva «Pax, pax, et non erit pax», e cedovi che ogni pace è difficile, così la vostra come la mia.
Considerazioni stilistiche a parte (molti hanno giustamente ravvicinato il quadro della qualità dei principi al prologo della Mandragola: «Un amante meschino, / un dottor poco astuto, / un frate mal vissuto, / un parassito di malizia el cucco, / fien questo giorno el vostro badalucco»), va sottolineato che per analizzare una certa qualità dei tempi è necessario anche conoscere la qualità degli uomini, cioè il loro modo abituale di procedere. Ma è anche notevole l’allusione alle prediche del frate, Girolamo Savonarola, e la citazione delle sue formali parole «Pax, pax, et non erit pax» (questo modo di dire, frequente nelle prediche, viene adoperato per la prima volta dal frate nella predica del 20 genn. 1495: Prediche sopra i Salmi, a cura di V. Romano, 2° vol., 1974, p. 109). Si può insomma cercare la pace, ma bisogna sapere che la guerra è più che probabile, e forse anche necessaria per ottenere detta pace: g. e p. nel carteggio pubblico e privato funzionano spesso come un binomio in cui i due termini sono indissociabili, ognuno dei due essendo utile per pensare l’altro, anche perché la ‘qualità dei tempi’ fa sì che si possa passare rapidamente da una situazione all’altra. Le ultime parole di M. – «e cedovi che ogni pace è difficile, così la vostra come la mia» – non significano altro: ogni pace è difficile appunto perché una situazione politico-militare è un groviglio di elementi diversi, legati tra loro e dipendenti uno dall’altro.
Un esempio emblematico del complesso nesso tra g. e p. viene dato anche dal modo in cui le «arti della pace» (sintagma che compare due volte nei Discorsi, ma non altrove nell’opera machiavelliana) e la religione servirono a rafforzare la capacità militare di Roma. In Discorsi I xi, Della religione de’ romani, M. spiega così l’importanza di Numa Pompilio: dopo Romolo, dal quale Roma «[ha] a riconoscere, come figliuola, il nascimento e la educazione sua», Numa Pompilio
trovando un popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione come cosa al tutto necessaria a volere mantenere una civiltà (I xi 3). E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a comandare gli eserciti, animire la Plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare i rei. Talché, se si avesse a disputare a quale principe Roma fusse più obligata, o a Romolo o a Numa, credo più tosto Numa otterrebbe il primo grado: perché, dove è religione facilmente si possono introdurre l’armi e dove sono l’armi e non religione, con difficultà si può introdurre quella (I xi 8-9).
M. tratta nuovamente di Numa Pompilio nel capitolo I xix, dove l’intento è del tutto differente, poiché si vuole dimostrare che «dopo uno eccellente principe si può mantenere uno principe debole; ma dopo uno debole non si può con un altro debole mantenere alcuno regno» (I xix 1). Per M. «in Roma era necessario che surgesse ne’ primi principii suoi un ordinatore del vivere civile» (e quindi il ruolo di Numa è stato indubbiamente utile), ma quel re «quieto e religioso» faceva correre un rischio alla città; il rischio appare chiaramente esplicitato – e viene espresso in chiave di gender – nell’opposizione tra virtù ed effeminatezza: «era bene poi necessario che gli altri re ripigliassero la virtù di Romolo, altrimenti quella città sarebbe diventata effeminata, e preda de’ suoi vicini» (§ 3). E d’altronde, solo la «virtù di Romolo» «potette dare spazio a Numa Pompilio di potere molti anni con l’arte della pace reggere Roma» (I xix 11). Il rischio di vedere Roma «effeminata» fa perfino dimenticare che la religione, introdotta da Numa, serve innanzitutto a far la guerra come M. aveva osservato in Discorsi I xi 9. La contrapposizione virtù=guerra/effeminatezza=pace viene del resto ripresa allorché M. tratta del quarto re di Roma, Anco Marzio,
in modo dalla natura dotato che poteva usare la pace e sopportare la guerra. E prima si dirizzò a volere tenere la via della pace, ma subito conobbe come i vicini, giudicandolo effeminato, lo stimavano poco: talmente che pensò che a volere mantenere Roma bisognava volgersi alla guerra, e somigliare Romolo, e non Numa (I xix 11-12).
Questa formula si trova in una replica di Fabrizio Colonna, nell’Arte della guerra, che citiamo per esteso:
E perché voi allegasti me, io voglio esemplificare sopra di me; e dico non aver mai usata la guerra per arte, perché l’arte mia è governare i miei sudditi e defendergli e, per potergli defendere, amare la pace e saper fare la guerra. E il mio re non tanto mi premia e stima per intendermi io della guerra, quanto per sapere io ancora consigliarlo nella pace (I 108-09).
Fabrizio, prendendo sé stesso a esempio, sviluppa una tesi sul modo in cui gli uomini devono considerare la guerra e la pace; non si tratta più di insistere sulla necessità della guerra o sui pericoli che può far correre la pace a una città, e nemmeno di analizzare il modo di agire in funzione della «qualità de’ tempi». Si tratta di una posizione in fondo etica di fronte all’alternativa guerra/pace. Fabrizio potrebbe sembrare troppo retorico o volutamente evasivo, soprattutto quando aggiunge che, se un re «arà intorno, o troppi amatori della pace o troppi amatori della guerra, lo faranno errare» (I 110), osservazione che sembra evocare la famosa (e, per M., inesistente) «via del mezzo». Bisogna comprendere la formula di Fabrizio alla luce di due tesi importanti di Machiavelli. La prima è quella della necessità che nessuno prenda la guerra per mestiere («usare la guerra per arte»), al di fuori di chi comanda, principe o repubblica (cfr. Principe xiv 1). La seconda è legata alla necessità di agire tenendo in conto i tempi che corrono, la «qualità de’ tempi» appunto: il che richiede analisi attenta e «occhio buono». Mettendo queste parole in bocca a Fabrizio, M. rischia di farne quell’uomo prudente capace di variare secondo la qualità dei tempi e di mutare il proprio modo di procedere, di cui discorre in Principe xxv 16 e di cui si afferma l’inattualità («Né si truova uomo sì prudente che si sappia accommodare a questo»). Ma la posizione etica che consiste nel non scegliere a priori la guerra o la pace, nel non essere troppo amatore della pace o troppo amatore della guerra, permette almeno che la possibilità di agire prudentemente non sia esclusa. E permette altresì che si consideri legittimo in casi estremi, come nella campagna della primavera 1527, di «farla alla impazzata», giacché «spesso la disperazione trova de’ rimedii che la elezione non ha saputi trovare» in una situazione «dove la pace è necessaria e la guerra non si puote abandonnare» (M. a Francesco Vettori, 16 apr. 1527). Ancora una volta, come M. aveva scritto più di vent’anni prima concludendo il primo Decennale, «ma sarebbe il cammin facil e corto / se voi el tempio riaprissi a Marte».
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