Guerra e Resistenza
Nel 1939 la totalità dei cristiani italiani si considerava inserita a pieno titolo nella comune patria italiana. Differenti erano naturalmente le condizioni delle diverse confessioni, se solo si considerano gli effetti delle decisioni del 1929: Patti Lateranensi e Concordato da una parte, legge sui culti ammessi dall’altra. Il rapporto con lo Stato italiano risentiva dunque sia delle precedenti vicende legate al Risorgimento e all’epoca liberale, sia degli effetti delle profonde innovazioni portate dal fascismo.
Per quanto concerneva i cattolici romani, per loro erano ormai lontani gli anni della lacerazione con lo Stato unitario e della presa di distanze rispetto alle sue imprese guerresche, come era (almeno in parte) avvenuto al tempo dei tentativi di espansione coloniale di Crispi. A partire dall’impresa libica del 1911-1912, infatti, i cattolici si erano sempre più appropriati dei miti e dei sentimenti patriottici, dando vita a una sorta di ‘nazionalismo cattolico’ nel quale confluivano – secondo modalità e misure variabili – idealità neoguelfe e cedimenti alla propaganda politica coeva, genuini sensi di appartenenza a una comunità nazionale e disponibilità al sacrificio personale e collettivo. Il tutto poteva di volta in volta colorarsi anche di spinte anti-islamiche (come al tempo della guerra di Libia) o anti-austriache (tra 1915 e 1918) oppure di idealità missionarie e ‘civilizzatrici’ (durante la guerra d’Etiopia) o ancora di tonalità da crociata anticomunista (per la partecipazione alla guerra civile di Spagna). Tratto comune era l’assenza di una lucida riconsiderazione dei rapporti tra la fede e la politica e tra la Chiesa e lo Stato, in quanto lo sfondo rimaneva perlopiù ‘populistico-retorico’ e l’atteggiamento quello entusiastico e ingenuo dei neofiti nei confronti dello Stato nazionale uscito dal Risorgimento1.
Preceduto da una diffusa adesione alla decisione di Giolitti di ‘andare a Tripoli’, il nuovo atteggiamento patriottico dei cattolici italiani fu pienamente sancito dalla Grande guerra. Inizialmente neutralisti – nella scia del papa Benedetto XV –, i cattolici accettarono le decisioni del re e di Salandra di portare il paese all’intervento armato. Si trattò all’inizio di un’adesione dettata più dal principio dell’obbedienza agli ordini dell’autorità costituita che da un’intima convinzione, ma ogni possibile remora fu superata quando anche i giovani cattolici cominciarono a morire nelle trincee. La stampa cattolica di ogni genere diede ampio risalto a queste perdite e alla presenza al fronte dei soci delle proprie associazioni. Per la verità, questo atteggiamento non fu totalizzante, perché per tutto il corso del conflitto rimasero nel corpo della Chiesa cattolica italiana ampie zone di neutralismo e di aspirazione alla pace, come ben testimoniato dalle varie forme di repressione attuate dal governo contro manifestazioni di natura pacifista. L’opera di un ‘agitatore’ come Guido Miglioli costituisce soltanto il momento più visibile di un disagio spesso meno evidente ma anche più esteso, che ben rispondeva all’estrazione contadina di dirigenti e di semplici fedeli. Ma ciò che apparve in primo piano fu l’impegno dei religiosi come Gemelli e Semeria, nonché la disponibilità patriottica di tantissimi preti chiamati al servizio militare (tra i quali uomini destinati a un futuro diverso, come don Angelo Roncalli e don Primo Mazzolari)2. Così, significativi fermenti come quelli del napoletanoGennaro Avolio o del gruppo torinese del «Savonarola» (che relativizzava il concetto di patria rispetto ai valori del Vangelo) rimasero del tutto minoritari: da citare tuttavia il fatto che a Torino il cattolico Alessandro Favero avviasse fruttuosi rapporti con il pastore valdeseUgo Janni3.
In ogni caso – se non si tiene conto di talune frange estreme, pronte in seguito a farsi clericofasciste – i cattolici di quegli anni cercarono di differenziarsi dal nazionalismo vero e proprio, non potendo accedere all’assolutizzazione dello Stato e all’esaltazione della violenza fine a se stessa. Il magistero di Benedetto XV, tra l’altro, si muoveva in ben diversa direzione, per quanto fosse scarsamente ascoltato dai cattolici dei vari paesi europei in guerra. Ma le distanze dal nazionalismo rimasero evidenti nei decenni successivi, trovando spazio dapprima nell’apertura del Partito popolare verso la collaborazione internazionale e la Società delle nazioni e poi nei ripetuti sforzi di delineare un profilo dei corretti rapporti tra le nazioni, muovendosi sul piano del diritto internazionale attraverso l’opera non solo di uomini allora isolati comedon Luigi Sturzo, ma anche di studiosi dell’Università Cattolica di Milano, di padri gesuiti e di esponenti di vario genere, fino alla pubblicazione del Codice di morale internazionale (Malines, 1937)4. Del resto, in quello stesso periodo, furono compiuti anche i primi passi per riconsiderare la tradizionale dottrina della ‘guerra giusta’, pur rimanendo in sostanza nell’altrettanto tradizionale ambito che riteneva possibile, sì, il definitivo superamento del ricorso allo strumento bellico, ma a condizione di ricostituire un regime di cristianità attorno all’autorità della Chiesa romana. Insomma, le riflessioni su guerra e pace si svilupparono in quegli anni in modo piuttosto eterogeneo, alternando richiami alle concezioni usuali, pessimismi e sensi di impotenza, appelli alla regolazione internazionale dei conflitti, ma anche accettazione della politica estera fascista5.
Nei primi anni Venti – di fronte sia al ‘biennio rosso’ e all’aggressività socialista sia all’avanzata fascista – i cattolici poterono però rivendicare la loro massiccia partecipazione alla guerra appena conclusa. L’esperienza fatta in trincea fu utilizzata inizialmente anche in chiave antifascista, per negare alla radice l’identificazione compiuta dai seguaci di Mussolini tra fascismo e patriottismo. Furono soprattutto molti popolari a rivendicare con orgoglio la propria piena partecipazione allo sforzo italiano. Questa rivendicazione si mantenne robusta anche negli anni successivi, quando la rivalità tra fascismo e cattolicesimo assunse forme più morbide e latenti e anzi fu nascosta sotto la coltre della retorica e del conformismo. Per tutti gli anni Venti e Trenta, per esempio, si provvide a diffondere il modello del cristiano combattente, patriota ed eroe, additandolo alle giovani generazioni: proliferarono così le pubblicazioni dedicate alle figure del ‘capitano santo’ Guido Negri e di Giosuè Borsi6. Del resto, tutto il periodo – e per la verità anche la successiva epoca della guerra fredda – fu contrassegnato dal reiterato ricorso a linguaggi militareschi, usati pure per esprimere le più pacifiche forme di apostolato, nonché dall’ampia diffusione di santini e immagini di ogni genere, nei quali le armi e le divise erano più che in bella vista7.
Il punto culminante di questo cattolicesimo nazional-patriottico e combattente fu raggiunto in occasione dell’attacco dell’Italia all’Etiopia, in specie dopo il varo delle sanzioni da parte della Società delle Nazioni. La ‘giornata della fede’ (18 dicembre 1935) fu caratterizzata dall’adesione massiccia di vescovi, preti e fedeli laici, con toni tanto parossistici e acritici da suscitare preoccupazione nella stessa Santa Sede8. Il ricorso alle armi divenne nuovamente uno strumento per l’espansione della fede oppure per la tutela della cristianità minacciata, come – in modo ovviamente diverso e con ben altre motivazioni – si verificò per giustificare la ‘crociata’ combattuta in terra di Spagna in funzione anticomunista.
Con queste premesse, ci si sarebbe potuto aspettare un immediato ed entusiastico sostegno dei cattolici italiani alla decisione di Mussolini di portare l’Italia alla guerra contro la Francia e la Gran Bretagna. Questo sostegno, per la verità, ci fu e fu piuttosto solido, ma – come si vedrà – senza particolari entusiasmi.
Il fatto è che i quattro anni trascorsi dal maggio 1936 – il mese della vittoria in Etiopia e della proclamazione dell’Impero – al giugno 1940 avevano notevolmente incrinato i rapporti tra Chiesa italiana e regime. A parte il progressivo irrigidimento di Pio XI verso i totalitarismi nazista e fascista, che incontrò forti resistenze anche all’interno della curia vaticana e che si concluse con la morte del pontefice il 10 febbraio 19399, sul tavolo dei rapporti tra Chiesa eMussolini si sovrapposero le preoccupazioni per l’avvicinamento apparentemente irreversibile dell’Italia alla Germania ‘pagana’, i nuovi vivaci scontri sull’Azione cattolica tra il 1938 e il 1939 e, solo in parte, l’approvazione delle leggi razziali. Solo in parte, in quanto la Chiesa era sostanzialmente disposta ad accettare misure restrittive dei diritti degli ebrei ed era critica, semmai, per quanto concerneva le questioni matrimoniali per le quali rivendicava autorità assoluta sulla base delle norme concordatarie10. In ogni caso, tutti questi segnali di distacco dal regime non vanno esagerati nei loro effetti, in quanto – complessivamente parlando – l’appoggio della Chiesa, in tutte le sue componenti, continuò a rimanere piuttosto saldo ancora per diversi anni, più o meno fino alle svolte del 1942-1943. Tra l’altro, la successione di Pio XII a Pio XI, ormai apertamente inviso a Mussolini, contribuì a smussare le punte più acute del contrasto.
L’attacco tedesco alla Polonia del 1° settembre 1939, con il conseguente inizio della Seconda guerra mondiale, mise in imbarazzo Mussolini, consapevole dell’impreparazione italiana a condurre una guerra lunga, ma anche la Santa Sede e i cattolici italiani. Tutte le già radicate e solide diffidenze dei cattolici italiani verso Hitler e il nazismo ebbero la possibilità di esprimersi sotto il segno di un corale appoggio – e di corali preghiere – alla causa polacca. Le simpatie per la ‘cattolicissima’ nazione slava si mescolarono così con i ripetuti appelli a pregare affinché la guerra potesse concludersi presto, senza coinvolgere altri Stati oltre a quelli già scesi sul campo di battaglia. Le dichiarazioni filopolacche furono abbastanza diffuse e pubbliche e coinvolsero anche preti ben visti e anzi esaltati dal fascismo, come don Luigi Orione, il quale nella sua Tortona propose gesti clamorosi di solidarietà con i seminaristi polacchi costretti a tornare in patria a causa della guerra11.
In tutta questa fase iniziale della guerra Pio XII sfruttò ogni strumento a sua disposizione per impedire prima, e per circoscrivere poi, la guerra stessa, moltiplicando gli appelli pubblici, le esortazioni per la pace e il lavorio diplomatico, constatando ben presto la sua assoluta impotenza. Di fronte al conflitto ormai divampato, egli scelse una linea di rigorosa imparzialità tra le parti in causa, fino a giungere a un discusso silenzio anche sugli aspetti più tragici, quali i bombardamenti, la politica del terrore, le deportazioni e soprattutto il genocidio degli ebrei (e dei rom e sinti), resistendo sia alle sollecitazioni interessate delle varie parti in causa, sia a quelle più nobili di singoli ecclesiastici. Consapevole egli stesso della discutibilità di questa linea – che fu accompagnata dalla sollecitazione alla Chiesa tutta a concentrarsi sugli aiuti umanitari e assistenziali –, e spinto da diverse motivazioni, Pio XII innescava così un problema di enorme portata per gli storici futuri12.
Anche i tentativi e le speranze di trattenere l’Italia fuori dal conflitto, appoggiandosi a gerarchi come Ciano, si scontrarono con una crescente impotenza, determinata dal complesso percorso che portò infine Mussolini alla decisione dell’intervento. Esemplare risulta l’accoglienza fredda e sarcastica del Duce alla lettera indirizzatagli dal papa il 27 aprile 194013.
Tra gli elementi di frizione tra Chiesa e governo italiano, in quei mesi, stava anche la crescente irritazione di Mussolini per la diffusione di manifestazioni religiose di ogni genere in favore della pace. Il quadro è piuttosto ampio e comprende pellegrinaggi ai santuari, cicli di preghiera, omelie di preti, diffusione di bollettini parrocchiali e di immaginette, magari riproducenti la preghiera per la pace di Benedetto XV. Tutto ciò esprimeva indubbiamente un esteso sentimento popolare, destinato tuttavia a essere per quanto possibile represso e comunque incanalato nel sostegno patriottico all’Italia ormai belligerante, anche se continuarono, almeno privatamente, a serpeggiare giudizi critici e preoccupazioni sul futuro, anche tra numerosi parroci14. Infatti, una volta dichiarato l’intervento dell’Italia, la posizione ufficiale della Chiesa, manifestata in tutti i modi dall’episcopato nazionale, fu quella di ribadire la piena accettazione della volontà dei governanti e la totale disponibilità dei cattolici allo sforzo della patria. Parole come ‘obbedienza’, ‘disciplina’, ‘dovere’, ‘sacrificio’ e simili risuonarono in tutte le lettere dei vescovi e da tutti i pulpiti italiani. Mancavano, tuttavia, quegli entusiasmi che si erano manifestati al tempo dell’Etiopia e delle sanzioni. Un punto fondamentale, al riguardo, è costituito dai giudizi di parte cattolica sulle cause del conflitto. Questa volta risultavano assenti, difatti, i temi cari alla propaganda del regime e si preferiva soffermarsi sulla valutazione della guerra come ‘castigo di Dio’. Numerosi sono gli esempi che si possono addurre al riguardo e che coprono quanto meno l’intero periodo 1939-194315. Ritornava lo schema secondo il quale la guerra era provocata dall’ateismo e dall’immoralità dilaganti, riprendendo la vecchia idea che solo il ritorno alla ‘civiltà cristiana’ avrebbe potuto impedire tali enormi mali. Al tempo stesso, però, parlare di guerra come ‘castigo’ significava riprendere vecchissimi criteri di valutazione, quelli che – in un’Europa contadina – abbinavano la guerra alla peste, o alla carestia: un fenomeno da cui non era possibile difendersi. Due osservazioni vanno formulate al riguardo: la prima è che la tesi del ‘castigo’ era la più facile da formulare in quanto non richiedeva un ben più impegnativo e pericoloso approfondimento delle responsabilità politiche dei governanti e degli Stati. Il che, peraltro, poteva significare sia debolezza analitica, sia volontà di non toccare terreni sui quali sarebbe stato inevitabile lo scontro con il regime. Ma, ed è la seconda osservazione, insistere sulla guerra come ‘castigo’ significava ipso facto mettersi su un piano del tutto eterogeneo rispetto agli appelli nazionalistici e bellicosi di Mussolini e rafforzare di conseguenza i sospetti, se non l’irritazione, dei fascisti.
Un caso del tutto particolare, ma che va citato, riguarda i Testimoni di Geova, i cui aderenti continuarono a manifestare il loro rifiuto di usare le armi anche nel periodo 1940-1943: a loro carico proseguirono dunque le misure repressive, comprendenti anche il carcere e il confino16.
Riferendosi all’intero periodo che va dal 1940 al 1943, Renato Moro ha parlato tempo fa di una «linea ondulatoria» dei cattolici italiani17. Questa si sarebbe manifestata nell’alternarsi di momenti di fervore patriottico ad altri di maggiore cautela e anzi di segnali di distacco e di ragionamento sul futuro. Così, nella seconda metà del 1940 dopo la sconfitta della Francia e l’apparente invincibilità delle forze dell’Asse, si ebbero varie manifestazioni di piena condivisione dello sforzo bellico italiano, testimoniato dal discorso di Pio XII all’Azione cattolica (4 settembre), dalle grandi adunate della medesima associazione (novembre), dalla rinnovata consacrazione dei soldati italiani al Sacro Cuore, dalle preghiere speciali per l’Italia e ancora dall’appello dell’Azione cattolica, decisamente più sbilanciato rispetto al recente passato. Ma nel corso del 1941 sarebbe subentrato un certo qual senso di nuova freddezza – anche per le sconfitte militari –, che neppure l’attacco all’Unione Sovietica avrebbe superato del tutto.
Che sul tema della guerra italiana i rapporti tra Chiesa e governo fossero tutt’altro che idilliaci – malgrado l’apparenza di una piena o quasi piena concordanza – è dimostrato da diversi episodi. Anzitutto la persistenza delle proteste fasciste per il tono di molti bollettini parrocchiali, ritenuti troppo ‘pacifisti’, se non ‘disfattisti’. Anzi, si verificò addirittura il caso del sequestro in piena regola della lettera pastorale per la quaresima del 1941 del vescovo di Cremona, monsignor Cazzani, che riprendeva con forza ritenuta eccessiva il tema della guerra come ‘castigo’. Più capillarmente davano fastidio al regime i tanti bollettini parrocchiali con i loro inviti a pregare per la pace e così il governo alternò in quei mesi il bastone della repressione e dei sequestri, alla carota delle pressioni amichevoli sui vescovi. Tra gli altri si mosse anche l’ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Attolico, che fece personalmente le sue rimostranze al cardinale Schuster per il «carattere pacifistico» della stampa cattolica «non corrispondente agli intendimenti del Governo e ai bisogni del momento»18. Che da entrambe le parti si percepisse un clima di diffidenza e si temesse qualcosa di peggio è esemplificato pure dalla missione affidata a monsignor Antonio Samorè, allora minutante presso la Segreteria di Stato, che fu inviato nell’Italia settentrionale a comunicare oralmente le disposizioni della Santa Sede ai vescovi su come comportarsi nel caso di una provocazione da parte dei fascisti più intransigenti19.
Le tensioni maggiori si verificarono tuttavia sulla questione dell’«odio» verso il nemico. L’incessante propaganda in tal senso, rivolta soprattutto verso gli inglesi e sostenuta da tutti i media del regime provocò – specie tra il 1941 e il 1942 – continue messe a punto da parte del clero, questa volta adeguatamente sostenuto dall’episcopato. Ancora monsignor Cazzani a Cremona si rese protagonista di gesti pubblici al riguardo, mentre anche il pastore Tullio Vinay ebbe noie per il suo ‘disfattismo’ e l’insistenza nel richiamare i valori evangelici20. Al regime che parlava di ‘pietismo’, preti e pastori rispondevano che la partecipazione allo sforzo bellico della patria non poteva giustificare il ripudio del precetto evangelico secondo il quale bisognava amare anche il proprio nemico. Di nuovo si confrontavano qui due logiche opposte, che mettevano in discussione la concezione stessa della guerra, ma – più in radice – della patria e dello Stato: inevitabile, tutto ciò, nell’ottica di un conflitto totale e quindi ideologizzato in massimo grado.
L’attacco all’Unione Sovietica scatenato da Hitler il 22 giugno 1941 e seguito poi dalla diretta partecipazione italiana convinse qualche prete a manifestare maggiore entusiasmo. Ma il calcolo fatto da Mussolini, quello cioè di sfruttare l’occasione per sollecitare un maggior entusiasmo da parte della Chiesa in nome della comune crociata antibolscevica, fallì. Se da una parte non potevano sussistere dubbi su ciò che la Chiesa pensasse del regime di Stalin (dopo tutto la Divini Redemptoris era uscita soltanto quattro anni prima), il Duce sottovalutava la decisione del Vaticano di non farsi trascinare dalle pressioni tedesche e italiane e di mantenersi il più possibile su una posizione di equidistanza, anche a costo di annacquare tanta parte della polemica antibolscevica degli anni precedenti. Né va dimenticato che proprio in quelle settimane erano forti le pressioni degli Stati Uniti tramite la nota missione di Myron C. Taylor, l’inviato personale del presidente Roosevelt. Di fatto, dopo qualche entusiasmo iniziale, il regime dovette prendere atto che l’atteggiamento della Chiesa verso la guerra non era stato influenzato più di tanto dall’attacco all’Unione Sovietica, così che non mancarono a vari livelli proteste e nuove sollecitazioni21. Nelle realtà diocesane e parrocchiali, naturalmente, le cose erano più variegate e non mancavano interventi favorevoli alla ‘crociata’. Ma, probabilmente e parlando in linea generale, prevalevano le motivazioni patriottiche, più che quelle ideologiche, nel sostegno allo sforzo dei militari italiani in Unione Sovietica: così, almeno, nei casi di due personalità come Teresio Olivelli eAlcide De Gasperi22. Si comprende dunque il duro sfogo dello stesso Mussolini nel suo discorso al direttorio nazionale del Pnf del 3 gennaio 1942, allorché egli denunciò che «correnti del mondo cattolico osteggiano l’Asse», che l’alto clero non aveva ancora levato «una voce di simpatia» per chi combatteva anglicani e bolscevichi e che semmai si predicava il «pacifismo» ovvero «fare la guerra senza odiare il nemico»23.
Che il mondo cattolico, nel suo insieme, si muovesse – lentamente, ma costantemente – sulla strada della ricerca di un futuro diverso, è testimoniato, tra il 1941 e il 1942, da molteplici episodi, come ha pur sommariamente ricordato il già citato Renato Moro24. Seguirono, nel corso del 1942, le prime riflessioni sul «nuovo ordine cristiano» e infine il messaggio natalizio dedicato a L’ordine interno delle nazioni, che a sua volta innescò una robusta e decisiva serie di dibattiti e di studi, sui quali la storiografia si è ampiamente soffermata25.
Giova ricordare che proprio tra il 1941 e il 1942 don Primo Mazzolari si dedicò alla stesura di quella Risposta a un aviatore, su diretta sollecitazione del giovane sottotenente Giancarlo Dupuis, che aveva avuto occasione di ascoltare le parole del parroco di Bozzolo in occasione della ‘Pasqua universitaria’ da lui predicata a Firenze nel marzo 1941. Quel testo, che circolò allora dattilografato e clandestino in una ristretta cerchia di amici e di discepoli, poneva sul tappeto i nodi cruciali del rapporto tra patria e giustizia, tra ubbidienza e coscienza e tra fede e guerra, spingendo il suo autore sulla strada di quel rigoroso pacifismo evangelico che si sarebbe manifestato negli anni della guerra fredda26.
Il comportamento della diplomazia vaticana e in generale delle istituzioni ecclesiastiche in favore dell’Italia prima e dopo l’armistizio è stato ampiamente considerato, dapprima dando spazio – anche in maniera eccessiva e innestando comunque una lunga e peraltro proficua discussione sui disegni di ‘successione cattolica’ al fascismo – alla nota offerta di Gedda, cercando in seguito di formulare un quadro molto più ampio e distaccato. In realtà la gerarchia – già coinvolta ai suoi più alti livelli vaticani nella fitta ragnatela di contatti diplomatici e politici che precedettero il 25 luglio – non possedeva in quei mesi un progetto univoco sull’Italia del futuro. Certamente nei Sacri palazzi esistevano forti preoccupazioni, paventando soprattutto una forte spinta popolare che avrebbe offerto grandi possibilità di manovra al Partito comunista; vi era poi il timore di vedere messe in discussione le conquiste compiute nell’ultimo ventennio all’interno della società italiana. Per il resto non poteva che essere diffuso un clima di incertezza e di attesa, anche per la presenza di varie prospettive sul futuro del paese, variando dalla piena accettazione del sistema democratico alle ipotesi più o meno autoritarie e conservatrici. In definitiva la linea prevalente e al momento condivisa da tutti, seppure con accenti talora diversi e contrastanti, fu quella di insistere sui doveri di concordia patriottica e nazionale attorno al governo, fosse pure quello di Badoglio, come in precedenza era stato quello di Mussolini. E dunque: appelli all’ordine, alla disciplina e alla ‘pacificazione’, auspici di evitare vuoti di potere, denuncia di atti rivoluzionari, desiderio di portare il più rapidamente possibile l’Italia fuori della guerra. Su questa linea si registrò la mobilitazione massiccia dei vescovi, mentre la stessaAzione cattolica sottolineò la difesa della propria apoliticità, il rinnovato appello all’ubbidienza alle autorità costituite e la speranza di poter promuovere ‘soluzioni’ cristiane ai grandi problemi della società27. In quei mesi, peraltro, la preparazione diretta da De Gasperi di un partito erede del vecchio Partito popolare e capace di ridare spazio a una presenza politica dei cattolici, era ormai avanzata e si andava sovrapponendo alle tante iniziative che il radiomessaggio natalizio del 1942 aveva stimolato e che ruotavano attorno ai più diversi ambienti cattolici italiani28.
I fragili e incerti equilibri stabiliti il 25 luglio svanirono come neve al sole l’8 settembre. Anche in questa circostanza i cattolici italiani manifestarono tutte le proprie differenze e, in definitiva, la propria eterogeneità. Atteggiamenti diffusi tra clero e fedeli furono quelli che denotavano l’illusione e la gioia per la fine della guerra, cogliendo anche la singolare combinazione per cui l’8 settembre era la festa della Natività di Maria. Il suono festoso delle campane e persino il canto solenne del Te Deum mostrarono con immediata evidenza quanto ormai radicato fosse il rifiuto della guerra e quanto declinata non solo l’esaltazione nazionalistica ma pure il senso patriottico: si festeggiava pur sempre una resa senza condizioni e una disfatta militare senza precedenti29. Non mancarono sensibilità diverse di preti e laici che interpretarono subito in modo negativo l’annuncio dell’armistizio, come in varie località dell’Emilia-Romagna30 o di altri che percepirono – seppure in ritardo – che la Germania non sarebbe rimasta a guardare. Del resto, anche i vari vescovi – allenati a una proverbiale prudenza in queste materie – si mossero per limitare le eccessive manifestazioni di giubilo, reiterando gli appelli all’ordine e all’ubbidienza alle autorità: «Non si facciano inconsulte dimostrazioni, si mantenga la disciplina sotto il governo delle autorità costituite. Sia il contegno di tutti e di ciascuno serio e dignitoso», scriveva il 9 settembre monsignor Marcello Mimmi, arcivescovo di Bari31.
Come spesso succede, fu l’urgenza del momento a spingere a scelte che solo in parte potevano essere date per scontate. A parte il caso di ufficiali e soldati, costretti per conto loro a prendere decisioni sul da farsi al momento del disfacimento dei propri reparti di appartenenza, molti cattolici – in particolare i parroci, ma anche molti religiosi – furono inevitabilmente spinti verso l’opposizione ai tedeschi dalla propria volontà di compiere gesti di carità verso i militari in fuga. Non si trattava solo di offrire un minimo di conforto materiale e spirituale ai militari italiani, ma anche – e in questo caso si era di fronte a scelte ancor più gravide di conseguenze – di dare una mano alle migliaia di prigionieri alleati (americani, inglesi, ma anche jugoslavi, russi, ecc.) fuggiti dai numerosi campi di concentramento e dai vari luoghi di lavoro forzato diffusi in tutta le penisola, ai quali si aggiungevano gradualmente gli ebrei consapevoli di quel che per loro avrebbe significato l’occupazione tedesca e tanti altri civili preoccupati per la propria sorte. Tra i maggiori esempi si possono citare quelli di Bergamo, alle cui porte esisteva il vasto campo di prigionia della Grumellina (qui si trovavano all’8 settembre circa 4.000 prigionieri delle più varie nazionalità e di questi ben 2.500 riuscirono a fuggire32), o di Sulmona, presso la quale, nella vicinissima Fonte D’Amore, esisteva il campo n. 78, allora con circa 3.000 prigionieri di guerra, quasi tutti britannici e quasi tutti soccorsi, anche a rischio della vita33. I giorni successivi all’8 settembre, perciò, significarono per molti preti un passaggio implicito all’opposizione, molto spesso senza aver neppure maturato una pur minima coscienza politica e senza magari rendersi del tutto conto delle conseguenze cui si andava incontro. Per così dire, e parafrasando il concetto di maternage di massa, intelligentemente adottato per spiegare il comportamento delle donne italiane in quei tragici giorni, i preti compirono una funzione di paternage di massa verso i soldati.
A partire dall’8 settembre e fino al termine della guerra (e magari anche oltre, considerando gli strascichi di violenza successivi al 25 aprile), una scelta si impose se non a tutti, almeno a moltissimi italiani e pertanto a moltissimi cristiani. La necessità della scelta si impose anzitutto ai giovani maschi chiamati a servire nelle file della Repubblica sociale italiana (Rsi) oppure a passare in montagna; si impose a un grande numero di preti, sul se e sul come accettare e coprire le decisioni dei propri fedeli oppure ottemperare o meno alle esigenti richieste delle parti in campo; si impose ancora a molte donne e molte religiose, e in tal caso maturò un autentico volontariato resistenziale (o viceversa fascista repubblicano), come ha giustamente notato tanti anni fa Giuliana Beltrami Gadola, sottolineando che le donne, a differenza degli uomini, non essendo chiamate al servizio militare non erano di per sé tenute a scegliere34. Con questa libera scelta – si può aggiungere – le donne assumevano i doveri del servizio alla patria prima ancora di averne i diritti, tra i quali la partecipazione al voto: un segnale di maturazione importante e da sottolineare35.
Va subito precisato, una volta per tutte, che – facendo attenzione all’intero sistema di atteggiamenti e di comportamenti avversi alle direttive nazifasciste e recuperando di conseguenza concetti come quello di ‘Resistenza civile’ o di ‘lotta non armata’36 – il numero delle persone coinvolte in una qualche forma di Resistenza lievita notevolmente rispetto ai calcoli effettuati sui soli partigiani combattenti. Analogamente, anche il numero dei sostenitori della Rsi fu più elevato di quel che spesso – anche spregiativamente – si afferma. Se si mette poi nel conto tutti quei militari che preferirono rimanere nei campi tedeschi piuttosto che aderire alla Rsi o alle forze naziste, si può concludere che la somma complessiva di chi comunque fece una scelta fu molto superiore rispetto a quanto entrato ormai a far parte di una vulgata non più resistenziale bensì antiresistenziale.
Alla luce delle nuove sensibilità e delle più recenti ricerche risulta elevato il numero dei cristiani che operarono per salvare tutti coloro che si trovavano in pericolo, senza badare troppo alle appartenenze religiose o politiche. Al panorama organizzativo e solidale già noto si sono aggiunti i recuperi di figure finora trascurate: da Odoardo Focherini a padre Placido Cortese e a Giovanni Palatucci (per citare solo tre tra le tante vittime cristiane della propria generosità verso i perseguitati), o di nuovi ‘Giusti tra le nazioni’, compreso un cattolico-fascista come l’ex podestà di Cagliari Vittorio Tredici37. Ovviamente l’impegno per la salvezza attraversò tutte le comunità cristiane: basti qui ricordare il nome del pastore Tullio Vinay38.
Molti sono tuttavia i problemi che attendono di essere condotti a una valutazione convincente e, per quanto possibile, ‘definitiva’. Si tratta anzitutto di comprendere meglio le condizioni – non solo esterne – nelle quali i cristiani fecero la loro scelta.
Un punto che sembra abbastanza sicuro è che pochissimi si ritrovarono preparati – culturalmente e psicologicamente – a decisioni tanto complesse e laceranti. Sono molte le testimonianze che ci sono state lasciate da resistenti di quegli anni, volte a mettere in chiaro che – salvo casi particolari – era stata «del tutto scarsa, quasi inesistente, la formazione antifascista, a meno che non si voglia comprendere in essa il disgusto per la burbanzosa faciloneria con cui era stata affrontata una guerra tanto difficile e dura»39. Del resto si era interrotto quasi ovunque – anche nelle esperienze associative più vivaci – il filo della memoria con le esperienze prefasciste e con i grandi costruttori di una politica democratica di ispirazione cattolica come quella di Sturzo o Ferrari o dello stesso De Gasperi, che i giovani non conoscevano per nulla. Lo stesso Dossetti nell’immediato dopoguerra si rivolgerà al suo maestro di spiritualità, don Dino Torreggiani, contestandogli amichevolmente: «Ci avete fatto lavorare molto, ma non ci avete educato a capire il fascismo»40. Anche Giuseppe Lazzati lasciò trasparire la sua critica temporalmente successiva verso chi «insegnava la indifferenza della chiesa per i regimi politici»41. Le eccezioni a questo stato di cose furono dettate da circostanze particolari, come in quei casi nei quali si era tramandata una memoria privata e familiare, che aveva saputo conservare il ricordo del primo dopoguerra e delle violenze degli squadristi. In questi casi il passaggio alla Resistenza avvenne sulla spinta del ricordo di quanto si era patito in famiglia nei primi anni Venti, confermando dunque le tesi su un certo legame tra violenze del primo dopoguerra e violenze del post-194342. Naturalmente, quando si pensava ai ‘metodi’ del fascismo balzavano agli occhi gli abusi e gli eccessi di violenza e odio di quei mesi, ma si raggrumavano anche i ricordi su tutti quegli elementi di anticlericalismo, virilismo, bellicismo che avevano pur segnato – magari per trame sotterranee e non esplicitate – tanta parte del tessuto quotidiano dei rapporti tra Chiesa e regime nel corso degli anni Trenta.
Di conseguenza – a livello di riflessione personale di tipo morale e culturale – nei cattolici predominarono anzitutto motivazioni che mettevano insieme il rifiuto morale del fascismo e dei suoi metodi, il senso della patria e della sua indipendenza, il ricordo – appreso a suo tempo anche sui banchi di scuola – della ‘secolare’ ostilità all’austriaco e al tedesco, o ancora il criterio della fedeltà alla dinastia sabauda intesa come rappresentante della legittimità dello Stato italiano. Il tema del ‘secondo Risorgimento’ si diffuse molto anche tra i cattolici, inteso come definitivo recupero delle ragioni del primo Risorgimento, del senso dell’unità e dell’indipendenza nazionale e della prosecuzione nello sforzo di rifondazione dello Stato che non rinnegasse tuttavia le aspirazioni alla libertà del secolo XIX. Vittorio Emanuele Giuntella ha notato che molte formazioni di matrice cattolica – anche per distinguersi da quelle comuniste – ripresero, talvolta in modo sorprendente, nomi evocativi del Risorgimento: per esempio in Veneto si ebbero brigate intitolate a Mameli, Manara, Tito Speri, Ciro Menotti, ai Fratelli Bandiera e persino a Mazzini e Pisacane, per non parlare della ‘Osoppo’ che in Friuli ricordava la difesa del forte omonimo nel 184843. Giuseppe Lazzati ha invece ricordato, parlando in termini autobiografici, di aver portato dentro di sé «il senso del Risorgimento», trasmessogli dalle memorie familiari e dalla Prima guerra mondiale, «la guerra della mia adolescenza»44. Un altro importante resistente cattolico, Paolo Emilio Taviani, fu conquistato fin da bambino dai racconti risorgimentali del nonno, tanto da spiegare di essere «dall’età di nove anni […] repubblicano ed entusiasta di Mazzini. Perché lo era il mio maestro di catechismo, il dottor Robert»45. Queste rapide citazioni pongono il problema di quanto in realtà il Risorgimento fosse penetrato e presente anche nelle famiglie cattoliche, specialmente dell’Italia settentrionale e di quanto sia opportuno evitare di farsi ancora una volta ingabbiare negli schematismi ideologici (semmai cogliendo meglio le fratture esistenti tra i cattolici, anche in base alle provenienze regionali e quindi dai vari ex Stati preunitari).
Si potrebbe perciò dire che la Resistenza costituì il punto d’arrivo della ‘nazionalizzazione delle masse cattoliche’, se è lecito parafrasare il titolo di un classico della storiografia. Il tortuoso processo iniziato nella svolta tra i due secoli e proseguito con le guerre dell’Italia dalla Libia in poi, con la formazione operata nelle trincee, nella scuola fascista e nell’associazionismo confessionale, e infine la necessità di opporsi a un nemico che sapeva di antico (rievocando magari il Barbarossa, i lanzichenecchi e ovviamente gli Asburgo), sboccava ora nella piena ripresa degli ideali risorgimentali anche da parte dei cattolici. Con l’ovvia avvertenza che del Risorgimento rimaneva estranea, almeno ai più, l’idea di uno Stato caratterizzato in senso laico o, peggio, laicista.
Il tema patriottico e risorgimentale fu portato al massimo sviluppo da quanti si trovarono a sperimentare la deportazione e i Lager. In tutta la memorialistica dei deportati cristiani risulta che la forza interiore per resistere era offerta – oltre che dallo spirito di sopravvivenza e dal ricordo degli affetti familiari – anche dalla dimensione spirituale e religiosa e dalla memoria dei martiri risorgimentali: dopo tutto erano canti risorgimentali – compreso il verdiano Va’ pensiero – quelli che i nostri militari intonavano già sui carri della deportazione. Vittorio Emanuele Giuntella, ex deportato, ha parlato del «tempo del Lager» come di «tempo di Dio», «tempo della speranza» e «tempo della grazia», pur nella consapevolezza dell’apparente paradossalità di tali definizioni e pur ammettendo che la realtà quotidiana fu fatta anche di «ore e giorni» di disperazione e di crisi, fino a costituire un «tempo dell’espiazione»46.
Dunque, più che un progetto politico netto e maturo, una rivolta morale, non a caso incarnata nella figura storica e nella memoria postuma diTeresio Olivelli. Celebre è l’affermazione solenne dello stesso Olivelli su «Il Ribelle», ma essa merita di essere riproposta anche qui:
«Siamo dei ribelli: la nostra è anzitutto una rivolta morale. Contro il putridume in cui è immersa l’Italia svirilizzata, asservita, sgovernata, depredata, straziata, prostituita nei suoi valori e nei suoi uomini [...]. La nostra rivolta non data da questo a quel momento, non va contro questo o quell’uomo, non mira a questo o quest’altro punto del programma: è rivolta contro un sistema e un’epoca, contro un modo di pensiero e di vita, contro una concezione del mondo. Mai ci sentimmo così liberi come quando ritrovammo nel fondo della nostra coscienza la capacità di ribellarci alla passiva accettazione del fatto brutale»47.
Molte di queste motivazioni – per certi versi tipiche dei laici – contraddistinsero anche le scelte dei preti. In molti casi la spontanea spinta alla carità verso le persone affamate o alla ricerca di un posto sicuro fu – come si è accennato – la spinta non prevista né prevedibile verso una decisa e definitiva scelta di campo. Il passaggio dal semplice gesto di carità verso un bisognoso o dal consiglio a un giovane alla collaborazione diretta e al sostegno materiale alla Resistenza avvenne in parte per una sorta di logica interna agli avvenimenti. In altre parole, per tanti preti (e laici) l’impegno in favore della Resistenza (nel senso più ampio del termine) si costruì con una gradualità quasi impercettibile sull’onda dei fatti concreti. Si iniziava offrendo una scodella di minestra, un pezzo di pane, un capo di vestiario usato e ci si ritrovava irrimediabilmente ‘compromessi’. Ma ciò che importava, dopo tutto, era la disponibilità a lasciarsi compromettere e di conseguenza ad assumere un ruolo attivo. Naturalmente lo storico non potrà mai sapere quanti furono quei cristiani, preti o laici, cattolici o evangelici che fossero, che invece fecero finta di non sentire e di non vedere.
L’insistenza sui doveri esclusivi della carità – come fecero tanti protagonisti, specialmente preti cattolici – rimanda all’idea di politica fatta propria da queste persone. Tradizionalmente essa possedeva una connotazione negativa: ‘politica’, per molti, era lo Stato liberale e quello fascista, entrambi colti nei loro aspetti deteriori e anticattolici, o ancora la divisione ‘innaturale’ tra le persone o l’ideologia materialista e via dicendo. Molto meglio, dunque, porsi sul piano più consono della carità e semmai della giustizia sociale, quasi che esse potessero svolgersi in quei tempi difficili a prescindere da una scelta politica almeno implicita. Questo atteggiamento fu superato da molti resistenti che procedettero sulla strada di un faticoso recupero del significato profondo della dimensione politica sia per l’evoluzione delle cose e il contatto con vecchi popolari sia per il continuo confronto con comunisti, socialisti e azionisti e dunque con partiti già formati48.
Specifica di molti preti fu la preoccupazione di salvaguardare i ‘propri’ giovani, mettendoli al sicuro dai rastrellamenti dei tedeschi e dei fascisti, nascondendoli su nelle baite di montagna. Tutto ciò si rivelò però soltanto il primo passo, in quanto il prete non solo si dovette preoccupare poi di garantire per lunghi periodi assistenza materiale e spirituale, ma si sentì costretto a vigilare sulle possibili conseguenze negative derivanti dal contatto con gli altri partigiani. In diverse situazioni, per esempio nelle vallate lombarde più tradizionalmente cattoliche, scattava la diffidenza verso i partigiani che provenivano dalla pianura e dalle città e che introducevano dunque sia costumi morali sia ideologie politiche contrarie alla tradizione: la Resistenza assumeva così anche il volto di un sorta di autodifesa della comunità locale contro ogni tipo di ingerenza esterna, fosse nazifascista o socialcomunista. Esemplare al riguardo è anche il caso del piemontese don Giuseppe Pipino, viceparroco a Carmagnola, che guidò personalmente i suoi giovani di Azione cattolica in montagna sopra Barge presso una nascente formazione; ma quando si accorse che questa si andava colorando di comunismo, salì a riprenderli e li portò in val Gesso, presso una banda meno politicizzata49.
Un discorso analogo potrebbe essere fatto per le suore, la cui partecipazione alla Resistenza è stata fin qui sottaciuta: le fonti più disparate che documentano questa partecipazione mettono difatti in luce l’urgenza delle situazioni – per esempio in quei paesi dell’Appennino emiliano nei quali la piccola comunità di suore rimase l’unica alla quale rivolgersi per avere assistenza –, la spinta al gesto di carità verso chiunque si trovasse in pericolo, la protezione accordata ai partigiani feriti ricoverati negli ospedali e così via. È sintomatico di una mentalità rigidamente clericale e maschilista il fatto che in tutti questi casi venga ricordato il nome del prete caritatevole e non quello delle suore che concretamente si presero cura di ebrei, partigiani o perseguitati50.
Ribadendo che le osservazioni fin qui fatte valgono per la generalità dei casi ma non possono essere intese in senso totalizzante, si può aggiungere ancora che le motivazioni più morali che politiche che stavano alla base dell’impegno resistenziale di molti cattolici favorirono dopo il 25 aprile una sorta di prosecuzione dell’impegno di carità avendo però come destinatari i nuovi bisognosi e cioè i fascisti. Anche in questo caso non si trattava di una scelta di tipo politico, volta a salvaguardare le energie e la vita dei fascisti sconfitti per ogni possibile futura resa dei conti con i comunisti. Urgeva invece il desiderio di realizzare una pacificazione dal basso che bloccasse sul nascere nuovi spargimenti di sangue e vendette che avrebbero posto ipoteche pesanti sul futuro dell’Italia. Dopo tutto, tra coloro che più si mobilitarono in favore dei fascisti in fuga furono alcuni tra i preti più nettamente antifascisti, come padre David Maria Turoldo e don Primo Mazzolari.
Ragionare sulle condizioni della scelta significa altresì verificare, per quanto possibile, il grado di solitudine o viceversa di condivisione, di quella scelta. Fermo restando che, di fronte a decisioni tanto impegnative, ogni coscienza rimane realmente sola, bisogna pur dire che almeno per il laicato ‘militante’ si imponeva positivamente il peso dei legami associativi e della militanza e il rapporto con un prete fidato (il ’direttore spirituale’, la cui assistenza era tanto raccomandata ai giovani). Era poi forte, in chi era già stato chiamato alle armi, l’abitudine a cercare nelle caserme altri aderenti all’associazionismo cattolico con i quali tessere nuovi legami e concordare aiuti reciproci. Chi, ancora a casa, stava meditando – spesso peraltro entro brevissimi spazi temporali – sul da farsi, poteva consigliarsi con i familiari e più ancora con gli amici e con il proprio prete (e si è già accennato all’opera svolta da questi in varie valli prealpine e alpine). Da questi dialoghi, per lo più immediati, in quanto fondati su una fiducia già consolidata, nacque la decisione di salire o no in montagna.
In Lombardia la scelta di molti giovani fu mediata dal rapporto con il prete dell’oratorio, come avvenne pressoché in tutte le parrocchie della diocesi ambrosiana, stante anche la capillarità della diffusione dell’istituzione oratoriana. Fu molto spesso il prete che consigliò se fuggire in montagna e raggiungere i partigiani o no, o anche a invitare a compiere scelte nette e persino a proporre l’assunzione di incarichi dirigenziali nell’ambito delle bande partigiane. Valga per tutti il caso del giovane Giovanni Marcora, spinto verso la montagna dal prete che costituiva il suo punto di riferimento, don Giuseppe Albeni51. In Emilia fu forte l’appoggio di sacerdoti che funsero da confessori e da consiglieri dei giovani. Si ha così la conferma di una tela associativa allentata sì con la guerra, ma pur sempre esistente ed efficace. Del variegato universo dei gruppi parrocchiali o diocesani, spesso con forte identificazione da parte dei protagonisti, Ermanno Gorrieri ha colto taluni tratti caratteristici
«1) il contatto con un sacerdote; 2) l’essere assorbiti nel lavoro dell’Associazione e l’occupare in esso tutte le nostre energie e i nostri pensieri; 3) la formazione di un gruppo chiuso, lontano da divertimenti, compagnie, ecc. pericolose, in altre parole un po’ staccati dal mondo».
Vi erano pertanto gruppi che propendevano per l’‘attendismo’ o al contrario sceglievano la Resistenza armata in quanto gruppi, coinvolgendo nella scelta collettiva le responsabilità dei singoli52. Sintomatiche furono al riguardo le discussioni svoltesi a Modena tra Gorrieri e Dossetti e lo stesso Gorrieri ha ricordato che ai parroci facevano riferimento con naturalezza i giovani per avere consigli sul da farsi53. In Toscana fu don Roberto Angeli a rendersi protagonista delle scelte resistenziali dei giovani livornesi a lui vicini, prima di essere lui stesso catturato e deportato54. L’elenco potrebbe ovviamente continuare e occupare pagine fitte di nomi e di episodi.
In linea generale, rimangono pertinenti le osservazioni di Francesco Traniello sulla Resistenza come fattore del rafforzamento dell’‘idea di comunità di vita’:
«La frammentazione del tessuto territoriale e istituzionale, ma in genere le condizioni della sopravvivenza […] funzionarono come fattori oggettivi di rilancio di vincoli comunitari tradizionali o di nuovo tipo»
e tutto ciò contribuì altresì a profonde trasformazioni della pratica ecclesiale, ridefinendo il ruolo stesso – forzatamente meno ‘sacrale’ e più ‘terreno’ – del prete55. Anche per le comunità cristiane evangeliche la guerra comportò importanti mutamenti: le divisioni dell’Italia bloccarono infatti quel processo di accentramento che era stato avviato in seguito alla legislazione sui culti ammessi del 1929 e semmai favorirono la creazione di contatti con le altre comunità presenti su uno stesso territorio, seppur di origine e ispirazione differente. Inoltre, mentre la guerra da una parte provocò la diaspora di tante piccole comunità specie in Italia centrale, dall’altra aprì nuovi orizzonti grazie al contatto con i cappellani militari britannici o statunitensi56.
Ma quanti furono i cristiani che presero le armi? E quanti sostennero la Resistenza attraverso un sostegno attivo, per quanto non armato? Una risposta univoca e precisa a queste domande è ovviamente impossibile, soprattutto in termini quantitativi. Certo è che il fenomeno è stato sostanzialmente sottovalutato, anche perché per lo più si è partiti da interpretazioni di tipo ideologico che mal si adattano alla complessità delle situazioni locali e alla fluidità delle vicende. Aveva invece colto nel segno un resistente e studioso di rilievo come Vittorio Emanuele Giuntella allorché scriveva:
«La presenza dei cattolici militanti nella Resistenza è […] assai più frantumata e sfugge ad una rilevazione numerica, o a una sistematica classificazione, come si è tentato di fare da più parti, con intenti denigratori o apologetici, nella polemica successiva. Nella condizione storica e geografica della Resistenza non si avrà mai abbastanza attenzione alla casualità dell’adesione a una formazione, o all’altra, per la vicinanza topografica, il prestigio goduto, la omogeneità (ex alpini, paesani della stessa valle, ceti sociali identici), l’urgenza della scelta, prescindendo dall’assunzione o meno dell’ideologia, che ispirava la formazione nella quale si entrava»57.
Un altro protagonista di primo piano comePaolo Emilio Taviani ha giustamente ricordato che il panorama delle formazioni armate era fortemente variegato e che in esso la presenza cattolica era comunque consistente58. Ragionamenti analoghi possono essere fatti a proposito delle altre confessioni cristiane. Al riguardo Giorgio Bouchard ha parlato di «pesante tributo di sangue» degli evangelici italiani, citando anche i condannati a morte e i deportati. Il fatto che – come nelle valli valdesi del Piemonte – la partecipazione alla Resistenza non si svolgesse sotto il marchio religioso ma animando, per lo più, le formazioni di Giustizia e Libertà, e che mancassero prese di posizioni ufficiali della Chiesa valdese, non ha semplificato il lavoro dello storico59.
Senza entrare nel merito delle singole situazioni regionali e locali, si può aggiungere che intere aree erano segnate da una dominante presenza non comunista. Si pensi a tutta la zona estesa dalle pianure della provincia di Milano al Lago Maggiore e da qui al Mottarone e alla Valdossola e alla Val Grande. Qui, pur con la presenza significativa di formazioni garibaldine, la forza maggiore era espressa dalle formazioni guidate da Alfredo Di Dio, Eugenio Cefis, Giovanni Marcora, Rino Pachetti, e passate attraverso le successive ristrutturazioni, prima e dopo la parentesi della Repubblica ossolana, dalla Divisione ‘Valtoce’ al Raggruppamento Divisioni Patrioti ‘Alfredo Di Dio’60. Una consistente caratterizzazione cattolica – oltre che militare e specialmente alpina – era tipica delle Fiamme Verdi della provincia di Brescia e delle aree limitrofe (oltre che dell’Appennino reggiano e di aree venete), della Divisione Osoppo in Friuli, ma anche delle brigate Julia sull’Appennino parmense e di altre formazioni ancora61. Forte fu l’influenza del clero (per esempio don Carlo Comensoli, don Aldo Moretti, don Guido Anelli, don Giuseppe Cavalli) in tutte queste formazioni e proprio una tale influenza garantiva e legittimava la presenza partigiana agli occhi della popolazione. Dati i connotati patriottici, ‘apolitici’ e militari (e quindi talvolta ostili persino a una presenza esplicita della Dc) che tutte queste formazioni rivestivano, distinguendosi perciò in modo netto dalle Brigate Garibaldi e da Giustizia e Libertà62, si è finito spesso per considerarle prive di un legame diretto con il retroterra cattolico (identificato più di una volta con la sola opzione democristiana). E ciò ha naturalmente contribuito a ridimensionare ancora di più l’apporto cattolico.
Per di più non si può trascurare il fatto che proprio la complessità e la varietà sopra ricordate consentivano a molti cattolici ‘militanti’ di aderire alle Brigate Garibaldi o ad altre formazioni ‘laiche’ e anzi talvolta di rivestirvi funzioni di comando. Basti qui citare Gino Pistoni, uno dei più celebrati martiri cattolici della Resistenza, che fece parte delle formazioni garibaldine in Valle d’Aosta63, o Aldo Gastaldi ‘Bisagno’, l’autorevole capo della banda Cichero (poi inquadrata nelle formazioni garibaldine) in Liguria, o ancora il padovano Luigi Pierobon, comandante della brigata ‘Stella’ all’interno della divisione garibaldina ‘Ateo Garemi’, fucilato dai fascisti. In Romagna furono garibaldini Benigno Zaccagnini e Pietro Pironi, giovane dirigente della Giac nel riminese, poi giustiziato in Germania. In Umbria Antero Cantarelli, presidente diocesano della Giac di Foligno, comandò la 4a brigata garibaldina, nella quale militavano altri giovani cattolici della zona.
L’annotazione è tuttavia reversibile: sappiamo di uomini e donne di orientamento laico, socialista o comunista che militarono in formazioni autonome o azzurre: si pensi, per fare un unico esempio, a Elsa Oliva (poi consigliere comunale comunista a Domodossola), che fu comandante della Volante ‘Elsinki’ della brigata ‘Abrami’ della ‘Valtoce’ e fu donna capace di impiegare con profitto le armi64. Giova segnalare al riguardo che, nella situazione di diffusa ignoranza politica provocata da vent’anni di educazione fascista, molti che si definivano ‘comunisti’ lo erano più per la condivisione di un generico programma di rivoluzione antifascista e anticapitalista che per un’effettiva conoscenza dei postulati ideologici del Pci. E così non erano infrequenti casi di giovani cattolici che – anche al di là dello specifico movimento dei cattolici-comunisti – si autodefinivano ‘comunisti’. Le scelte definitive vennero fatte dopo la primavera del 1945: sarebbe interessante al riguardo ricostruire un quadro attendibile delle biografie di tanti partigiani, cominciando da quelli che ritornarono alla propria professione e alla vita privata, disdegnando onori e carriere politiche, senza naturalmente trascurare i destini di chi la politica cominciò o continuò a farla: in quali partiti? Si potrebbe forse scoprire che lo sbocco nella Dc piuttosto che nel Pci non fu sempre tanto lineare.
Il ridimensionamento della presenza resistenziale cattolica è passato anche attraverso altre fonti65. Anzitutto tramite la pluridecennale riduzione di ogni attività antinazista e antifascista alla sola lotta armata; secondariamente con l’espulsione dalla memoria della partecipazione delle donne, laiche o religiose che fossero; infine con le confusioni prodotte da una memorialistica e da ricostruzioni più interessate a mettere in rilievo il ruolo di eroi e di vittime di tanti sacerdoti, prescindendo dalle loro scelte e dalle cause della loro morte. Valga per tutti il riferimento al Martirologio del clero italiano nella 2a guerra mondiale e nel periodo della resistenza, 1940-194666, nel quale i preti uccisi dai nazifascisti sono mescolati ai cappellani militari morti in battaglia, alle vittime dei bombardamenti o di incidenti, nonché ai preti uccisi da militanti comunisti anche dopo l’aprile 1945. Anche diverse pubblicazioni recenti considerano complessivamente i preti ‘martiri’, accomunando quanti furono uccisi da parti diverse o semplicemente da delinquenti comuni: tutto ciò può avere un significato apologetico anche apprezzabile, ma non aiuta a cogliere la complessità della realtà. Occorre dunque procedere con puntuali ricostruzioni a livello regionale e locale, che preparino la strada a una sintesi di carattere nazionale67. Complessivamente, tra il settembre 1943 e il maggio 1945 si possono contare – per il momento e in attesa di qualche correzione futura – 425 preti uccisi (191 per mano fascista, 125 per opera dei tedeschi, 109 per mano partigiana)68. La memoria di autentici martiri di quel tempo è rimasta pertanto circoscritta all’ambito locale o a quello degli studiosi: si pensi a figure sacerdotali come quelle di don Aldo Mei, don Giuseppe Morosini o don Pietro Pappagallo, oppure a donne di straordinarie capacità comeAnna Maria Enriques Agnoletti.
A proposito di donne cattoliche, la loro consapevolezza di aver svolto un ruolo importante fu presente fin dall’immediato dopoguerra. Per esempio, a partire dal 16 marzo 1945, il giornale del movimento femminile dellaDc, «Azione femminile», pubblicò appelli e testimonianze nella rubrica «Donne d’Italia», che si proponeva lo scopo di indicare modelli seri e credibili di donne italiane resistenti, da contrapporre alla figura di Claretta Petacci sulla quale si esercitava un interesse ritenuto eccessivo anche da parte della stampa internazionale69. Nel primo decennio dopo la guerra comparvero memorie di tutto rilievo di partigiane cattoliche – come la veneziana Ida D’Este con la sua Croce sulla schiena (1953) o come la raccolta di testimonianze promossa dalla Dc lombarda70 –, ma nel corso del tempo questo interesse venne fortemente ad attenuarsi, salvo essere rilanciato in anni molto recenti, muovendo in particolare dall’area veneta71.
Eppure il contributo numerico delle donne cattoliche – suore comprese – è stato consistente e si è esercitato su un arco di attività solo sommariamente riconducibile alle sette opere di misericordia corporale care alla tradizione catechistica cattolica («Dar da mangiare agli affamati; Dar da bere agli assetati; Vestire gli ignudi; Alloggiare i pellegrini; Visitare gli infermi; Visitare i carcerati; Seppellire i morti»)72. Particolarmente significativa fu l’azione di soccorso – materiale e spirituale, ma anche ‘politico’ nel senso di assicurare i contatti tra gli antifascisti carcerati e la rete resistenziale esterna – svolta nelle carceri: oltre alla coraggiosa opera svolta da ragazze come le ‘Massimille’ a Brescia, occorre ricordare almeno suor Giuseppina De Muro a Torino, madre Enrichetta Alfieri a Milano e suor Demetra Strapazzon a Vicenza73. Né mancarono – a parte il coinvolgimento come staffette e informatrici – donne che collaborarono al recupero e all’imboscamento di armi: fra tutte la straordinaria personalità di Betty Ambìveri a Bergamo74.
A dimostrazione del persistere di una maggiore attenzione ai vertici della Chiesa rispetto al popolo dei fedeli laici, sta il grande numero di studi che sono stati dedicati all’atteggiamento dell’episcopato italiano tra 1943 e 1945. Così, sono state ampiamente esaminate non solo figure di grande rilievo nazionale – per esempio Schuster o Dalla Costa –, ma molte altre, importanti sì, ma di interesse più circoscritto75. Il panorama complessivo è costituito da alcuni tratti comuni che in misura più o meno evidente caratterizzarono i vescovi italiani: lo smarrimento di fronte agli avvenimenti, la sincera preoccupazione di evitare guai maggiori alla popolazione civile, il tentativo di contenere il numero delle vittime e lo spargimento di sangue, gli appelli alla moderazione e alla pacificazione, la paura di dover passare dal dominio nazifascista a quello comunista. Connaturato a tutti, e bisogna dire doverosamente, era l’impegno per evitare che le contrapposizioni politiche e, anzi, lo scontro armato si riflettessero all’interno del tessuto ecclesiale mettendone a repentaglio l’unità attorno alla gerarchia. Questo impegno, costante storicamente, è una chiave più utile, al fine di comprendere l’atteggiamento dell’episcopato, rispetto a quella dell’anticomunismo (che, a scanso d’equivoci, esisteva ed era più che radicato). Il rischio di spaccature era reso concreto anche dalla presenza – nettamente minoritaria, ma chiassosa e apertamente appoggiata dalla Rsi – di preti filofascisti, presenti non solo tra i cappellani militari76. Rimane aperto l’interrogativo su quanti cattolici praticanti o provenienti dall’Azione cattolica scelsero la strada di Salò: di certo ci furono e contarono anche su qualche nome noto – per esempio il senatore Stefano Cavazzoni –, ma su di loro ben poco è stato cercato e scritto.
Molti vescovi si candidarono, talora solamente a parole – vista la loro impotenza politica –, ma in vari casi anche nei fatti, a diventare autentici defensores civitatum o urbium, recuperando dalla vecchia apologetica i modelli dei vescovi dell’età tardo-antica o medievale. Ciò si verificò soprattutto nelle regioni centrali, più direttamente toccate dai combattimenti e dal passaggio della linea del fronte: monsignor Venturi a Chieti, monsignor Confalonieri all’Aquila, monsignor Pieri a Orvieto sono i presuli più frequentemente citati al riguardo77.
Molto ricordate sono anche le lettere collettive redatte dagli episcopati a livello regionale. Tra il marzo e il maggio 1944 numerosi vescovi dell’Italia centro-settentrionale sentirono la necessità di consultarsi reciprocamente e di prendere una posizione comune: furono così pubblicate le lettere dell’episcopato del Litorale Adriatico, del Piemonte, della Toscana, del Triveneto e della Lombardia. Tutti questi documenti intendevano stabilire dei punti fermi in ordine ai problemi della guerra, dello scontro tra Resistenza e Rsi e così via. Non mancarono dibattiti e diversità tra gli stessi vescovi, tanto che in Emilia non si riuscì a giungere alla pubblicazione di una nota condivisa da tutti. Gli appelli alla moderazione e la condanna della violenza – rappresaglie, deportazioni, attentati e guerriglia partigiana – ebbero connotati diversi da regione a regione78. Ma non si può dimenticare che in Piemonte si citava esplicitamente il versetto di Is. 16,3 (absconde fugientes et vagos ne prodas), che in Lombardia le disposizioni pratiche colpivano maggiormente talune attività della Rsi e che nel Triveneto si cominciava a porre il problema del ripensamento sulle responsabilità politiche della guerra. Sarebbe dunque riduttivo rileggere quei testi in chiave esclusivamente anticomunista e antiresistenziale, sottolineando con forza soltanto i passaggi nei quali si invitava a evitare gesti di ribellione. Complessivamente, questi documenti finirono per scontentare tutte le parti in causa e non pare che ebbero efficacia pratica.
Entro questo quadro generale, si scorgono tuttavia forti discrepanze, dipendenti tanto dalle diverse condizioni locali quanto dalla personalità dei singoli. Già entro le varie regioni ecclesiastiche (non sempre coincidenti con le tradizionali regioni geografiche) vi erano vescovi più sbilanciati in senso antifascista e altri considerati più vicini sia al regime del ventennio sia perfino alla Rsi. Agli occhi dei gerarchi e dei funzionari di Salò, tuttavia, il tono generale era dato dai primi, così che – con forte rabbia e fastidio ma pure con una certa sorpresa – i fascisti si andarono sempre più convincendo di non poter contare sulla Chiesa cattolica. Molti vescovi cominciarono a essere posti nel mirino e considerati ostili al nuovo ordine della Rsi. La sorpresa fascista era data dalla scoperta che persino coloro che sembravano essersi maggiormente sbilanciati negli anni precedenti in favore del governo di Mussolini (tra cui il cardinale Schuster) proteggevano adesso antifascisti ed ebrei. Su questo punto il panorama di tutta l’Italia centro-settentrionale sembra alquanto uniforme.
In realtà, la quasi totalità dei vescovi residenti nell’area di occupazione tedesca e di presenza della Rsi, era ormai distante dalle ragioni della rinata alleanza italo-tedesca. E lo era, naturalmente, per motivi di ordine religioso e morale più che per valutazioni politiche. Ma, appunto, pesavano poi le singolarità individuali e locali. Lo si vede bene in quelle circostanze nelle quali si dovevano dare segnali vistosi e pubblici di condanna di episodi particolarmente efferati, oppure in quei casi nei quali si doveva decidere che fare di fronte alla scelta di preti e laici di aderire – o almeno di sostenere – alla Resistenza armata. Significativo fu il gesto di monsignor Girolamo Bortignon, vescovo di Feltre e Belluno, di sfidare i tedeschi e salire al patibolo per amministrare l’olio santo e baciare quattro partigiani impiccati; altrettanto esplicito fu l’atteggiamento tenuto dal cardinale Schuster allorché si vide di fronte il giovanissimo don Giovanni Barbareschi, appena liberato dal carcere di San Vittore e fresco di torture: il presule si inginocchiò davanti al prete novello e spiegò che così ci si comportava nella Chiesa primitiva di fronte ai martiri. All’estremo opposto si può citare il vescovo di Massa, monsignor Terzi, talmente acquiescente verso i tedeschi da essere duramente contestato da parroci e laici dopo la Liberazione: caso più unico che raro, almeno per l’Italia, nel 1945 la Santa Sede accettò le sue dimissioni dalla carica. A conferma di quanto detto sulle individualità, si noti che nella vicina Pontremoli, il vescovo monsignor Sismondo fu invece molto critico verso la Rsi79.
Le differenze furono vistose anche nel comportamento tenuto verso quei preti che salivano in montagna (o chiedevano il permesso di farlo) per svolgere le funzioni di cappellani militari presso le formazioni partigiane. A Modena monsignor Boccoleri minacciava la sospensione a divinis ai preti che si recavano in montagna80, ma a Brescia monsignor Tredici nominò padre Luigi Rinaldini «curato di tutte le parrocchie della diocesi» con il permesso speciale di predicare, confessare, comunicare, celebrare la messa con o senza i sacri paramenti in qualunque ora e luogo della diocesi, autorizzandone in tal modo la presenza presso i partigiani81. Insomma, di fronte alla richiesta della Resistenza di avere propri preti, i presuli formularono tanto rifiuti quanto assensi più o meno taciti82.
Per quanto riguarda l’aiuto attivo ai perseguitati e ai fuggiaschi, il coinvolgimento dell’episcopato, pur rimanendo indiretto e il più possibile celato, fu più ampio. Sappiamo di vescovi che furono attivi in prima persona – si pensi per esempio a monsignor Nicolini ad Assisi –, ma in linea generale essi delegarono più o meno esplicitamente i compiti della mediazione tra le parti a uomini di propria fiducia – e in tale senso sono note le attività di monsignor Bicchierai a Milano, non sempre gradite alla Resistenza – e acconsentirono tacitamente al coinvolgimento dei preti, anche di quelli a loro più vicini. Segno, questo, di un appoggio sostanziale per quanto questi facevano. Il fatto che a Torino e a Genova fossero impegnati nelle reti di soccorso uomini come monsignor Vincenzo Barale e don Francesco Repetto, segretari dei rispettivi arcivescovi, rende evidente che ogni distinzione tra ‘alto’ e ‘basso’ clero è più che discutibile, così come ogni ricostruzione volta a privilegiare soltanto la dimensione pubblica, politico-ideologica.
1 G. Formigoni, L’Italia dei cattolici. Dal Risorgimento a oggi, Bologna 20102, pp. 73, 84.
2 L. Bruti Liberati, Il clero italiano nella grande guerra, Roma 1982; R. Morozzo della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti-soldati 1915-1918, Roma 1980; A.G. Roncalli – Giovanni XXIII, Nelle mani di Dio a servizio dell’uomo. I diari di don Roncalli, 1905-1925, a cura di L. Butturini, Bologna 2008, pp. 219-235; P. Mazzolari, Scritti sulla pace e sulla guerra, a cura di G. Formigoni, M. De Giuseppe, Bologna 2009, pp. 6-18.
3 U. Parente, Antimilitarismo e pacifismo cristiani nel primo conflitto mondiale: la profetica inascoltata voce di Gennaro Avolio, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 49, 1995, 1, pp. 66-93; A. Zussini, I cattolici pacifisti torinesi de «Il Savonarola». Una minoranza cattolica tra evangelici e socialisti negli anni della prima guerra mondiale, «Quaderni del Centro Studi Carlo Trabucco», 1984, 4, pp. 25-64; M.L. Molinari, E. Salvini, I «sacerdoti malvagi»: pacifismo e «basso clero» nell’Italia settentrionale durante la prima guerra mondiale, in Le sfide della pace. Istituzioni e movimenti intellettuali e politici tra Otto e Novecento, a cura di A. Canavero, G. Formigoni, G. Vecchio, Milano 2008, pp. 347-369.
4 G. Formigoni, L’Italia dei cattolici, cit., pp. 112-115.
5 D. Menozzi, Ideologia di cristianità e pratica della «guerra giusta», in Chiesa e guerra. Dalla «benedizione delle armi» alla «Pacem in terris», a cura di M. Franzinelli, R. Bottoni, Bologna 2005, pp. 91-127. Molto documentato al riguardo è R. Moro, L’opinione cattolica su pace e guerra durante il fascismo, ibidem, pp. 221-319.
6 G. Vecchio, Patriottismo e universalismo nelle associazioni laicali cattoliche, in La Chiesa e l’Italia. Per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, a cura di A. Acerbi, Milano 2003, pp. 233-274.
7 Cfr. Il volto religioso della guerra. Santini e immaginette per i soldati, a cura di M. Franzinelli, Faenza 2003.
8 L. Ceci, Il Papa non deve parlare. Chiesa, fascismo e guerra d’Etiopia, Roma-Bari 2010, pp. 140-142. Cfr. anche vari contributi in L’impero fascista. Italia ed Etiopia (1935-1941), a cura di R. Bottoni, Bologna 2008.
9 E. Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un papa, Torino 2007.
10 R. Moro, La Chiesa e lo sterminio degli ebrei, Bologna 2002; G. Vecchio, Antisemitismo e coscienza cristiana, in Chiesa, cultura e educazione in Italia tra le due guerre, a cura di L. Pazzaglia, Brescia, 2003, pp. 435-470.
11 G. Vecchio, Don Orione e la politica del suo tempo, in San Luigi Orione: da Tortona al mondo, Milano 2004, pp. 208-211.
12 Per una rapida sintesi, G. Miccoli, Pio XII e la guerra, in Chiesa e guerra. Dalla «benedizione delle armi» alla «Pacem in terris», pp. 393-403; Id., I dilemmi e i silenzi di Pio XII. Vaticano, Seconda guerra mondiale e Shoah, Milano 2000; nell’amplissima bibliografia, si aggiunge qui solo il rinvio alla sintesi, favorevole a papa Pacelli, di P. Blet, Pio XII e la Seconda Guerra Mondiale negli archivi vaticani, Cinisello Balsamo 1999.
13 I. Garzia, Pio XII e l’Italia nella seconda guerra mondiale, Brescia 1988, p. 146.
14 In particolare, per un quadro nazionale, F. Malgeri, La Chiesa italiana e la guerra (1940-45), Roma 1980.
15 F. Malgeri, La Chiesa italiana e la guerra cit., pp. 105 segg. Un quadro molto ampio e convincente è offerto da P. Gios, Il clero padovano durante la guerra e la lotta di liberazione, in I cattolici e la Resistenza nelle Venezie, a cura di G. De Rosa, Bologna 1997, pp. 17 segg.
16 Cfr. Minoranze, coscienza e dovere della memoria. Riflessioni recenti (1998-2000). Documentazione storica, Napoli 2001.
17 R. Moro, I cattolici italiani di fronte alla guerra fascista, in La cultura della pace dalla Resistenza al Patto Atlantico, a cura di M. Pacetti, M. Papini, M. Saracinelli, Ancona-Bologna 1988, pp. 78-83.
18 G. Vecchio, Lombardia 1940-1945. Vescovi, preti e società alla prova della guerra, Brescia 2005, p. 150.
19 La relazione di Samorè, relativa al Veneto, porta la data del 12 maggio 1941 (ora in Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde guerre mondiale, IV, Le Saint Siège et la guerre en Europe. Juin 1940-juin 1941, Città del Vaticano 1967, pp. 486-488).
20 T. Vinay, L’amore è più grande. La storia di Agàpe e la nostra, Torino 1995, p. 31.
21 Nell’ormai ampia bibliografia in materia, cfr. E. Di Nolfo, Vaticano e Stati Uniti 1939-1952. Dalle carte di Myron C. Taylor, Milano 1978; R. De Felice, Mussolini l’alleato, II, Crisi e agonia del regime, Torino 1990, pp. 749-756; C.F. Casula, Domenico Tardini (1888-1961). L’azione della Santa Sede nella crisi fra le due guerre, Roma 1988, pp. 184-204; F. Malgeri, La Chiesa italiana e la guerra, cit., pp. 30-33.
22 P. Rizzi, L’amore che vince tutto. Vita ed eroismo cristiano di Teresio Olivelli, Città del Vaticano 2004, pp. 354-367; G. Vecchio, “Esule in patria”: gli anni del fascismo (1926-1943), in A. Canavero, P. Pombeni, G.B. Re, G. Vecchio, Alcide de Gasperi. Dal Trentino all’esilio in patria (1881-1943), Soveria Mannelli 2009, pp. 670-617.
23 R. De Felice, Mussolini l’alleato, II, Crisi e agonia del regime, cit., pp. 752-753.
24 R. Moro, I cattolici italiani di fronte alla guerra fascista, cit., p. 82.
25 M. Bocci, Oltre lo Stato liberale. Ipotesi su politica e società nel dibattito cattolico tra fascismo e democrazia, Roma 1999, pp. 251-268; A. Parola, Pensare la ricostruzione: gli incontri di casa Padovani, in Giuseppe Dossetti: la fede e la storia. Studi nel decennale della morte, a cura di A. Melloni, Bologna 2007, pp. 261-280.
26 Il testo è ora in P. Mazzolari, Scritti sulla pace e sulla guerra, cit., pp. 234-268. Cfr. anche «Tu non uccidere». Mazzolari e il pacifismo del Novecento, a cura di P. Trionfini, Brescia 2009.
27 Rimane valido il panorama tracciato da R. Moro, I cattolici italiani e il 25 luglio, «Storia contemporanea», 24, 1993, 6, pp. 967-1017; cfr. anche J.-D. Durand, L’Église catholique dans la crise de l’Italie (1943-1948), Roma 1991, pp. 9-49; M. Casella, L’Azione Cattolica alla caduta del fascismo. Attività e progetti per il dopoguerra (1942-’45), Roma 1984.
28 Limitandosi ai testi più recenti sull’argomento, cfr. G. Formigoni, Alcide De Gasperi 1943-1948. Il politico vincente alla guida della transizione, in A. De Gasperi, Scritti e discorsi politici. Edizione critica. III. Alcide De Gasperi e la fondazione della democrazia italiana, 1943-1948, a cura di V. Capperucci, S. Lorenzini, Bologna 2008, pp. 11-34; V. Capperucci, Il partito dei cattolici. Dall’Italia degasperiana alle correnti democristiane, Soveria Mannelli 2010, pp. 23-55.
29 G. Vecchio, La Chiesa cattolica: diocesi e parrocchie, in Ottosettembre 1943. Le storie e le storiografie, a cura di A. Melloni, Reggio Emilia 2005, pp. 105-138.
30 Cfr. P. Trionfini, Esperienze e aspettative dei cattolici emiliani tra guerra e Resistenza (1940-1945), in Cattolici e Resistenza nell’Italia settentrionale, a cura di B. Gariglio, Bologna 1997, p. 260.
31 M. Casella, Clero e politica in Italia (1942-1948), Galatina 1999, p. 138.
32 A. Bendotti, G. Bertacchi, La base sociale della lotta partigiana nel Bergamasco, «Annali dell’Istituto Alcide Cervi», 11, 1982, p. 263.
33 Sui numerosi preti coinvolti nel soccorso ai prigionieri evasi, cfr. i saggi di C. Felice ed E. Fimiani in Cattolici, Chiesa e Resistenza in Abruzzo, a cura di F. Mazzonis, Bologna 1997. Qui riferimenti anche alla ricca memorialistica in lingua inglese.
34 G. Beltrami Gadola, Le donne nella Resistenza in Lombardia, in Donna lombarda, 1860-1945, a cura di A. Gigli Marchetti, N. Torcellan, Milano 1992, p. 93.
35 D. Veillon, Les femmes anonymes dans la Résistance, in Les femmes dans la Résistance en France, a cura di M. Gilzmer, C. Levisse-Touzé, S. Martens, Paris 2003, p. 93.
36 A. Bravo, s.v. Resistenza civile, in Dizionario della Resistenza, I, Storia e geografia della Liberazione, a cura di E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi, Torino 2000, pp. 270-282, sulla scorta delle precedenti e note riflessioni di Jacques Sémelin; A. Parisella, Sopravvivere liberi. Riflessioni sulla storia della Resistenza a cinquant’anni dalla Liberazione, Roma 1997, pp. 59 segg.
37 Emblematico il fatto che tra questi il solo Focherini sia biografato nel Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, diretto da F. Traniello, G. Campanini, Casale Monferrato 1981-1984. Per il caso forse più particolare: G. Rigano, Il podestà «Giusto d’Israele». Vittorio Tredici il fascista che salvò gli ebrei, Milano 2008.
38 P. Vinay, Testimone d’amore. La vita e le opere di Tullio Vinay: testimonianze, scritti, ricordi personali, Torino 2009, pp. 31-46.
39 P.E. Taviani, Il contributo dei cattolici, «Civitas», 2, 1989, pp. 71-81 (testo già apparso nel 1980 e poi più volte riedito; si rinvia anche a G. Vecchio, Il laicato cattolico italiano di fronte alla guerra e alla resistenza: scelte personali e appartenenza ecclesiale, in Cattolici, Chiesa, Resistenza, cit., pp. 251-294).
40 Testimonianza di don Prospero Simonelli, in S. Spreafico, I cattolici reggiani dallo Stato totalitario alla democrazia: la Resistenza come problema, II, Davide senza fionda: il laicato cattolico dalla opposizione bloccata al collateralismo conflittuale, Reggio Emilia 1989, p. 729.
41 G. Lazzati, Il valore di un «no», ora anche in M. Dorini, Giuseppe Lazzati: gli anni del Lager (1943-1945), Roma 1989, pp. 163-165 (testo del 1953).
42 Vi era chi proveniva da famiglie socialiste o comuniste, chi aveva fatto a sassate con i fascisti al tempo dello scioglimento dei reparti degli Esploratori cattolici, chi ricordava umiliazioni subite dai nonni o dai padri: diversi casi del genere sono documentati in G. Vecchio, Lombardia 1940-1945, cit., pp. 444-446. Riferimenti più generali in G. Crainz, L’ombra della guerra. Il 1945, l’Italia, Roma 2007, pp. 104-107; Id., Padania. Il mondo dei braccianti dall’Ottocento alla fuga dalle campagne, Roma 20072, pp. 217-231.
43 V.E. Giuntella, I cattolici nella Resistenza, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia. 1860-1980, diretto da F. Traniello, G. Campanini, I,2, I fatti e le idee, Casale Monferrato 1981, p. 119. Questa sintesi di Giuntella rappresenta ancor oggi una delle cose migliori disponibili, per acutezza dei giudizi e completezza della ricostruzione. D’obbligo il rinvio alle considerazioni di C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino 1991, pp. 169-189.
44 G. Lazzati, Trent’anni di Costituzione: contesto di pacifica libertà?, [1978], ora in Id., Laici cristiani nella città dell’uomo. Scritti ecclesiali e politici 1945-1986, a cura di G. Formigoni, Cinisello Balsamo 2009, p. 247.
45 P.E. Taviani, Politica a memoria d’uomo, Bologna 2002, pp. 9-16. Il nonno di Dossetti era addirittura devoto di Garibaldi (cfr. G. Dossetti, Ho imparato a guardare lontano, a cura di S. Fangareggi, Cavriago 1988, p. 41).
46 V.E. Giuntella, Il nazismo e i Lager, Roma 1979, pp. 259 segg. Le citazioni sono a pp. 262-264. Non si dimentichi la testimonianza di don Paolo Liggeri su Olivelli e il suo gruppo in carcere a S. Vittore (P. Liggeri, Triangolo rosso, Milano 19865, pp. 48-56).
47 [T. Olivelli], Ribelli, anche in A. Caracciolo, Teresio Olivelli, Brescia 19752, pp. 211-215.
48 (Quasi) un’autobiografia. L’ultima intervista di Ermanno Gorrieri, a cura di P. Trionfini, Modena 2007, pp. 27-35.
49 B. Gariglio, I cattolici piemontesi nella guerra e nella Resistenza, in Cattolici e Resistenza nell’Italia settentrionale, a cura di B. Gariglio, Bologna 1997, p. 24.
50 Risultano di grande rilievo le personalità di madre Imelde Ranucci, madre Iole Zini e suor Paola Nervi, tutte attive nell’Appennino reggiano in paesi non distanti da Montefiorino. Riferimenti e indicazioni bibliografiche in G. Vecchio, La partecipazione delle suore alla Resistenza italiana, in Le suore e la Resistenza, a cura di G. Vecchio, Milano 2010, pp. 9-60.
51 G. Vecchio, Giovanni Marcora. La formazione e la Resistenza, in Giovanni Marcora. Milano, l’Italia e l’Europa, a cura di E. Bernardi, Soveria Mannelli 2010.
52 Cfr. P. Trionfini. Esperienze e aspettative dei cattolici emiliani, cit., pp. 268-269.
53 E. Gorrieri, La repubblica di Montefiorino. Per una storia della Resistenza in Emilia, Bologna 1966, pp. 102-103.
54 G. Della Maggiore, Dio ci ha creati liberi. Don Roberto Angeli, Livorno 2008, pp. 53-127.
55 F. Traniello, Guerra e religione, in Cattolici, Chiesa, Resistenza, cit., pp. 56-57; P. Trionfini, Esperienze e aspettative dei cattolici emiliani, cit., pp. 252-258.
56 G. Long, Le comunità evangeliche, in Cattolici, Chiesa, Resistenza, cit., pp. 319-336; Id., Le comunità evangeliche nell’Italia centrale, in Cattolici, Chiesa, Resistenza nell’Italia centrale, cit., pp. 99-108.
57 V.E. Giuntella, I cattolici nella Resistenza, cit., p. 112.
58 P.E. Taviani, Politica a memoria d’uomo, cit., pp. 65-66.
59 G. Bouchard, Relazione introduttiva, in Gli evangelici nella Resistenza, a cura di C. Papini, Torino 2007, pp. 5-22. Cfr. anche D. Gay Rochat, La Resistenza nelle valli valdesi, Torino 20062, B. Peyrot, Comportamenti pastorali nelle chiese valdesi durante la seconda guerra mondiale, «Mezzosecolo. Materiali di ricerca storica», 1993, 10, pp. 155-178; Id., La Resistenza nella memoria laica ed ecclesiastica dei valdesi, in Cattolici, ebrei ed evangelici nella guerra. Vita religiosa e società 1939-1945, a cura di B. Gariglio, R. Marchis, Milano 1999, pp. 66-91; G. Tourn, Essere pastori valdesi nella seconda guerra mondiale, ibidem, pp. 57-65.
60 Cfr. C. Barlassina Tagliarino, E. Andoardi, Cattolici e «azzurri», Novara 1973; G. Scuderi, Marcora, l’Albertino con i Ribelli per amore. La resistenza dei cattolici nella zona Milano-Ossola-Novara (1943-1945), Città di Castello 1985.
61 Le brigate Julia parmensi non sono neppure citate nella voce Fiamme Verdi del Dizionario della Resistenza, II, Luoghi, formazioni, protagonisti, a cura di E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi, Torino 2001, pp. 197-199. Su di esse cfr. almeno M. Lodi, Obiettivo libertà. Storia della I Julia Brigata partigiana dell’alta Val Taro, Parma 1985; S. Giliotti, La Seconda Julia nella Resistenza. Cronistoria di una brigata partigiana, Parma 1996.
62 Tra coloro che meglio hanno messo in luce le differenti impostazioni delle formazioni a matrice cattolica rispetto a quelle comuniste, è Ermanno Gorrieri. Oltre al suo classico La Repubblica di Montefiorino (di cui si vedano soprattutto le pp. 286-293), cfr. il volume postumo E. Gorrieri, G. Bondi, Ritorno a Montefiorino. Dalla Resistenza sull’Appennino alla violenza del dopoguerra, Bologna 2005 (di cui sono molto importanti le conclusive pp. 163-183). Cfr. ora M. Carrattieri, M. Marchi, P. Trionfini, Ermanno Gorrieri (1920-2004). Un cattolico sociale nelle trasformazioni del Novecento, Bologna 2009. Esistono dunque ben più di «alcuni indizi» sulla «tendenza a marcare quasi una diversità dei partigiani cattolici rispetto ai compagni di lotta» (P. Blasina, Resistenza, guerra, fascismo nel cattolicesimo italiano (1943-1948), in La grande cesura. La memoria della guerra e della resistenza nella vita europea del dopoguerra, a cura di G. Miccoli, G. Neppi Modona, P. Pombeni, Bologna 2001, p. 150).
63 Pistoni, dirigente della GIAC a Ivrea, prima di morire dissanguato scrisse con il sangue sullo zaino: «Offro la mia vita per l’Azione cattolica e per l’Italia, W Cristo Re». Anche per questo fu subito celebrato come il modello dell’eroe cristiano, sportivo e generoso (cfr. G. Getto, Gino Pistoni. Ritratto di un caduto per la libertà, Roma 1945). È da tempo in corso il processo di beatificazione. Stupisce dunque che la sua biografia manchi sia nel citato Dizionario storico del movimento cattolico sia nel Dizionario della Resistenza, II, Luoghi, formazioni, protagonisti, a cura di E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi, Torino 2001 (ma in entrambi mancano pure le biografie dei due fratelli Di Dio, oltre a molto altro sulla Resistenza cattolica e cristiana). In questi volumi la tendenza sembra quella di dare spazio a chi percorse nel dopoguerra una carriera politica.
64 Si veda l’ampia testimonianza della stessa Elsa Oliva ‘Elsinki’, in A.M. Bruzzone, R. Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, Torino 2003, pp. 126-155.
65 Per un discorso complessivo sulla memoria della Resistenza entro la storia dei cattolici italiani è necessario riferirsi a G. Formigoni, La memoria della guerra e della Resistenza nelle culture politiche del «mondo cattolico» (1945-1955), in La grande cesura. La memoria della guerra e della resistenza nella vita europea del dopoguerra, a cura di G. Miccoli, G. Neppi Modona, P. Pombeni, cit., pp. 479-526; A. Parisella, Cultura cattolica e Resistenza nell’Italia repubblicana, Roma 2005.
66 Edito dall’Azione cattolica italiana, Roma 1963.
67 Sulla necessità di una corretta memoria storica (una «lucida coscienza storica»), capace di essere anche «comunitaria» e quindi della Chiesa tutta, anche al fine di attivare una costante vigilanza per il presente e il futuro, restano significative le pagine scritte da G. Dossetti, Introduzione a L. Gherardi, Le querce di Monte Sole. Vita e morte delle comunità martiri fra Setta e Reno, 1898-1944, Bologna, 1987, pp. XXX segg.
68 M. Franzinelli, Chiesa e clero cattolico, in Dizionario della Resistenza, I, Storia e geografia della Liberazione, cit., p. 313. Per riferimenti ai preti uccisi in varie circostanze nel Mezzogiorno, cfr. R. Violi, Il Sud, in Cattolici, Chiesa, Resistenza, cit., pp. 127 segg.
69 E. Salvini, Ritratti di donne cattoliche nella Resistenza, in La Resistenza delle donne 1943-1945, a cura di G. Vecchio, Milano 2010, pp. 71-82.
70 Movimento femminile della Democrazia Cristiana di Milano, Donne cristiane nella Resistenza. Testimonianze e documentazioni sul contributo femminile alla lotta partigiana in Lombardia, Milano 1956.
71 L. Bellina, M.T. Sega, Tra la città di Dio e la città dell’uomo. Donne cattoliche nella Resistenza Veneta, Venezia-Treviso 2004; cfr. naturalmente T. Anselmi (con A. Vinci), Storia di una passione politica. La gioia condivisa dell’impegno, Milano 2006.
72 Tra centinaia e centinaia di donne che agirono in tal senso, merita una citazione – anche per la sua valenza simbolica – la celebre Mamma Lucia Apicella, attiva sui luoghi dei combattimenti attorno a Salerno con lo scopo di dare sepoltura onorevole e di conservare l’identità dei caduti, al di là di ogni differenza nazionale o religiosa.
73 G. Vecchio, La Resistenza delle donne: Italia, 1943-1945, in La Resistenza delle donne, cit., pp. 13-50; Id., La partecipazione delle suore alla Resistenza, cit.
74 C. Fumagalli, I processi Turani, Ambiveri, Don Vismara, Maj, Tulli avanti il Tribunale di guerra germanico a Bergamo (1943-44-45), «Atti dell’Ateneo di scienze, lettere, arti in Bergamo», 32, 1962-1963-1964.
75 Un quadro generale è offerto da B. Bocchini Camaiani, I vescovi, in Cattolici, Chiesa, Resistenza, cit., pp. 201-225. Non sono sempre condivisibili le osservazioni critiche di M. Franzinelli, Chiesa e clero cattolico, cit., pp. 300-322 (tra l’altro non vengono usati i volumi curati dall’Istituto Luigi Sturzo, editi tre anni prima). Una recente biografia specifica è quella di M. Lovatti, Giacinto Tredici vescovo di Brescia in anni difficili, Brescia 2009.
76 M. Franzinelli, Il riarmo dello spirito. I cappellani militari nella seconda guerra mondiale, Paese (Tv) 1991, pp. 217-244.
77 F. Mazzonis, Il Centro, in Cattolici, Chiesa, Resistenza, cit., pp. 160 segg.
78 S. Tramontin, Il clero e la RSI, in La Repubblica sociale italiana (1943-1945), «Annali della Fondazione L. Micheletti», 2, 1986, pp. 335-354; Id., I documenti collettivi dei vescovi nella primavera-estate del 1944, in Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, a cura di M. Legnani, F. Vendramini, Milano 1990, pp. 411-431; P. Trionfini, Esperienze e aspettative dei cattolici emiliani, cit., pp. 227-230; F. Malgeri, La Chiesa di fronte alla Repubblica Sociale Italiana, ora in Id., Chiesa, cattolici e democrazia. Da Sturzo a De Gasperi, Brescia 1990, p. 163.
79 B. Bocchini Camaiani, Vescovi e clero, in Cattolici, Chiesa, Resistenza, cit., pp. 27-60.
80 P. Trionfini, Esperienze e aspettative dei cattolici emiliani, cit., pp. 214-215.
81 Riferimenti in G. Vecchio, Lombardia 1940-1945, cit., pp. 355-356.
82 M. Guasco, Il clero, in Cattolici, Chiesa, Resistenza, cit., pp. 238-245.