Guerra e societa nei regni romano-barbarici
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Con le invasioni dei secoli V e VI la cultura guerresca barbarica si impone sui modelli sviluppati dalla civiltà latina e l’attività militare, praticata da tutti gli uomini liberi, rifluisce nel corpo sociale. Al contempo, le aristocrazie guerriere franche insediatesi in Gallia, rielaborate le ataviche forme di gregariato militare nella forma vassallatica, inaugurano la secolare stagione del combattimento a cavallo.
Agli esordi del Medioevo la guerra subisce in Europa un radicale mutamento. Mutamento di forme e, in parte, di contenuti, di tecniche e di motivazioni, conseguente al più generale mutamento socio-culturale generato dall’incontro latino-germanico.
È sul terreno dell’attività bellica, del resto, che le genti latinizzate e i barbari avviano quel “dialogo” che condurrà alla formazione della società medievale, in una dialettica di prestiti che ancor oggi è difficile valutare con precisione. Un dato però è certo: il peso specifico del contributo offerto dai barbari all’ambito della cultura guerresca e dell’universo materiale e mentale a questa collegato è preminente, in conseguenza di fattori di ordine innanzitutto “sociologico”. Va osservato infatti che, mentre nel mondo latino la guerra costituisce uno strumento per la società, uno dei mezzi attraverso i quali esprimere in forme razionali la personalità giuridica dello Stato, per i Germani è la società stessa a essere modellata sulle necessità della guerra. Presso i popoli barbarici, e non solo quelli seminomadi e pagani dei primi secoli dell’era cristiana, ma anche per le nationes che, già evangelizzate, si stanziano in Europa tra il V e il VI secolo, l’attività bellica tende, infatti, a plasmare gli assetti sociali, accordando il potere a quei soggetti che mostrano speciale inclinazione al comando (duces, reges) e cementandolo attraverso apposite forme di sodalizio fiduciario tra combattenti e leader militari (comitatus, trustis). Questa attività permea altresì la sfera familiare, per il magistero marziale esercitato dal padre sui figli e per la struttura schiettamente militare che assumono i gruppi parentali allargati (clan); essa determina inoltre, con l’equazione tra uomo libero e guerriero, la condizione giuridica stessa degli individui, che si riflette, peraltro, e con forza, nell’originalissima onomastica: “Riccardo (Rik-hard: possente-ardito); Armando (Heri-man: uomo di guerra); Ruggiero (Hort-gar: gloriosa lancia); Guglielmo (Wile-helm: volontà-elmo); Gerardo (Ger-hard: lancia-forte); […] Gertrude (Gaire-trudis: sicurezza-lancia); Matilde (Macht-hildis: possente per la guerra)” (P. Contamine, La guerra nel Medioevo, 1986).
Da questa cultura tipicamente tribale, maturata in secoli di permanenza in aree scarsamente antropizzate, deriva la speciale vocazione guerriera dei barbari e, con questa, la loro aggressività, riassunta nel termine wut, dal gotico woths (invasato), da cui anche Wothan, sorta di stato catartico che il combattente raggiunge in battaglia allo scopo di esaltare le proprie forze. Da queste premesse si può capire meglio il vantaggio numerico “relativo” dei barbari, ancorché popolazioni quantitativamente esigue, rispetto ai popoli latinizzati: nel corso delle invasioni, i circa 500 mila effettivi imperiali, distribuiti su un’area geografica enorme e con una presenza ai confini calcolabile intorno ai 150/200 soldati per chilometro lineare, si trovano, infatti, ad affrontare in spazi operativi ristretti tribù germaniche che, riunendo alle armi tutti i maschi adulti dai 15 anni fino alla valida età senile, arrivano a contare dai 20 mila ai 30 mila guerrieri.
Lo stanziamento dei popoli germanici in Europa segna la fine delle forme di organizzazione militare romane, preservate nella sostanza pur con le profonde modificazioni apportate dalle riforme costantiniane e con la progressiva integrazione di elementi barbarici nei quadri della milizia. Si tratta, come si diceva, di un mutamento radicale: la guerra, gestita in epoca tardoantica da un ceto militare professionale dislocato alle frontiere (limitanei) o alloggiato nelle città (comitatenses), rifluisce, confondendovisi, nel tessuto della società. La praticano ora i guerrieri barbarici, stabilitisi sui territori dell’impero con le proprie famiglie: contadini-guerrieri, piccoli proprietari e, con questi, i loro capi, motori delle imprese di conquista, sostituitisi e affiancatisi ai signori del ceto senatorio nel possesso dei grandi fondi.
Esclusivo dell’elemento germanico nei primi decenni del V secolo, l’esercizio delle armi si diffonde tuttavia gradualmente anche tra i popoli conquistati, in virtù della progressiva fusione tra barbari e dominati che la condivisione della fede cristiana, pur con tempi e modi diversi, ovunque favorisce, e si innerva ancor più capillarmente nella società. In tali condizioni i complessi apparati logistico-amministrativi dell’esercito romano si dileguano e, se nella Spagna visigota è ancora attestata la presenza degli annonarii, gli ufficiali addetti alla distribuzione delle vettovaglie, l’organizzazione delle milizie è altrove ridotta all’osso e sostituita dal bannum barbarico, la generale “chiamata alle armi” che gli inviati dei re, i compulsores, attuano percorrendo il Paese e alla quale tutti gli uomini liberi sono obbligati a rispondere. Né, naturalmente, v’è traccia, in seno ai regni romano-barbarici, della perfetta uniformazione nell’armamento che distingueva le milizie romane. Lasciata la propria terra, ciascun guerriero, seguito dai figli e, se ne dispone, dai propri gregari (antrustioni presso i Franchi; gardingi presso i Visigoti di Spagna; gesiths presso i Sassoni dei regni inglesi ecc.), raggiunge il campo con le armi che le sue risorse e il suo status gli consentono di possedere.
Sono diffuse infatti le tradizionali armi germaniche: lo scudo, che il giovane ottiene all’atto di essere ammesso al combattimento; l’armatura, sorta di tunica smanicata formata da anelli di metallo intrecciati; la francisca, l’ascia di uso ancestrale, adoperata sia come arma manesca che da lancio; l’ango, robusto giavellotto guarnito di ferro; il sax o scramasax, micidiale spada a un solo taglio; infine, l’immancabile arco. Rare le grandi spade simmetriche a doppio taglio: di finissima fattura, esse contraddistinguono, insieme alle coperture del corpo più ricche e articolate e alla presenza di elmi e cavalli, il corredo militare dei ceti dominanti.
Gli assetti sociali e il tipo di armamento determinano dunque la collocazione gerarchica del guerriero. Anche se bisogna subito dire che in realtà, per gli eserciti altomedievali, più che di gerarchie e di ruoli di comando si deve parlare di capacità di attrazione sui combattenti da parte di soggetti quotati in ambito bellico.
La tattica militare d’altronde è semplice e i capi tendono unicamente a tenere compatti i combattenti e a spronarli con l’esempio: disposti nella formazione tradizionale del cuneus, i guerrieri si lanciano di corsa all’attacco allo scopo di sfondare lo schieramento avversario e l’azione si polverizza in breve in un’infinità di violenti scontri individuali. Sarebbe però un errore pensare all’alto Medioevo come a un’epoca priva di qualsiasi cognizione tattico-strategica. Sebbene l’antica arte degli assedi, per esempio, la poliorcetica, risulti ormai incognita ai guerrieri dei regni barbarici nelle sue forme più raffinate, la presenza di una strumentazione ossidionale, da sfondamento e anche da getto (arietes, belli machinae), è attestata nelle fonti a partire almeno dal VI secolo.
Il paragone con le epoche precedenti però non è necessariamente pertinente: periodo di profonda rielaborazione sociale, l’alto Medioevo lo è vieppiù per quel che riguarda gli stili guerreschi. D’altronde, dal momento che, come si è detto, l’attività bellica rifluisce nella società, è proprio in questa, e nelle sue dinamiche, che vanno maturando le più consistenti trasformazioni in campo militare. A tal riguardo, un ruolo primario è svolto dal regno dei Franchi.
Risparmiato dagli eventi drammatici che sconvolgono il regno visigoto di Spagna e quello ostrogoto d’Italia nel pieno del loro sviluppo, tra il VII e l’VIII secolo il regno franco si presenta come un vero e proprio laboratorio di sperimentazione socio-istituzionale e, di conseguenza, militare. È tra i nuclei guerrieri germanici insediatisi sul territorio della Gallia, infatti, precocemente mescolatisi alla nobiltà locale, che si realizza quella complessa dialettica tra organizzazione privata della forza militare e gestione dei patrimoni fondiari che porterà all’emersione di stabili e solide aristocrazie guerriere e, in seno a queste, all’elaborazione del sistema vassallatico. Si tratta di un processo di cui sono protagonisti i Pipinidi/Carolingi, abili a esaltare le potenzialità del modello di rapporti e a diffonderne l’applicazione, con il risultato ben noto della realizzazione di un valido gregariato guerriero (truppe vassallatiche) che costituisce la vera grande novità militare dell’Europa altomedievale. La concessione di ricchi benefici fondiari consente invero di riunire contingenti armati consistenti e, ciò che più conta, assai meglio equipaggiati degli eserciti del passato. Dotate dei mezzi utili a procurarsi le raffinate armi d’acciaio e a mantenere le costosissime cavalcature (un cavallo da guerra costava quanto dieci buoi da lavoro), in particolare, le milizie vassallatiche consacrano la grande stagione del combattimento a cavallo, che l’introduzione della staffa, nel VII secolo, contribuisce ad affermare rendendolo ancora più efficace e letale.
A quali risultati ciò conduca, senza parlare dell’impatto che l’assalto di alcune migliaia di guerrieri “montati” doveva produrre su un tradizionale esercito barbarico appiedato, è facile rilevarlo osservando l’esito delle guerre condotte da Carlo Magno dentro e fuori i confini dell’impero, in special modo in quelle contro gli Avari alla fine del secolo VIII: si è calcolato il coinvolgimento di 15 mila armati raccolti con la consueta chiamata alle armi e di almeno 20 mila cavalieri. È l’atto di nascita di una figura militare e, al contempo, di un modello sociale. E se il guerriero vassallatico a cavallo non può essere ancora paragonato al cavaliere del secolo XII, risulta ormai spianata la strada a quel graduale processo di specializzazione e nobilitazione del mestiere delle armi, a quel distacco del bellator dal resto del corpo sociale che tanta parte avrà nel processo di rimodulazione dei futuri assetti sociali e istituzionali in Europa.