Iraq, guerra in
Iraq, guèrra in <iràk ...>. – Per due volte, nel 1991 e nel 2003, gli Stati Uniti, sostenuti in entrambe le occasioni da truppe di coalizioni internazionali, hanno dichiarato guerra all’Iraq di Saddam Hussein. La prima, sotto l’egida delle Nazioni Unite, allo scopo di liberare il Kuwait dall’invasione irachena; la seconda, con un’iniziativa unilaterale, per deporre il regime di Saddam, accusato di possedere armi di distruzione di massa e di fiancheggiare i terroristi di al-Qā‘ida, organizzazione terroristica responsabile degli attentati dell’11 settembre 2001 (v.). La seconda guerra (2003-11), fu preceduta dalla politica sempre più aggressiva del presidente degli Stati Uniti G. W. Bush, che all’inizio del 2002 inserì l’Iraq nel cosiddetto asse del male, assieme all’Iran e alla Corea del Nord; contestualmente, Bush sostenne che il mutamento di regime in Iraq avrebbe innescato un processo virtuoso di democratizzazione di tutto il Medio Oriente, garantendo così una maggiore sicurezza anche agli Stati Uniti. Dopo un lungo negoziato, gli Stati Uniti ottennero l’approvazione della risoluzione 1441 da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che chiedeva all’Iraq di adempiere ai propri obblighi in materia di disarmo, minacciando conseguenze in caso contrario. L’Iraq accettò la risoluzione consentendo l’ingresso nel Paese degli ispettori sul disarmo dell’AIEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica) e dell’UNMOVIC (United Nations monitoring, verification and inspection commission). A fine gennaio 2003 questi concordarono sulla necessità di prolungare le indagini per accertare la presenza eventuale di armi di distruzione di massa, non ancora individuate, ma gli Stati Uniti decisero ugualmente di procedere a un intervento militare senza l’avallo delle Nazioni Unite, una scelta che divise la comunità internazionale, creando tensioni soprattutto in Europa. Quarantotto paesi, riuniti nella coalition of the willing, sostennero l’operazione Iraqi Freedom, con in testa la Gran Bretagna del premier laburista Tony Blair, assieme a Italia, Spagna, Portogallo, Danimarca e Polonia. La posizione della Casa Bianca fu invece fortemente avversata da Francia, Germania, Russia e Cina, favorevoli al proseguimento dell’azione diplomatica; altrettanto ferma fu l’opposizione del Vaticano. Il 20 marzo, quando era scaduto da tre giorni l’ultimo termine per completare il disarmo iracheno, ebbe inizio l’offensiva militare: prima con bombardamenti a siti strategici alla periferia di Baghdad, successivamente con attacchi aerei che colpirono anche il centro città puntando a basi militari, edifici governativi, stazioni televisive. Alle operazioni belliche presero parte circa 150.000 soldati statunitensi, 12.000 inglesi e piccoli contingenti inviati da Australia e Polonia, fiancheggiati a terra dalle milizie curde e dalle truppe del Kuwait. Il 24 marzo la Lega araba (con l’eccezione del Kuwait) condannò all’unanimità l’attacco, mentre in Europa si susseguirono proteste di piazza per denunciare le numerose vittime che l’offensiva stava provocando anche tra la popolazione civile. La reazione dell’esercito iracheno fu relativamente debole, piegata in breve tempo dalla manifesta superiorità tecnologica dell’esercito statunitense. In meno di un mese, il 9 aprile, le truppe della coalizione conquistarono Baghdad, pochi giorni dopo tutte le città irachene erano in mano agli angloamericani. L’operazione militare venne dichiarata ufficialmente conclusa il 1° maggio. Saddam, invece, venne catturato a dicembre, nascosto in un rifugio sotterraneo nei pressi di Tikrit, la sua città natale; imputato per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio per il massacro di 148 sciiti nella città di Dujayl, nel novembre 2006 venne condannato alla pena capitale mediante impiccagione, eseguita il 30 dicembre. La fine delle ostilità e la cattura di gran parte degli esponenti del governo non servirono, tuttavia, a riportare la sicurezza nel Paese; al contrario l’Iraq era precipitato in uno stato d’anarchia e la persistenza di una combattiva guerriglia rendeva impossibile agli statunitensi di entrare in possesso di tutto il territorio iracheno. A organizzare la resistenza erano soprattutto gruppi sunniti, minoritari nel Paese, ma che durante la dittatura di Saddam avevano avuto il monopolio del potere e si vedevano ora spogliati delle loro posizioni di privilegio in favore della componente sciita, maggioritaria, che stava conquistando una posizione di forza in Parlamento e nel Paese. Accompagnata da una lunga scia di attentati suicidi, la guerriglia si rafforzò negli anni successivi al conflitto, alimentata dagli scontri tra sunniti e sciiti, la cui milizia, molto potente, era in grado di mobilitare decine di migliaia di combattenti. In questo scenario, mentre saliva la rivolta nazionalista di tutte le componenti contro la presenza di truppe straniere, cresceva anche la penetrazione in territorio iracheno dell’islamismo radicale qaedista, con il quale divenne chiaro che lo stesso Saddam non aveva avuto nulla a che fare. Il 12 novembre 2003 un attentato kamikaze, tra i tanti che dilaniavano il paese e la popolazione, colpì anche una base delle truppe italiane di stanza a Nassiriya, provocando la morte di 28 persone (19 italiani e 9 iracheni). Negli ultimi mesi del 2006 l’Iraq appariva di fatto sull’orlo della guerra civile e sempre più difficile si manifestava la posizione degli Stati Uniti il cui operato in Iraq fu sottoposto al fuoco delle critiche della comunità internazionale, ma anche della stessa opinione pubblica degli Stati Uniti, rimasta profondamente scossa già nel corso del 2004 dallo scandalo che portò alla luce le torture e le umiliazioni inflitte ai prigionieri iracheni nella prigione di Abū Ghraib (v.). Tuttavia, il biennio 2007-08 segnò una svolta nella politica statunitense in Iraq, soprattutto grazie alla decisione di inviare ulteriori truppe nel Paese voluta dall’allora comandante delle forze armate statunitensi in Iraq, generale D. H. Petraeus, per allontanare i terroristi stranieri legati ad al-Qā‛ida. La parziale pacificazione del territorio fu dovuta anche al bilanciamento nella strategia delle alleanze da parte della coalizione, che si impegnò a finanziare le forze sunnite locali disposte a ostacolare l’infiltrazione di al-Qā‛ida, determinando così naturalmente le preoccupazioni degli sciiti che si sentivano minacciati. Tra il 2008 e il 2009 la strategia statunitense diede i suoi frutti: nel settembre 2008 le forze della coalizione riconsegnavano agli iracheni la provincia di al-Anbar, dove aveva imperversato la guerriglia sunnita e gli Stati Uniti per mesi avevano subito le perdite più pesanti, e all’inizio del 2009 il controllo della cosiddetta zona verde di Baghdad, sede del governo e delle rappresentanze diplomatiche, passava alle autorità irachene. Drammatiche restavano le condizioni di vita della popolazione e altissimo il numero delle vittime civili, circa 100.000 secondo le maggiori organizzazioni umanitarie internazionali. Le truppe statunitensi lasciavano l’Iraq il 15 dicembre del 2011, data ufficiale della fine del conflitto, come promesso dal presidente Barack Obama in campagna elettorale, abbandonando un Paese ancora politicamente instabile e attraversato da numerosi conflitti.