guerra
Tanto i filosofi quanto gli storici dell’antichità vedono nella g. un elemento ineliminabile della vita umana, se non addirittura un fattore la cui assenza sarebbe più dannosa che vantaggiosa. In Eraclito la g. (Πόλεμος) è definita «padre di tutte le cose», e in Empedocle la contesa (Νεῖκος) è uno dei due fattori, insieme all’amore, del ciclo cosmico di unione e separazione dei quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra). Per quanto riguarda gli storici (si pensi soprattutto a Tucidide), la g. è vista come un elemento inseparabile dalla vita degli Stati, che per propria natura vedono nell’espansione territoriale una garanzia di sicurezza. Con l’avvento del cristianesimo la g. non viene più vista come un fenomeno naturale, ma si comincia a operare una distinzione fra g. giuste e g. ingiuste. Agostino e soprattutto Tommaso stabilirono il principio secondo il quale una g. è giusta quando è sostenuta da un’autorità universalmente riconosciuta ed è combattuta per una giusta causa. In età moderna «stato di g.» viene definito da Hobbes lo stato di natura, la g. di tutti contro tutti alla quale solo il grande Leviatano, lo Stato assoluto, può mettere fine. Stato di g., conseguentemente, diventa soltanto la condizione all’esterno degli Stati, che continuano a vivere in uno stato di natura. Rousseau applicherà il concetto hobbesiano di g. non più allo stato di natura, ma alla società civile, giudicata il luogo della lotta e della concorrenza reciproca, e quindi la fonte della disuguaglianza e del malessere sociale. A questo stato di g., secondo Rousseau, potrà mettere fine soltanto un ‘nuovo’ contratto sociale, che faccia del popolo una reale comunità di intenti. Questa visione venne contestata da B. Constant, che vide nelle teorie politiche di Rousseau un pericolo per l’individualismo (la vera conquista dei tempi moderni contro il collettivismo delle società antiche) e nel progresso della società civile e del commercio internazionale il vero fattore di superamento della guerra. A siffatto pacifismo si ispirano i progetti cosmopolitici di Kant, che miravano a una totale messa al bando della guerra. Con gli sviluppi della filosofia classica tedesca si torna invece a una visione simile a quella antica. Senza le g., dice Hegel, la storia registrerebbe solo pagine bianche, e nei Lineamenti di filosofia del diritto (1821) assegna alla g. un profondo valore etico, perché «preserva i popoli dalla putredine cui sarebbero ridotti da una pace duratura o addirittura perpetua». Marx non era certo un pacifista, e giudicava utili e necessarie soprattutto le g. che favoriscono il progresso economico e quindi indirettamente gli interessi del proletariato; ma la sua visione è più complessa. La g. ha – come ogni evento – una radice nei rapporti sociali di produzione ed è destinata a scomparire via via che il socialismo produrrà una reale unità fra i popoli della Terra, una sorta di comunità planetaria. La classica distinzione fra g. giuste e g. ingiuste è oggetto della critica di Carl Schmitt, che si rivolge soprattutto contro l’idea della g. come atto di giustizia (➔) internazionale, fatta valere da Inglesi e Statunitensi nel corso delle due g. mondiali. La presunzione morale angloamericana è per lui una tipica espressione dell’ideologia «insulare» di popoli che, non vivendo a diretto contatto con altri popoli, come accade per gli abitanti dei continenti, non devono continuamente sperimentare la dura necessità di combattere.