guerra
guèrra s. f. – La definizione del concetto di g. e dei suoi mutamenti in epoca post-moderna ha nutrito una storiografia molto ampia e alimentato un dibattito ancora vivo. Nonostante la varietà di analisi che caratterizza gli studi delle relazioni internazionali sull’evoluzione della g. contemporanea, possono essere evidenziate due cesure storiche come punti di riferimento prospettici: la fine della Guerra fredda, con la dissoluzione dell’assetto bipolare, e l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 alle Torri gemelle e al Pentagono, che ha sancito l’affermarsi del terrorismo globale. La fine della Guerra fredda ha determinato l’esplosione in diverse aree del mondo di conflitti che erano rimasti latenti nella logica della contrapposizione dei blocchi e negli anni Novanta del 20° sec. il numero delle g. locali ha cominciato a crescere esponenzialmente. Queste vengono definite a bassa intensità quando sono diluite in uno spazio temporale senza azioni belliche continue, in un’area ad alta conflittualità. Nelle zone più instabili come l’Africa subsahariana, l’Asia centrale e l’immenso spazio ex-sovietico, gli stati hanno subito l’erosione del loro predominio esclusivo sulla forza militare e soggetti transnazionali – gruppi armati privi dello status politico tradizionale – sono emersi come attori capaci di mobilitare eserciti militarmente competitivi e risorse economiche ingenti, spesso frutto di attività criminali. Tra il 1990 e il 2010 questi conflitti hanno provocato oltre 7 milioni di vittime e 50 milioni tra profughi e rifugiati in tutto il mondo. Secondo la visione esposta dal politologo statunitense P. Hungtington in The clash of civilizations and the remaking of world order (1996), con la fine dello scontro ideologico tra il campo occidentale e quello comunista, le identità culturali e religiose sarebbero diventate la fonte primaria di conflitto a livello sia regionale che globale. Le sanguinose g. scoppiate dopo l’implosione della Iugoslavia nell’ultimo scorcio del 20° sec., le più feroci in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale, possono essere inserite in questa prospettiva, essendo i Balcani un esempio lampante di come l’equilibrio bipolare fosse riuscito a sopire per decenni antiche rivalità etnico-religiose. Con gli attacchi dell’11 settembre 2001, lo scontro preconizzato da Hungtinton parve manifestarsi su scala globale. L’attentato terroristico contro le Torri gemelle di New York e il Pentagono di Washington comportò un riallineamento delle posizioni degli stati sul palcoscenico internazionale. Quando il presidente repubblicano degli Stati Uniti G.W. Bush decise di lanciare la massiccia offensiva Enduring freedom contro i Talebani afghani, accusati di nascondere i vertici dell’organizzazione Al Qaida ritenuta mandante degli attacchi, la comunità internazionale, profondamente scossa, avallò la risposta militare di Washington unendosi in una coalizione che raccolse le forze armate delle principali potenze occidentali. In quella fase si affermò una dinamica unipolare a guida statunitense, ribadita dall’indiscussa superiorità militare USA e dall’individuazione di un nemico comune, nonostante la natura di quest’ultimo sfuggisse alle tradizionali categorizzazioni. La g. diventò 'asimmetrica' e il ricorso a tecnologie molto avanzate, come sistemi satellitari e armi ad alta precisione, sempre più importante. La successiva strategia adottata dall’amministrazione repubblicana impresse una svolta storica che avrebbe contribuito al rapido ridisegnarsi delle dinamiche e dei rapporti di forza nell’arena internazionale. Un anno dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre, Bush ribadì l’impegno degli Stati Uniti contro il terrorismo indicando nell’Iraq di Saddam Hussein, accusato di possedere armi di distruzione di massa, il principale obiettivo della strategia militare statunitense, definita g. preventiva. Risoluto ad abbattere il regime iracheno, Bush chiese alle Nazioni Unite l’autorizzazione all’uso della forza, che però gli venne negata in seno al Consiglio di sicurezza dal veto di Germania, Francia, Russia e Cina, persuase della necessità di attendere il risultato dei controlli degli ispettori internazionali che erano stati inviati nel Paese mediorientale. Tuttavia, nonostante l’assenza di prove ufficialmente riconosciute sull’esistenza di armi di distruzione di massa, nel marzo 2003, con l’appoggio militare di Regno Unito, Australia e Polonia e quello politico e logistico di altri paesi del blocco occidentale (tra cui l’Italia), Bush decise di agire anche senza l’appoggio dell’ONU dando inizio all’operazione Iraqi freedom. Il risultato della guerra globale al terrore è stato il progressivo allontanamento diplomatico di Washington dai protagonisti dello scacchiere internazionale, gli stessi che sembravano precedentemente disposti a contribuire al mantenimento della pace statunitense. La decisione unilaterale di sferrare un attacco di grandi dimensioni in un’area geopoliticamente decisiva come il Medioriente è sembrato a molti osservatori il tentativo di cavalcare i sentimenti antifondamentalisti ampiamente diffusi per mascherare una vera e propria politica di potenza nella regione. Gli Stati Uniti hanno perso così il loro ruolo, se mai lo hanno realmente interpretato, di superpotenza capace di regolare gli equilibri globali nel nome di un interesse comune condiviso e in un contesto di sostanziale uniformità di vedute con gli altri attori. Il successore di Bush, Barack Obama, si è trovato a dover condurre la sua politica estera in un mondo sempre meno disposto a seguire la leadership di Washington, che sembra trovarsi incastrata tra una spinta verso il disimpegno militare e l’esigenza strategica di conservare le proprie aree d’influenza. Lo scacchiere mediorientale, tradizionalmente arena di aspre tensioni, è ancora fortemente destabilizzato dal conflitto israelo-palestinese – che non sembra potersi risolvere con una soluzione condivisa dalle parti – e dalla politica sempre più aggressiva di Theran, che ambisce al primato politico regionale e non intende rinunciare al suo programma nucleare. È da notare che la maggior parte dei conflitti in atto nel mondo avvengono al di fuori della lente d’ingrandimento dei mezzi d’informazione, dove gli interessi delle potenze dominanti sono relativi. Il conflitto in Sudan e quello somalo sono due casi di g. civili durissime che hanno visto forze ribelli e gruppi armati ingaggiare sanguinose lotte contro autorità centrali incapaci a mantenere il controllo territoriale senza che la comunità internazionale potesse mostrare una reale capacità d’intervento militare. Nelle aree dove le forze transnazionali hanno forte potere di mobilitazione, il monopolio dell’uso della forza da parte di uno Stato è divenuto sempre più problematico sia all’interno dei confini nazionali che al di fuori di essi e un uso massiccio della violenza attraverso un regolare strumento bellico diventa meno funzionale nel raggiungere obiettivi tattici. In un sistema geopolitico che ha visto diminuire la possibilità di una g. che impieghi tutte le risorse di uno Stato, ma non la necessità di possedere comunque uno strumento militare, nasce il bisogno di ridefinire in modo razionale e accettabile l’impiego legittimo della forza.