guerre civili
Per indagare tanto appassionatamente le ragioni dell’inarrestabile declino della «romana repubblica», M. aveva più di un motivo. Che la «città» della quale aveva esaltato la «perfetta» costituzione (Discorsi I iv 36) fosse stata sconvolta, dopo aver esteso le sue conquiste fino agli estremi limiti del mondo conosciuto, da una crisi terminata con la rovina di quella costituzione, gettava l’ombra inquietante del dubbio sulla sua idoneità a rappresentare il «modello» al quale avrebbero dovuto, e non avevano saputo, ispirarsi gli Stati sorti in Italia sulle rovine dell’impero. Al compito di comprendere la «cagione» del disastro che aveva condotto alla dittatura perpetua di Cesare, «il quale fu primo tiranno in Roma» (I xxxvii 20), l’autore dei Discorsi non poteva dunque sottrarsi. Ma ad acuire il suo interesse concorreva un altro motivo, perché gli errori commessi dai Romani non gli parevano meno istruttivi dei loro successi, e recarli alla luce significava vagliare le reali possibilità di arrestare la decadenza delle istituzioni repubblicane.
Ben si comprende che di una questione tanto complessa e problematica M. abbia proposto analisi che, illuminandone aspetti diversi, appaiono difficilmente riconducibili a unità. Quasi tutte hanno tuttavia al loro centro il concetto di «corruzione» (→), la cui genesi e natura sono altrettanto sfuggenti quanto ne è per contro evidente l’incompatibilità con il «vivere libero». Nel quinto capitolo del primo libro dei Discorsi lo scrittore ricorda (§§ 10 e segg.) che i fautori del governo aristocratico attribuivano la «rovina di Roma» al cieco «furore» da cui i plebei sarebbero stati indotti, dopo aver preteso di avere accesso a tutte le più alte cariche dello Stato, ad «adorare quelli uomini che vedevano atti a battere la Nobilità; donde nacque la potenza di Mario». M. non contesta questa gravissima accusa: si limita a osservare (§§ 17-20) che vi è motivo di chiedersi «quale sia più ambizioso, o quel che vuole mantenere o quel che vuole acquistare, perché facilmente l’uno e l’altro appetito può essere cagione di tumulti grandissimi»; e aggiunge che i tumulti «il più delle volte sono causati da chi possiede; […] perché non pare agli uomini possedere sicuramente quello che l’uomo ha, se non si acquista di nuovo dell’altro»: talché «gli scorretti portamenti» dei possidenti suscitano in «chi non possiede» il desiderio di «possedere, o per vendicarsi, […] o per potere ancora loro entrare in quelle ricchezze e in quegli onori che veggono essere male usati dagli altri».
Sebbene non sia privo di forzature, il passo, scritto con implicito riferimento alla contesa agraria, evocata dai detrattori di Roma, rovescia efficacemente e, tutto considerato, con rigore la responsabilità dei «tumulti» sulla provocatoria avidità dei patrizi. Si noti che il verbo «vendicarsi» implica la convinzione di aver subito un torto e, nel contesto, di essere stati derubati. Convinzione, è bene dirlo, non infondata, se è vero che la nobiltà senatoria aveva preso illecitamente possesso dell’ager publicus. Ma altrettanto necessario è non lasciarsi sfuggire che le lotte agrarie e il loro infausto esito sono considerati conseguenza, come meglio si potrà vedere esaminando I xxxvii, di elementari pulsioni, presenti in tutti gli uomini, che la ricchezza generata dalla conquista aveva esasperato, rendendole incontrollabili.
Nel capitolo successivo, sesto di questo primo libro, M. constata (§§ 2 e segg.) che le «controversie intra il Popolo e il Senato», che in I iv 5 aveva definito, con una geniale intuizione storiografica, «prima causa del tenere libera Roma», furono, al tempo dei Gracchi, «cagione della rovina del vivere libero», cioè della transizione all’impero. Detto che non vi è contraddizione nell’anticipare la crisi «al tempo de’ Gracchi», perché proprio allora ebbe inizio la contesa che permise ai capi degli eserciti di erigere il loro potere sulle rovine della costituzione repubblicana, è indispensabile osservare che l’invito a tollerare «quelle inimicizie che intra il popolo e il senato nascessino, […] pigliandole per uno inconveniente necessario a pervenire alla romana grandezza» (I vi 37), consegue inevitabilmente dal nesso che lo scrittore aveva stretto tra il conflitto sociale e la libertà, e tra questa e la potenza, della quale nessuno Stato potrebbe mancare senza soccombere alla potenza altrui. Il che apre la dolorosa questione del destino delle repubbliche, nella cui «grandezza» è insita la loro crisi, che M. finisce con il considerare l’inevitabile prezzo di alcuni secoli di gloria.
Ma, evitabile o no che fosse, il crollo della Repubblica ebbe una causa, che la prima parte del diciassettesimo capitolo (§§ 5-8) del medesimo libro dei Discorsi indica nella corruzione ormai dilagante. Tuttavia la «corruzione» di cui discute quest’importante luogo non è posta in rapporto con la violenza del conflitto agrario: coincide, invece, con l’inerzia politica di cui avevano dato prova i cittadini romani lasciando trascorrere invano la facile occasione di riconquistare la «libertà» immeritamente offertagli dall’eroismo del secondo Bruto. Se questo è vero, non è facile capire il reale significato dell’affermazione secondo cui causa di tale corruzione furono le «parti mariane». E più arduo diviene, quando ci si domandi come avrebbero potuto le «parti mariane» operare con successo – e, per giungere alla radice, come avrebbero potuto esistere delle «parti» –, se la «corruzione» non avesse già invaso la città. Obiezione suggerita dallo stesso scrittore, che in III viii 14-15 osserva che Mario e Silla non avrebbero avuto modo di realizzare i loro ambiziosi propositi se la «materia» non fosse stata già contaminata; come è dimostrato dalla resistenza che la plebe aveva opposto, quando non era ancora corrotta, alle demagogiche lusinghe di Spurio Cassio e di Manlio Capitolino, convinta che nessun bene valesse il sacrificio della «libertà» (§§ 2-11). Al riguardo, M. rinvia alla tesi, d’ispirazione naturalistica, che aveva svolto nel primo capitolo di questo stesso libro, dove la «corruzione» è il modo specifico in cui i «corpi misti, come sono le repubbliche e le sette», incontrano il destino di morte che incombe su «tutte le cose del mondo» – e che la «riduzione verso il principio» può soltanto differire. Una cosa tuttavia dobbiamo considerare certa, che la corruzione-inerzia precedette la formazione dell’impero, quale che sia la difficoltà che si incontra nel porla in rapporto con il violento carattere assunto dal conflitto che aveva per alcuni secoli modellato positivamente le istituzioni della Repubblica.
All’esempio dell’antica Roma, nella «seconda parte» del capitolo xvii del I libro, M. accosta quello del ducato di Milano e del Regno di Napoli (§§ 10-11), la cui estrema «corruzione» – efficacemente descritta da I lv – aveva la sua più evidente manifestazione nella passiva sottomissione del corpo sociale allo sfrenato arbitrio della nobiltà. L’accostamento è sorprendente, perché, secondo ciò che si dice poco dopo, la «corruzione» di Roma scatenò la sua intrinseca nocività nel turbolento quadro delle lotte agrarie e non sembra per tanto possedere il medesimo carattere. In proposito, il grande Segretario osserva che, cacciati i re, fu allontanato il pericolo che la grave corruzione a cui essi erano giunti contagiasse i cittadini, «la quale incorruzione fu cagione che gl’infiniti tumulti che furono in Roma, avendo gli uomini il fine buono, non nocerono anzi giovorono alla Repubblica» (§ 12). E di seguito afferma che «dove la materia non è corrotta, i tumulti e altri scandoli non nuocono; dove la è corrotta, le leggi bene ordinate non giovano» (§ 13). Posto che i «tumulti» divennero nocivi a causa della corruzione, e su questo nessun dubbio è possibile, sembrerebbe di doverne inferire che essa ne esasperò la violenza. Ma, a ben guardare, il testo non consente di stabilire se la corruzione coincida con il venir meno della moderazione di cui avevano dato precedentemente prova i plebei o con le scelte da essi compiute (favorendo l’azione eversiva di Mario, e in seguito di Cesare) nel corso di un conflitto la cui radicalizzazione dipendeva, come suggerisce I xxxvii, dal mutamento del suo oggetto, un tempo costituito dalle magistrature e in seguito dai beni materiali. La differenza è sottile, ma importante. Tanto più che il volto con cui la corruzione si era presentata nella prima parte del diciassettesimo capitolo torna ad apparire nell’ultimo capoverso, che ne ravvisa la causa nell’«inequalità» dalla quale, spiega I lv, a cui lo scrittore rinvia, Milano e Napoli erano rese del tutto inadatte a ricevere una costituzione repubblicana:
Perché tale corruzione e poca attitudine alla vita libera nasce da una inequalità che è in quella città, e volendola ridurre equale, è necessario usare grandissimi straordinari, i quali pochi sanno o vogliono usare, come in altro luogo più particolarmente si dirà.
Se ne potrebbe dedurre che il cenno all’«inequalità» (→ equalità e inequalità) riguardi gli Stati di cui tratta I lv (Milano, Napoli, la Romagna e lo Stato della Chiesa), e soltanto quelli; ma è impossibile escludere che il rinvio all’«altro luogo» sia stato introdotto allo scopo d’informare il lettore che la particolare questione dei «grandissimi straordinari» necessari per «ridurre equale» una città corrotta sarebbe stata discussa in un altro capitolo, cioè il lv del I libro. Della fenomenologia dell’«inequalità», infatti, oltre agli Stati ricordati in quel capitolo, esisteva un altro esempio, che si trova non lontano da I xvii e riguarda la Repubblica romana. Anche in I xviii si parla di «corruzione», anzi di «una città corrottissima», e M. spiega (§§ 2-12) che non si potrebbe sperare di porvi rimedio, come si era vanamente tentato a Roma, mediante leggi sempre più severe, «perché gli ordini, che stanno saldi, le corrompono». Sono infatti questi, gli «ordini», cioè la struttura costituzionale, che occorrerebbe mutare. Compito estremamente arduo e quasi impossibile, di cui lo scrittore sottolinea la grande difficoltà senza tuttavia indicare in quale maniera sarebbe stato necessario riformare la costituzione della Repubblica «a volere che Roma nella corruzione si mantenesse libera». Né si può dire che la problematica proposta che egli adombra (§ 29) sia davvero risolutiva, fondata, com’è, sulla necessità di ridurre la costituzione «più verso lo stato regio che verso lo stato popolare».
Sui gravissimi ostacoli che rendono assai incerto anche l’esito di quest’estremo tentativo non è possibile attardarsi, perché più urge prendere in attenta considerazione i due esempi che permettono di comprendere che cosa sia l’«inequalità» e in qual modo abbia agito nella storia dell’Urbe. Il primo (I xviii 13-16) concerne l’attribuzione delle massime cariche dello Stato e mostra come le norme che avevano assicurato un tempo la selezione dei più degni abbiano prodotto un risultato opposto «nella città corrotta»: «perché non quelli che avevano più virtù, ma quelli che avevano più potenza, domandavano i magistrati e gl’impotenti, comecché virtuosi, se ne astenevano di domandarli per paura». A tanto si era giunti quando, dopo la distruzione di Cartagine, i Romani non dovettero più temere alcun nemico.
Questa sicurtà e questa debolezza de’ nimici fece che il popolo romano nel dare il consolato non riguardava più la virtù, ma la grazia […]; dipoi, da quelli che avevano più grazia ei discesono a darlo a quegli che avevano più potenza; talché i buoni, per difetto di tale ordine, ne rimasero al tutto esclusi (§§ 17 e segg.).
La spiegazione suscita perplessità. Se si dovesse ammettere che i «potenti» sono divenuti tali in conseguenza del favore accordato dal popolo a coloro che «avevano più grazia», il rapporto tra «inequalità» e corruzione dovrebbe essere invertito. Tuttavia M. non stabilisce un nesso causale all’interno della successione cronologica: tra ciò che avvenne non appena i Romani non ebbero più alcun nemico e ciò che avvenne in seguito («dipoi») esiste solo un rapporto esterno, la caduta della necessità di provvedere alla difesa dell’impero. Il secondo esempio riguarda la presentazione delle leggi. Era bene, afferma M., che qualsiasi cittadino potesse farlo e che tutti potessero esprimere la loro opinione;
ma diventati i cittadini cattivi, diventò tale ordine pessimo, perché solo i potenti preponevano leggi, non per la comune libertà, ma per la potenza loro, e contro a quelle non poteva parlare alcuno per paura di quelli; talché il popolo veniva o ingannato o sforzato a diliberare la sua rovina (§§ 19-21).
Un’immagine molto simile della società tardorepubblicana M. aveva trovato nelle opere del grande Sallustio, e, in particolare, nel celebre discorso attribuito a Gaio Memmio (Bellum Iugurthinum xxxi), tribuno della plebe nel 111 a.C., tra l’assassinio dei Gracchi e i consolati di Mario, e in quello che intorno alle calende di giugno del 64 a.C. avrebbe pronunziato Catilina (De Catilinae coniuratione xx 7 e segg.), sulle cui convergenti denunce anche lo storico latino, ben noto all’autore dei Discorsi, mostra di concordare (Bellum Iugurthinum xli 6 e segg.; De Catilinae coniuratione xxxix 1 e segg.). Nel quarantunesimo capitolo del Bellum Iugurthinum Sallustio aveva spiegato per quali vie si fosse giunti alla situazione descritta con sdegno dai due oratori, narrando con la consueta asciuttezza come la cessazione del metus hostilis avesse pervertito i costumi dei padri e scatenato la feroce competizione dalla quale erano emersi i pauci che avevano soggiogato il popolo romano. Di questa drammatica narrazione, solo la considerazione sul tramonto del metus hostilis ‘passa’ nella pagina machiavelliana; e se ovvio ne è il rapporto con il favore incontrato dai demagoghi, non lo è altrettanto quello con la passiva acquiescenza del popolo alle prevaricazioni dei «potenti». Dell’esistenza di costoro, che imponevano la loro dispotica volontà terrorizzando gli altri cittadini, M. non offre, in realtà, alcuna spiegazione. Nelle ultime linee di I xvii l’«inequalità» era stata assunta come causa, probabilmente perché ciò che più importava allo scrittore era la «poca attitudine alla vita libera» delle città nelle quali (come diviene ora evidente) gl’«impotenti» erano costretti a sopportare ogni sorta di soprusi, ma la causa di questa causa non era stata chiarita. Ci si domanderà come la «corruzione» possa essere posta all’origine di fenomeni tanto diversi quanto l’inerte sottomissione descritta dai due capitoli sui quali ci siamo soffermati e l’ostinata volontà di rivalsa manifestata dalla plebe nel corso delle lotte agrarie. L’unica risposta che si può dare è che, forzato o volontario che fosse, il comportamento della plebe era caratterizzato da un’analoga disponibilità a subire il dominio: perché se si rivolge l’attenzione alle lotte agrarie, si vedrà che essa cercò di soddisfare il suo incoercibile desiderio di appropriarsi delle ricchezze accumulate dalla nobiltà senatoria favorendo le mire di un capo militare intenzionato a servirsi delle truppe di cui era al comando per sottoporre l’intera società al suo assoluto potere. Questo non attenua in alcun modo la distinzione, che, al contrario, è necessario tenere ben ferma, tra Mario e Silla, o Cesare e Pompeo, ciascuno dei quali ottenne il favore di uno dei contrapposti «umori» sociali, e coloro che in I xviii M. indica con il nome di «potenti».
Tenere ferma questa distinzione è, al contrario, necessario, poiché rende concreta quella tra soggettiva ambizione e oggettiva necessità, che confluirono nel determinare la fine di tre secoli di «libertà», ma, separatamente considerate, danno luogo a spiegazioni destinate ad apparire contraddittorie. Come accade, appunto, nelle pagine che M. dedicò alla crisi della Repubblica, nelle quali Cesare è ricordato come l’ambizioso distruttore della libertà repubblicana, e mai si dice che la sua «ambizione» assolse un compito storicamente necessario.
Senza dubbio il favore che le classi in lotta concedettero ai capi militari – ai quali, si legge in Discorsi III xxiv, la reiterazione dei periodi di comando assicurava la fedeltà delle truppe – appare un’indubbia causa del processo che costrinse Roma ad assumere una forma politica che della «libertà», della partecipazione al governo di tutte le forze sociali, in breve dell’essenza della repubblica, costituisce la più radicale negazione. Tuttavia, se la «città» era ormai dominata dai «potenti» che pervertivano le leggi e spegnevano ogni resistenza con la «paura» che essi incutevano, la transizione all’impero è altresì, e in primo luogo, il risultato della necessità generata dal mutamento strutturale della società, ormai sul punto di dissolversi nell’anarchia, se non fosse intervenuta «una mano regia». Ancora meglio lo si comprende, se si fa ritorno al I xviii, per rileggere il capoverso (§ 29) che invita a ridurre le «città corrotte», qualora si voglia lasciare loro qualche (illusorio) tratto repubblicano,
più verso lo stato regio che verso lo stato popolare, acciocché quegli uomini i quali dalle leggi per la loro insolenza non possono essere corretti, fussero da una podestà quasi regia in qualche modo frenati.
Questo tema sarà ripreso nel primo capitolo del terzo libro delle Istorie fiorentine. Ma prima di tentare di decifrare le fulminee osservazioni sulla decadenza della Repubblica contenute in quel difficile proemio, occorrerà dedicare la necessaria attenzione a Discorsi I xxxvii, al quale si è spesso accennato senza mai iniziarne lo studio.
Dedicato agli «scandoli» generati dalla legge agraria, il capitolo si apre con alcune importanti considerazioni sull’«ambizione» (§§ 2-5), che «è tanto potente ne’ petti umani che mai, a qualunque grado si salgano, gli abbandona», tema a cui lo scrittore dedica anche i versi del capitolo “Dell’Ambizione” e quelli del quinto capitolo dell’Asino. Nell’«ambizione», nome preso dal desiderio quando entra in competizione con il desiderio altrui, M. ravvisa la causa dell’incessante moto della storia:
perché desiderando gli uomini parte di avere più, parte temendo di non perdere lo acquistato, si viene alle inimicizie e alla guerra, dalla quale nasce la rovina di quella provincia e la esaltazione di quell’altra.
Ricompare dunque, in un più ampio e impegnativo contesto, la tesi che avevamo già trovato in Discorsi I v («non pare agli uomini possedere sicuramente quello che l’uomo ha, se non si acquista di nuovo dell’altro»); ma soprattutto, di quel capitolo M. fa proprie, pur introducendovi un’essenziale precisazione, le obiezioni che aveva attribuito ai suoi ideali antagonisti; e osserva che alla plebe
non bastò assicurarsi de’ nobili per la creazione de’ Tribuni, al quale desiderio fu costretta per necessità; che lei subito, ottenuto quello, cominciò a combattere per ambizione, e volere con la Nobilità dividere gli onori e le sustanze, come cosa stimata più dagli uomini (I xxxvii 6).
Dove si noterà che l’ineguale ripartizione del potere e della ricchezza, che fa della nobiltà una nobiltà, suscitò nei plebei il desiderio di ottenere pari partecipazione («dividere») a entrambi, e la lotta che ne scaturì tese pertanto, ne fossero essi o no consapevoli, a mutare il contenuto dello Stato, abolendo ogni distinzione sociale. Ma, come sempre accade, prima che ciò avvenisse, l’inasprimento dello scontro aprì la via all’«ambizione» di chi aspirava a impadronirsi del potere, ponendo fine alla secolare esperienza repubblicana, che aveva assicurato a Roma strepitosi successi (§ 20). Se è vero, come lo scrittore aveva sostenuto in I vi, che alla conquista nessuno Stato potrebbe impunemente decidere di rinunciare, la crisi delle libere repubbliche appare dunque inevitabile, poiché lo scontro sociale che si accende intorno all’appropriazione della ricchezza generata dalla conquista non è suscettibile di mediazione. A un simile esito l’animo repubblicano dello scrittore non sapeva tuttavia rassegnarsi. Dall’analisi del male bisognava quindi estrarre una «medicina forte» capace di evitarlo. E M. credette di trovarla nelle leggi che, come quella fatta approvare da Tiberio Gracco, avrebbero posto un ferreo limite all’incremento della ricchezza privata (I xxxvii 8). Non perciò si mostra meno consapevole del fatto che, trascorso il tempo in cui quella legge avrebbe potuto operare utilmente, le destabilizzanti iniziative dei Gracchi avevano «partorito» lo scontro che fece precipitare la crisi. Sebbene fosse impossibile disapprovare le loro «intenzioni», la loro scarsa «prudenzia» meritava dunque una severa condanna (§§ 26 e segg.). La responsabilità della trasformazione della Repubblica in impero è comunque addebitata, in analisi estrema, al ceto dirigente, che non aveva saputo né voluto «tenere ricco il publico» e «poveri» i cittadini, come dovrebbero fare tutte le «repubbliche bene ordinate» (§ 16), al fine di evitare che il conflitto sociale assuma i tratti dell’eversione. Della «regola» che consentiva di sottrarre alla condanna l’intenzione, anche se non l’operato, dei Gracchi (→) si discute altrove. È tuttavia essenziale notare che in I xxxvii, per spiegare il disastro, M. non si serve del concetto di corruzione. L’«ambizione», che ne ha preso il posto, è considerata un dato costitutivo dell’uomo che non richiede ulteriori spiegazioni.
Ci si può domandare perché solo allora abbia agito con tanta irruenza. Ma l’affermazione secondo la quale gli uomini «stimano più la roba che gli onori» fornisce la risposta e permette di comprendere perché soltanto quando l’«ambizione» della plebe, che aveva ottenuto l’accesso a tutti gli «onori» della Repubblica, si volse verso la «roba», il conflitto sia giunto «nelle armi ed al sangue, fuori d’ogni modo e costume civile» (§ 16).
Restava la necessità di trarne le conseguenze. M. sa bene che l’esito della contesa agraria minacciava seriamente le sue affermazioni sulla sostanziale positività delle «controversie» che, dopo aver consentito a Roma di assumere l’assetto a cui doveva libertà e potenza, avevano demolito la costituzione repubblicana. Sarebbe tuttavia errato ravvisare nel passo che precede immediatamente la conclusione del trentasettesimo capitolo la disperata difesa di una tesi condannata dalla storia. A quella tesi il quondam Segretario dichiara di non essere disposto a rinunciare, e ne chiarisce le ragioni, spiegando che
gli è tanta l’ambizione de’ grandi, che, se per varie vie ed in vari modi ella non è in una città sbattuta, tosto riduce quella città alla rovina sua. In modo che, se la contenzione della legge agraria penò trecento anni a fare Roma serva, si sarebbe condotta per avventura molto più tosto in servitù quando la plebe, e con questa legge e con altri suoi appetiti, non avesse sempre frenato l’ambizione de’ nobili (§§ 21-23).
In questo passo la storia di Roma appare interamente forgiata dallo scontro di due antagonisti, la cui uguale «ambizione» è contenuta unicamente dall’ambizione dell’avversario, mentre la «virtù», la «corruzione» e gli stessi «ordini», cioè i principali criteri con cui erano stati interpretati i tre secoli di «libertà», retrocedono sullo sfondo. Al riguardo, in III xi si legge:
La potenza de’ Tribuni della plebe nella città di Roma fu grande, e fu necessaria, […] perché altrimenti non si sarebbe potuto porre freno all’ambizione della Nobilità; la quale arebbe molto tempo innanzi corrotta quella republica che la non si corroppe (§ 2).
E, continuando la lettura, si nota che anche l’ambizione dei tribuni ebbe bisogno del «temperamento» trovato dall’astuzia della «nobilità» per moderarne l’impeto. Inevitabile, dunque, che il fragile equilibrio che per alcuni secoli aveva evitato il peggio sia stato spezzato dalla questione agraria.
Queste sconsolate considerazioni hanno origini lontane e profonde. E se aprono una contraddizione, non la aprono con l’importantissimo luogo dei Discorsi in cui l’autore spiega come «le inimicizie di Roma intra il senato e la plebe mantenessero libera Roma» (I iv), luogo al quale M. allude con incontestabile evidenza. La contraddizione riguarda i numerosi passi, tanto dei Discorsi quanto del Principe, che attribuiscono al popolo il solo desiderio di sottrarsi all’oppressione dei «grandi», non escluso quello di Discorsi I v 8, che ne indica la «cagione» nella consapevolezza dell’impossibilità d’innalzarsi a classe dominante. Ma le conseguenze della tesi che è venuta emergendo sono di portata assai più vasta, perché la possibilità di sottoporre al controllo dell’uomo il corso delle cose e, in particolare, lo spazio della politica subisce una brusca contrazione. La grandezza e il declino degli Stati tendono per conseguenza a configurarsi come un processo guidato da forze che sfuggono al controllo di coloro attraverso i quali esse agiscono, modellando il volto delle società e delle epoche. E non ne va soltanto del destino delle repubbliche: è una concezione della storia che viene messa in pericolo e, con questa, quella della politica e dello Stato costruita da M. con straordinaria intelligenza e lucida passione. Per coglierne la genesi, bisogna richiamare ciò che era stato detto all’inizio di I xxxvii e in molti altri luoghi machiavelliani che, esplicitamente o implicitamente, ravvisano nel conflitto il rapporto originario tra gli uomini, talché anche il bisogno appare insufficiente ad assicurare la coesione degli aggregati sociali senza il soccorso della religione. Della quale viene esaltata la capacità di mutare l’ethos del popolo, benché l’uso fattone dalla classe dominante la riduca a semplice, ma non per questo meno necessario, instrumentum regni; contraddizione sulla quale sarà utile riflettere in altra occasione.
Ciò detto, occorre riconsiderare l’invito a tenere ricco lo Stato e «poveri» i cittadini (e, in concreto, a varare fin dai primi giorni della repubblica la legislazione agraria), poiché il «rimedio» suggerito dallo scrittore appare non poco indebolito, sebbene ben si comprenda che il comportamento dell’oligarchia senatoria gli sia apparso più controllabile, mediante opportuni provvedimenti legislativi, di quello della plebe, essendo stata l’intransigenza di quella rafforzata da due circostanze: l’appropriazione dei «campi di che si privavano i nimici» e la «raddoppiata» (§ 16) potenza di cui, grazie a tale appropriazione, poteva disporre.
Veniamo, finalmente, al capitolo proemiale del terzo libro delle Istorie fiorentine –di grande importanza per la storia di Firenze, quanto per quella di Roma – per accennare, almeno, al suo contenuto e proporre una maniera di coglierne il significato, rinunciando alla pretesa di farne, in questa sede, la lunga analisi che richiederebbe. Il tema trattato da M. è la profonda diversità tra le interne contese di Roma, che nei primi secoli di vita della città («nel principio») si erano ogni volta concluse «con una legge», e quelle di Firenze, che soltanto esilio e morte avevano generato. Tuttavia, sebbene il raffronto tra la responsabile moderazione della plebe e l’estremistico particolarismo dei fiorentini intenda spiegare il diverso esito delle lotte sociali, la differente finalità di queste è oggetto di una mera constatazione.
Particolare attenzione merita che la positività dell’esempio romano sia compromessa dalla negatività del suo esito, individuato dallo scrittore nella «disagguaglianza grandissima» di cui fu causa il conflitto sociale. L’asserto appare a prima vista contraddittorio, perché il capitolo illustra la progressiva ascesa della plebe, avvenuta senza che i «nobili» fossero «abbassati», e cioè in maniera tale da instaurare una sostanziale uguaglianza di diritti. Senonché dal diciottesimo capitolo del primo libro dei Discorsi abbiamo appreso che l’uguaglianza giuridica non impedì che dei «potenti» in grado di forzare le leggi e le istituzioni facessero irruzione nella storia di Roma. E se a questo si dedica qualche attenzione, diviene possibile afferrare il difficile nesso tra il rapido cenno delle Istorie all’estrema «disagguaglianza» a cui condusse la lotta delle classi e quello che si afferma nelle ultime linee di Discorsi I xviii. L’interpretazione non ne è facile, ma è necessario accettare il rischio. Scrive di Roma M. che «sendosi quella loro virtù convertita in superbia, si ridusse in termine che sanza avere un principe non si poteva mantenere». E si può intendere che voglia riferirsi ai cittadini romani, presi nella loro totalità. Ma nella frase immediatamente precedente aveva parlato della declinante «virtù» dei «nobili» fiorentini, ed è logico supporre che intenda ora affermare che a trasformarsi in «superbia» fu quella dei nobili romani. Se è così, per comprendere meglio non solo il cenno alla «disagguaglianza grandissima», ma anche la conseguenza che lo scrittore trae dalla trasformazione in «superbia» di «quella loro virtù», basterà ricordare ciò che nel capitolo dei Discorsi richiamato poco sopra si dice circa la necessità di una «podestà quasi regia» che ponga freno a «quegli uomini i quali dalle leggi per la loro insolenzia non possono essere corretti» (§ 29).
Bibliografia: Fonti: Valerio Massimo, IV v 4; Plutarco, Caes.; Mar.; Sill.; Cato. minor 21; 30; 42; 44; Coriol. 14; Sallustio, Bellum Iugurthinum 31 e De Catilinae coniuratione 20.
Per gli studi critici si vedano: G. De Sanctis, Rivoluzione e reazione nell’età dei Gracchi (1921), in Id., Scritti minori, 4° vol., Roma 1976, pp. 39-69; T. Mommsen, Storia di Roma, a cura di A.G. Quattrini, 5° vol., Roma 1938, pp. 118-217; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 2 voll., Napoli 1958, nuova ed. Bologna 1993, 1° vol., pp. 184-364, 527-44; 2° vol., pp. 184-210; G. Cadoni, Note machiavelliane (III), «Storia e politica», 1982, 21, pp. 99-111; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 1° vol., Milano-Napoli 1987, pp. 488 e segg.; G. Cadoni, La crisi della costituzione repubblicana di Roma nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Crisi della mediazione politica e conflitti sociali, Roma 1994, pp. 35-46; G. Inglese, Per Machiavelli, Roma 2006, pp. 122-33; G. Cadoni, Per alcune questioni di critica machiavelliana, «La cultura», 2007, 55, pp. 71-75; G. Cadoni, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio I 18: Quali «potenti»?, «Il pensiero politico», 2008, 40, pp. 112-15; E. Gabba, Il tentativo dei Gracchi, in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, 15° vol., Torino 2008, pp. 671-89, a p. 672, la bibliografia posteriore al 1958.