Guerre: conflitti globali, conflitti locali
Lo studio della guerra rappresenta il principale filone di ricerca sui conflitti violenti, di cui essa può essere considerata come la forma più organizzata ed estrema. Nonostante la guerra sia un fenomeno presente in ogni epoca, concepito come tratto caratterizzante e costitutivo dell’ordine internazionale, non esiste consenso circa la definizione. Secondo Q. Wright, che negli anni Quaranta studiò le fluttuazioni di intensità e frequenza dei fenomeni bellici, si può parlare di guerra quando si è in presenza di un conflitto tra gruppi politici, specialmente Stati sovrani, che viene condotto attraverso l’uso di armi di potenza considerevole e che si protrae per un significativo periodo di tempo. La guerra dunque prevede l’impiego di violenza letale e finalizzata tra gruppi organizzati che perseguono obiettivi politici incompatibili, e la storia della guerra è storia delle forze armate e del formarsi e trasformarsi degli Stati (J. Keegan, La grande storia della guerra, 1994). La definizione più citata nella letteratura scientifica proviene dal Correlates of war project (COW), fondato da D. Singer nel 1963, e divenuto la matrice di dati su cui fa affidamento buona parte degli studi di relazioni internazionali: vi si registrano come guerre solo scontri militari nei quali si contano almeno 1000 morti in battaglia (D. Singer, M. Small, The wages of war, 1816-1965: a statistical handbook, 1972). Il più autorevole war register, l’Uppsala conflict data program (UCDP, affiliato al Peace research institute di Oslo e distribuito tramite lo «SIPRI Yearbook», annuario dell’Istituto di studi sulla pace di Stoccolma), considera «guerre a tutti gli effetti» (major armed conflicts) quegli scontri armati per il controllo del governo/sistema politico o di un territorio in cui almeno un contendente è uno Stato e che hanno registrato almeno 1000 vittime battle-related nell’arco di un anno.
In un’epoca dominata dal mutare di forma e dinamiche dei conflitti armati (M. Brzoska, Collective violence beyond the standard definition of armed conflict, in «SIPRI Yearbook», 2007), definizioni convenzionali quali quella proposta dal COW sono state considerate fonti di distorsioni relative al cosa viene computato. In un contesto di forte esposizione mediatica, le cifre riguardanti la letalità e i danni causati dalle guerre subiscono vistose oscillazioni, avendo a che vedere con aspetti strategici e di legittimazione. Nel tempo, le agende di ricerca di numerosi istituti specializzati in conflitti e pace hanno così diversificato i registri, mettendo sotto scrutinio anche forme di conflitto violento «minori», o altri fenomeni violenti di massa: nascono così ricerche su factional violence, su deadly quarrels, sulla violenza unilaterale contro civili, su mass displacement.
Se ci si attiene a queste definizioni, si osserva che la violenza bellica, dopo aver raggiunto un picco durante la Seconda guerra mondiale, è andata gradualmente calando. Il numero di guerre combattute dalla fine della Guerra fredda è stato tendenzialmente decrescente. Se si definisce «attiva» una guerra che abbia superato in un qualunque anno la soglia dei 1000 morti e che ne registra almeno 25 nell’anno in corso, i dati di UCDP-SIPRI parlano di ca. 30 guerre all’indomani del crollo del muro di Berlino, contro le 16 registrate nel 2008 (due in più rispetto al 2007). In questo scenario, la percentuale di vittime civili è in crescita, superando ormai di molte volte il numero di morti militari (per dati dettagliati sulla letalità di guerre e conflitti, civili e militari: M. Leitenberg, Deaths in wars and conflicts in the 20th century, Peace Studies Program, Cornell University, 2003, 2005, 2006), così come è in forte crescita il numero di sfollati e rifugiati (M. Kaldor, Elaborating the ‘New War’ thesis, in Rethinking the nature of war, a cura di I. Duyvestein e J. Angstrom, 2004). Le guerre combattute tra Stati dalla fine dell’era bipolare sono poche: quattro-cinque guerre internazionali «classiche»: Iraq-Kuwait (e successiva prima guerra del Golfo); Eritrea-Etiopia; India-Pakistan; e Iraq-USA (e forze alleate; il conflitto inter-statale esploso fra Russia e Georgia, avendo provocato circa 200 vittime, non rientra nel novero delle guerre propriamente dette). Le guerre sono sempre meno definite dall’urto frontale tra eserciti schierati a difesa della patria, della nazione, dei confini statali. Per la maggior parte possono essere descritte come combattimenti fra una pluralità di attori – statali e non – lungo linee territoriali e ideologiche composite. Esse seguono complesse traiettorie di propagazione, tattica e strategica, le quali tendono a portare lo scontro nel cuore della vita civile di un Paese. Tale situazione è solo in parte una novità: si stima che il rapporto fra guerre inter-statali e intra-statali combattute a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale sia attestato attorno a un valore di 1:5. A ritagliarsi un ruolo sempre più definito di protagonisti sono gruppi armati non statali: milizie, paramilitari, forze organizzate che perseguono obiettivi politici riconosciuti e agiscono con diversi gradi di indipendenza da Stati e governi. L’Istituto di studi strategici di Londra (IISS) ne ha censiti 304 attivi nel 2008. Più in particolare, «SIPRI Yearbook» (2009) rileva la crescente «frammentazione della violenza» attraverso irregolari e gang criminali in contesti di conflitto in cui è debole il controllo statale; l’uso crescente di tattiche di guerra asimmetriche e terrorismo da parte di formazioni ribelli, e la sempre maggiore dipendenza, nelle campagne governative di counter-insurgency, di meccanismi di outsourcing della violenza armata rispetto a milizie, e a compagnie militari e di sicurezza private che agiscono secondo criteri di mercato.
La maggior parte delle guerre registrate all’inizio del 21° sec. interessa Paesi in via di sviluppo, soprattutto in Africa e Asia. Molte di queste guerre hanno una storia ultra-decennale, e mostrano segni di stratificazione lungo i quali il conflitto, pur perdurando, muta per estensione, forma, intensità, e talvolta anche natura. Per contrasto, alcuni conflitti hanno assunto modalità che li rendono difficilmente classificabili come guerre a tutti gli effetti, a prescindere dai termini impiegati dai media. Un esempio possono essere le «narcoguerre» messicane, o le uccisioni su larga scala perpetrate nel Darfur. Alcuni di questi conflitti possono a buon diritto essere definiti come «dimenticati» dai media. Essi raramente raggiungono punte di escalation estrema, ma danno inequivocabili segnali di attività, provocando centinaia di vittime. A titolo di esempio, si possono menzionare il conflitto che contrappone il governo indiano ai guerriglieri naxaliti; le tensioni violente nello Xinjiang cinese; la scia di sangue causata dallo scontro fra forze thailandesi e fazioni secessioniste musulmane nel Sud; i conflitti domestici nigeriani, nella regione petrolifera del Delta del Niger, e nel Nord del Paese; gli affrontamenti fra forze yemenite e ribelli sciiti; le tensioni armate nel Sud del Sudan.
Pur essendo radicata e combattuta in un contesto geografico specifico, la maggior parte dei conflitti armati contemporanei presenta una spiccata dimensione transtatale e transnazionale. La prossimità geografica della guerra tende a produrre effetti di contagio e destabilizzazione delle regioni confinanti, quando non di vero e proprio innesco di dinamiche belliche. Interi ordini regionali prendono fuoco, come mostrano l’America Centrale negli anni Ottanta, o – durante gli anni Novanta – i Balcani, l’Africa occidentale e la regione dei Grandi Laghi. Se la guerra cecena ha finito per destabilizzare la vicina Inguscezia, quella afghana ha pesanti ripercussioni sull’intera regione centroasiatica, a partire dagli scontri militari che nel 2009 hanno trasformato il Pakistan da retrovia a teatro di guerra.
Nella information age le forme prevalenti di conflitto si distinguono rispetto al tipo di guerra che ha caratterizzato l’Età moderna, legato alla nascita degli eserciti permanenti e alla coscrizione di massa. Esse riflettono i cambiamenti più significativi delle società contemporanee: massicci processi di migrazione e urbanizzazione, sviluppo e consolidamento di moderne tecnologie di spostamento e telecomunicazione, nascita di una società civile transnazionale, deregolamentazione dei mercati su scala transcontinentale e globale, penetrazione di merci e compagnie multinazionali, fine della corrispondenza fra controllo del territorio e controllo della ricchezza monetaria. I conflitti si internazionalizzano lungo un ampio spettro di canali: flussi di rifugiati, attivismo delle diaspore, interventi di organizzazioni internazionali (governative e non), complesse articolazioni – legali e non – delle economie di guerra e di sopravvivenza, flussi informativi e mediatici transplanetari. Tali trasformazioni mettono alla prova il ruolo dello Stato come attore-chiave delle reazioni internazionali e il concetto stesso di sovranità affermatosi in parallelo all’emergere del sistema statale moderno. Le geografie delle guerre e dei conflitti contemporanei registrano forme di violenza localizzata che il più delle volte intrattengono legami con sviluppi politici, economici, sociali ben più ampi di quanto sia riconducibile allo Stato, e a come le leggi degli Stati definiscono le cornici di legalità nazionale e internazionale. I conflitti contemporanei si relazionano con un’economia che si alimenta di processi di delocalizzazione, privatizzazione, ricerca di rendita finanziaria in paradisi fiscali off-shore. Disposti al rischio, gli imprenditori della violenza organizzata trovano in questo contesto formidabili opportunità di mobilitare risorse per vie extralegali; il rapporto con strutture criminali organizzate, storicamente orientato alla richiesta di servizio, spesso tende a riconfigurarsi come una relazione di simbiosi, se non di cattura vera e propria, e dunque di indistinguibilità fra agenda politica e interessi criminali.
La gestione dei conflitti armati contemporanei rappresenta una sfida per i meccanismi di governance del sistema globale. Dalla fine del bipolarismo in poi si è assistito a una vera e propria espansione degli strumenti di gestione, prevenzione e risoluzione a cui la «comunità internazionale» ha fatto ricorso, lungo canali di intervento multilaterali. Nel 2008 erano dispiegate 60 «missioni di pace» multinazionali in altrettanti scenari di conflitto o postconflitto. Gli interventi di peacekeeping delle Nazioni Unite si sono moltiplicati, allungati nel tempo ed espansi verso azioni di peacebuilding, fino ad abbracciare ambizioni di State-building; accanto a crescenti compiti civili, la riluttanza rispetto all’impiego della forza è andata ammorbidendosi. Concetti recenti quali responsibility to protect e human security, pur fortemente dibattuti in seno all’organizzazione, fanno da impalcatura ai mandati.
Per altro verso, si è assistito a un ritorno del war-making per via unilaterale (o attraverso coalitions of the willing) per lo più in forma della war on terror combattuta su scala globale contro le reti quaediste da parte della superpotenza statunitense, la quale sola assorbe il 40% della spesa militare globale. Se l’azione statunitense si è in qualche modo misurata con organizzazioni e diplomazie internazionali, va segnalata anche la tendenza, in altri contesti, a riproporre il tema della «pace tramite vittoria militare», e dunque della guerra senza negoziato, mediazione e, spesso, senza scrupoli rispetto agli standard legali e umanitari vigenti. È il caso, per certi versi, delle azioni condotte oltre confine dalle forze militari colombiane contro le guerriglie delle FARC. È il caso della campagna del governo dello Sri Lanka contro le Tigri Tamil (LTTE), annichilite militarmente e fisicamente nel maggio del 2009 al termine di una martellante offensiva conclusasi con migliaia di morti, la quale ha sollevato dure critiche da parte delle principali agenzie umanitarie internazionali.
Significativamente, in entrambi questi casi il nemico è definito dalle forze governative come «terrorista». La cosiddetta «ascesa del terrorismo internazionale» è strettamente legata alla transnazionalizzazione dei conflitti. La creazione di gruppi basati su un complesso network di cellule di nuclei d’azione votati al martirio ha messo a dura prova il pensiero strategico tradizionale e l’idea stessa di guerra. Quantificare la minaccia terroristica è difficile, essendo il terrorismo innanzitutto uno strumento volto a propagare terrore, non riconducibile al computo dei danni inferti all’apparato militare. L’impiego del terrore non è prerogativa esclusiva dei «terroristi»; d’altro canto, esso affonda le radici nei fondamentali mutamenti della tecnologia militare, oggi in grado di eliminare parte dei vantaggi che l’asimmetria dello scontro tradizionalmente consentiva alle guerriglie. Lo scontro tende a spostarsi dove gli apparati governativi sono più vulnerabili ed esposti, e più vicino all’esposizione mediatica. Va peraltro sottolineato come molto spesso le statistiche sul terrorismo omettano dal computo le vittime del «terrorismo di Stato»: uno studio sulla uccisione deliberata di civili nell’ambito di conflitti intrastatali prende in considerazione 27 governi e 51 gruppi ribelli, in un rapporto di circa 1:2. Su 573.000 vittime registrate, circa 528.000 sono provocate da governi. In sostanza, i dati mostrano come, mentre i ribelli tendono ad attaccare i civili più frequentemente, ma con livelli di mortalità relativamente bassi, gli apparati governativi causano, in media, più vittime concentrate in periodi più brevi (K. Eck, L. Hultman, One-sided violence against civilians in war: insight from new fatality data, «Journal of Peace Research», 44, 2, 2007).
Guerre civili, guerriglie e conter-insurgency hanno tipicamente effetti devastanti sui civili. I campi di battaglia mostrano una preoccupante propensione a spostarsi su terreni non convenzionali: nel cuore dei nuclei urbani, negli spazi domestici, sul corpo delle donne, contro sfollati e rifugiati. In questo modo, la linea tra combattenti e civili sfuma, e le fasce più vulnerabili della popolazione diventano anche quelle più colpite dalla violenza, se non un’arma della violenza stessa (M. Ollek, Emerging issues: youth, gender and changing nature of armed conflict, 2008).
Molti degli elementi analitici fin qui descritti alimentano il dibattito attorno all’utilità di un passaggio a un nuovo paradigma interpretativo. Autori come M. Kaldor (Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale, 1999) e M. Duffield (Guerre postmoderne, 2004) hanno proposto l’idea di «nuove guerre». Saremmo davanti all’ambivalenza estrema, per non dire al collasso, di «opposizioni fondanti» che caratterizzano la guerra tradizionale: civile-militare, pubblico-privato, inizio e termine delle ostilità. Le «nuove guerre» sono sistemi di conflitto caratterizzati da disintegrazione territoriale, truppe irregolari, «maschere etniche», economie illecite e predatorie. La linea del fronte scompare, sfuma la separazione tra guerra intesa come violenza tra Stati (o gruppi politici) e bande criminali organizzate: il teatro diventa intrastatale, ma le connessioni, gli intrecci finanziari, le implicazioni sono decisamente transnazionali. Queste guerre sono, per Duffield, «conflitti postmoderni»: progetti politici neopatrimoniali concepiti da élite rapaci perfettamente in grado di manipolare le macchine degli aiuti internazionali, di scritturare compagnie di public relations e di adattarsi alle opportunità di arricchimento offerte dai mercati mondiali. Nelle guerre postmoderne compaiono le più avanzate tecnologie di telecomunicazione e combattimento, mentre i media magnificano lo spettacolo di forme di violenza brutale comunemente associate all’era premoderna. Rifugiati e carestie sono usati come armi di destabilizzazione che si accompagnano al saccheggio sistematico delle risorse e della società, mentre lo scontro militare diretto diventa l’eccezione. Si tratterebbe, in altre parole, di superare la prospettiva clausewitziana, in ragione dell’erosione dei suoi tratti distintivi. Le difficoltà nel capire la natura della guerra e la sua mutazione, in presenza di un affievolimento della centralità delle pratiche riconducibili alla sovranità statale, sono ritenute un fattore importante per spiegare perché il successo delle strategie di intervento tenda a essere fortemente elusivo.
In risposta alla tesi sulle «nuove guerre» si sono levati argomenti in difesa del paradigma tradizionale, in qualche modo ancorato all’idea di centralità dello Stato e della guerra come continuazione del procedimento politico con altri mezzi. Secondo questa prospettiva, von Clausewitz, che paragonava la guerra a un camaleonte, capirebbe i conflitti armati di oggi. Se la grammatica dello scontro strategico è immutata, a mutare è solo la forma della guerra: in ultima analisi, il suo carattere, ma non la sua natura (H. Strachan, The changing character of war, 2007).