Guerre dimenticate
L’espressione guerre dimenticate si è affermata nel vocabolario politico-giornalistico italiano nei primi anni del 21° sec. e contiene in sé una connotazione polemica: dimenticate sono le guerre di cui non si parla, conflitti che ricevono poca o distratta attenzione dall’opinione pubblica e dai media di un Paese europeo occidentale come l’Italia. La cronaca d’inizio secolo è stata segnata da almeno due guerre ‘celebri’ seguite con grande attenzione e passione dai media di tutto il mondo: la guerra in Afghānistān nell’autunno 2001 e l’invasione dell’Irāq nella primavera 2003. Bisogna constatare però che in un qualsiasi anno dello stesso decennio si poteva contare, oltre a questi, almeno una trentina di altri conflitti armati in corso nelle più diverse regioni del pianeta: eppure anche il più attento lettore di giornali avrebbe difficoltà a elencarli.
In questo senso, guerra dimenticata è un’espressione che definisce più il comportamento dei media e dell’opinione pubblica che non la guerra stessa. Forse però non è casuale che nel vocabolario politico-giornalistico siano entrate in questi stessi anni anche espressioni come guerre non convenzionali, a bassa intensità, striscianti, asimmetriche, o semplicemente nuove guerre, e che nelle cronache belliche ricorrano sempre più spesso termini come pulizia etnica o genocidio che indicano forme di violenza brutale in cui le vittime non sono solo militari, ma popolazioni civili. Si potrebbe allora argomentare che la disattenzione pubblica rispetto ad alcuni conflitti armati sia almeno in parte dovuta alla natura e alla tipologia dei conflitti stessi. In altre parole: è possibile rintracciare alcuni elementi ricorrenti e comuni, oltre al fatto di essere dimenticati, nei numerosi conflitti armati che hanno insanguinato questo inizio secolo.
Le nuove guerre
Nell’anno 2007, secondo l’Armed conflicts report (pubblicazione annuale del progetto di ricerca canadese Project ploughshares) si registravano 30 conflitti armati attivi in diverse regioni del pianeta. Di questi, dodici venivano localizzati nel continente africano, undici in Asia, uno in Europa (la Cecenia), due nelle Americhe, quattro in Medio Oriente. L’anno prima Project ploughshares aveva registrato 29 conflitti armati: il numero più basso da quando aveva cominciato il suo monitoraggio nel 1987, tanto da parlare di un relativo declino dei conflitti armati dopo i turbolenti anni seguiti alla fine del bipolarismo. In effetti è utile risalire all’ultimo decennio del secolo scorso: dopo il 1989, anno del crollo del muro di Berlino, ben 57 guerre hanno devastato 45 Paesi. Il picco è stato raggiunto nel 1995, quando Ploughshares registrava 44 conflitti armati attivi contemporaneamente, tra cui diversi in Europa, dai Balcani al Caucaso.
Ma come si ‘contano’ le guerre? Diverse istituzioni si dedicano a monitorare la violenza organizzata nel mondo: tra le più autorevoli si possono ricordare il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), il Conflict data project dell’Università di Uppsala, il citato Project ploughshares canadese, fino al think tank internazionale Crisis group, che pubblica un bollettino mensile sulle aree di crisi potenziali, attuali o in via di risoluzione. Il SIPRI nel 2007 elencava 14 conflitti armati principali. In generale, tra l’ultimo decennio del Novecento e i primi anni del nuovo secolo tutte queste istituzioni hanno registrato ogni anno un numero di guerre, crisi o conflitti armati oscillante tra la ventina e i 50 o più. Ventina o cinquantina? L’imprecisione dipende da cosa si intenda per conflitto armato.
Le definizioni sono importanti. In primo luogo bisogna sottolineare che in nessun modo le parole guerra e conflitto vanno considerate sinonimi: conflitto non significa necessariamente violenza, né tantomeno guerra. Nella vita pubblica c’è conflitto quando individui o gruppi, forme di associazione collettiva e/o istituzioni esprimono interessi divergenti o altri motivi di tensione: le società umane conoscono conflitti sociali, sindacali, politici che possono esprimersi in varie modalità. Il conflitto è parte importante delle relazioni tra individui e tra gruppi, a patto ovviamente che sia regolato da norme condivise o comunque trovi forme di negoziazione e soluzione: allora può diventare un’importante occasione di crescita, un fattore di democrazia. La contrapposizione può, tuttavia, assumere forme estreme e generare tensioni non componibili, fino a precipitare in crisi violente e/o conflitti armati.
Il diritto internazionale definisce conflitto armato internazionale l’uso della forza armata tra due o più Stati sovrani (cioè soggetti di diritto internazionale): è la definizione più classica di guerra, che si tratti di guerra dichiarata o di uno stato di guerra non riconosciuto da uno o più Stati coinvolti. Rientra nella definizione di conflitto armato internazionale l’occupazione parziale o totale del territorio di uno Stato da parte di forza straniera, anche nel caso in cui questa occupazione non trovi alcuna resistenza militare. Il diritto internazionale definisce inoltre conflitto armato il caso di popoli che lottano contro una dominazione coloniale, un’occupazione straniera o un regime razzista, lotta considerata legittima nell’esercizio del diritto all’autodeterminazione dei popoli consacrato dalla Carta delle Nazioni Unite.
Il diritto internazionale contempla inoltre il conflitto armato non internazionale, che si svolge cioè all’interno del territorio di un singolo Stato (guerra civile) e coinvolge di solito le forze armate dello Stato (cioè l’autorità di governo riconosciuta) e forze armate dissidenti o gruppi ribelli armati e organizzati.
Il conflitto bellico è regolato da norme che discendono dalla Carta fondamentale delle Nazioni Unite e da quelle del diritto internazionale umanitario (le successive Convenzioni di Ginevra) e queste norme si applicano tanto al conflitto armato internazionale quanto alla guerra civile.
Sempre più spesso però il mondo assiste a eventi bellici che sfuggono a queste definizioni. Il semplice elenco dei conflitti armati di questo decennio rivela che le guerre tra Stati sovrani rappresentano ormai l’eccezione. Molto più numerose sono le guerre interne a singoli Paesi, dove le parti in causa non sono necessariamente eserciti regolari, ma piuttosto combinazioni diverse di eserciti, forze ribelli, ‘signori della guerra’, milizie mercenarie. Guerre striscianti e croniche, il più delle volte senza formali campi di battaglia, in cui le popolazioni civili sono deliberatamente coinvolte. È sempre più difficile cogliere in questi conflitti armati politiche organizzate e unitarie: sbiadite le matrici ideologiche che apparivano così nette nel mondo bipolare, emergono lotte per il potere basate su appartenenze etniche e/o cultural-religiose, con alleanze variabili e imprevedibili. Spesso si tratta di conflitti ‘asimmetrici’, cioè tra soggetti non equivalenti: governi contro guerriglieri, milizie ribelli o gruppi estremisti armati.
La letteratura scientifica tende inoltre a distinguere la categoria dei conflitti armati sopra illustrata, in cui tutte le parti in campo usano le armi, dai conflitti violenti (violent conflicts, deadly conflicts), in cui la violenza è esercitata da un solo lato contro civili non armati. Spesso è registrato come conflitto armato anche il caso di scontri violenti in cui nessuna delle parti coinvolte è un’autorità di governo riconosciuta: è la categoria dei factional conflicts, i cui protagonisti sono fazioni locali, o signori della guerra, warlords, secondo l’espressione entrata nel linguaggio politico-giornalistico corrente con la guerra in Afghānistān del 2001 e il suo cruento dopoguerra.
In queste circostanze è sempre più complicato distinguere tra combattenti e non combattenti, aggressori e aggrediti. Ed è vano fare appello all’apparato del diritto internazionale che regolava in qualche modo i conflitti armati ‘classici’.
Un altro parametro per definire una guerra è la magnitudine della violenza esercitata. La soglia su cui concordano convenzionalmente quasi tutti i programmi di ricerca è quella dei mille morti in battaglia. L’Uppsala conflict data project, in associazione con il SIPRI di Stoccolma, definisce i conflitti armati secondo quattro gradi di intensità. Il più alto è il major armed conflict: un conflitto armato, in cui almeno una delle parti coinvolte sia l’esercito di uno Stato, che ha causato la morte in battaglia di almeno 1000 persone in un anno (escluse dunque le vittime civili); il più basso è il minor armed conflict, quando si contano almeno 25 morti in battaglia in un anno e almeno mille in totale (ma non nello stesso anno).
Altri criteri e definizioni però sono possibili. L’Università olandese di Leiden, nel suo Programma di ricerca interdisciplinare sulle cause prime di violazione dei diritti umani, distingue i ‘conflitti ad alta intensità’, che raggiungono la soglia dei 1000 morti in un anno (ma non necessariamente in battaglia) e si caratterizzano per l’uccisione indiscriminata di civili non combattenti; i conflitti a ‘bassa intensità’, che causano invece tra le 100 e le 1000 vittime in un anno e sono caratterizzati dalla transizione dalla guerriglia al conflitto convenzionale; infine i ‘conflitti politici violenti’, in cui si verificano fino a 100 morti all’anno e dove si assiste a una progressiva escalation da forme di confronto non violente a strategie violente.
Il coinvolgimento delle popolazioni civili è un elemento ricorrente nelle guerre contemporanee. All’inizio del 21° sec. si stima che l’80% delle vittime dei conflitti armati siano civili, non combattenti. Spesso i conflitti armati seguiti alla fine del bipolarismo hanno deliberatamente preso le popolazioni civili come obiettivo: attaccate per terrorizzare e annientare il nemico, colpite perché ne sono la parte più vulnerabile. L’esodo di popolazioni in fuga da combattimenti e atrocità è diventato parte della routine delle guerre contemporanee, dalla Bosnia negli anni Novanta del secolo scorso fino alle attuali guerre africane. Quasi un ritorno a forme antiche di guerra: la pulizia etnica, il tentativo di annientare fisicamente l’altro, in modo simbolico, con lo stupro, o letterale (genocidio).
La violenza sulle donne durante una guerra non è cosa nuova, ma colpisce l’uso sistematico dello stupro come arma per umiliare l’avversario, gesto che richiama concezioni patriarcali di onore e appartenenza: colpire il nemico (uomo) attraverso la violazione delle sue donne. I primi rapporti sull’uso dello stupro nella ex Iugoslavia erano stati compilati dalle Nazioni Unite nel 1993 e avevano creato nell’opinione pubblica europea orrore misto a imbarazzo: sembrava impensabile, perfino anacronistico, che qualcosa di così bestiale avvenisse in un Paese europeo, in una moderna società di donne emancipate. Con ogni evidenza, emancipazione e modernità non hanno messo le donne al riparo da una violenza ‘anacronistica’. Stupri, mutilazioni, massacri di popolazione civile hanno segnato anche la guerra civile in Ruanda (1994) e più di recente la crisi del Dārfūr in Sudan. In tutti questi casi le donne sono oggetto di violenza, oltre che come donne, come esponenti di una comunità: «Il corpo delle donne usato come campo di battaglia», scrive Karima Guenivet (2001; trad. it. 2002). In Bosnia lo stupro e la gravidanza forzata servivano alla pulizia etnica («partorirai un piccolo cetnico»); in Ruanda lo stupro era accompagnato da mutilazioni di genitali, femminili e maschili, e puntava semplicemente a cancellare l’altra etnia.
Una cosa insegnano le cronache di guerra a cavallo del secolo: atrocità come uccisioni di massa, stupri, villaggi bruciati ed esodi forzati non vanno considerati come tragici effetti collaterali dell’evento bellico, perché ne sono in realtà un elemento centrale. Si tratta di guerre combattute sulla popolazione civile.
Gli strumenti del diritto internazionale, di fronte a simili crimini di guerra, sono aleatori. Alla fine degli anni Novanta un accordo internazionale ha permesso di varare la Corte penale internazionale, con il mandato di indagare e giudicare crimini di guerra. Operativa dal 1° luglio 2002, la Corte si è occupata del Ruanda e più di recente del Dārfūr. In quest’ambito nel marzo 2009 ha emesso un mandato di cattura internazionale per il presidente sudanese Omar al-Bashir (῾Umar al-Bašīr), ritenuto responsabile di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, primo esempio di incriminazione di un capo di Stato in carica.
Il primo Tribunale per crimini di guerra costituito in Europa dopo la Seconda guerra mondiale è però quello creato per giudicare i crimini commessi nella ex Iugoslavia nelle guerre degli anni Novanta. Istituito nel maggio 1993, con una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU, si occupa di quanto avvenuto durante le guerre in Croazia (1991-1995), in Bosnia Erzegovina (1992-1995) e in Kosovo (1998-99).
La più asimmetrica delle guerre contemporanee è probabilmente anche quella che ha preso il mondo più alla sprovvista. All’inizio del 21° sec. infatti una nuova variabile è entrata nel panorama degli eventi bellici: il terrorismo internazionale. Non che il terrorismo sia un fenomeno nuovo, né sorprende che durante una guerra si possano verificare azioni di tipo terroristico. La parola terrorismo del resto è stata utilizzata nel tempo per fenomeni molto diversi tra loro e non ne esiste una definizione universalmente accettata. È importante però sottolineare che il termine allude a una modalità di lotta (colpire obiettivi senza importanza militare, ma di grande rilevanza politico-psicologica, attaccare civili inermi per intimidire governi e cittadinanze) più che alla causa perseguita: azioni terroriste sono avvenute durante lotte di indipendenza nazionale, peraltro legittime, come nel corso di campagne di odio e fanatismo.
Certo è che i termini del discorso sono irrimediabilmente cambiati con l’attacco alle Twin Towers di New York e al Pentagono a Washington l’11 settembre 2001. Non solo per il numero delle vittime, senza precedenti per un singolo attacco terrorista (quasi tremila morti), né solo perché l’attacco è avvenuto nel territorio di quella che è considerata la prima superpotenza mondiale, cosa di indubbio impatto politico-psicologico. Il punto è che il crollo delle Torri gemelle ha inaugurato nel più tragico e spettacolare dei modi una guerra sui generis, dove da un lato c’è uno Stato (anzi, una superpotenza dotata del più moderno e schiacciante arsenale militare) e dall’altro un soggetto non statale, non territoriale; non un esercito e neppure una classica forza guerrigliera, bensì un soggetto sfuggente, unito da una forte ideologia, ma organizzato in reti a geometria variabile, capace di manifestarsi di volta in volta sulle montagne afghane o nel cuore delle grandi capitali europee.
La risposta degli Stati Uniti agli attacchi dell’11 settembre 2001 è stata proclamare una ‘guerra al terrorismo’ combattuta su diversi fronti, di cui i più visibili sono stati l’Afghānistān dei Ṭālibān e l’Irāq di Saddam Hussein (Ṣaddām Ḥusayn): sono quelle che qui abbiamo definito le guerre celebri di inizio secolo. Altri fronti sono stati meno visibili: la guerra contro le forze separatiste musulmane nell’isola di Mindanao nelle Filippine, contro gruppi armati islamici di ispirazione salafita nella regione del Sahara, contro le forze coagulate nelle Corti islamiche nella Somalia in preda al caos, e ancora la guerra cronica contro i gruppi armati indicati come rimasugli di al-Qā῾ida o nuovi Ṭālibān nella regione montagnosa alla frontiera tra Pakistan e Afghānistān. Alcune di queste attulamente sono scivolate tra le numerose guerre dimenticate.
Perché scoppiano le guerre dimenticate
Queste definizioni aiutano a distinguere i numerosi conflitti armati del presente. È difficile però proseguire in quest’analisi senza considerare il quadro dell’economia mondiale alla fine del 20° secolo. Anche in questo ambito la fine del bipolarismo segna uno spartiacque, per quanto molti dei fenomeni che evidenzieremo abbiano radici più lontane.
Nei primi anni Novanta del secolo scorso, nel sistema di istituzioni delle Nazioni Unite era invalso un certo ottimismo: la fine del bipolarismo avrebbe liberato ingenti risorse finanziarie fino ad allora usate per alimentare la corsa agli armamenti. Il ‘dividendo della pace’ finalmente sarebbe stato investito nello sviluppo sociale e nella lotta alla povertà, e questo avrebbe senza dubbio consolidato la pace. Si andava affermando allora tra economisti ed esperti internazionali il concetto di ‘sviluppo umano’, ispirato dall’economista e filosofo Amartya Sen e basato sulla convinzione che lo sviluppo di una nazione non si possa valutare solo sulla sua crescita economica, convenzionalmente misurata con l’aumento del prodotto interno lordo (PIL), quanto piuttosto sulla sua capacità di garantire ai cittadini un’esistenza lunga e sana, un buon livello di istruzione, un tenore di vita decente e la capacità di partecipare consapevolmente alla vita pubblica. La crescita del reddito nazionale insomma non garantisce in sé lo sviluppo, se non è accompagnata dall’investimento in sanità, istruzione, servizi sociali e così via. Nel 1990 l’economista Mahbub ul Haq ha tradotto questa idea in un indice di misurazione (HDI, Human Development Index) che combina speranza di vita, istruzione della popolazione adulta e reddito. Da allora l’United nations development programme (UNDP) classifica le nazioni secondo l’indice HDI nel suo annuale Human development report. Estendendo il criterio dello sviluppo umano, nel 1994 l’UNDP ridefiniva anche il concetto di sicurezza: protezione non solo da violenza interna o esterna, ma anche dalle minacce di fame, malattie, disoccupazione, criminalità, repressione politica, degrado ambientale.
In quello stesso decennio abbiamo assistito a un’accelerata trasformazione nei sistemi dell’economia mondiale. Crollato l’impero sovietico e il suo sistema economico, il liberismo era ormai il modello egemone. Negli anni Novanta un insieme di trattati internazionali sul commercio (alla base della creazione della WTO, World Trade Organization) ha spinto gli Stati a cedere quote crescenti di sovranità in campo economico per adottare politiche basate sulla liberalizzazione totale del commercio e dei capitali, l’eliminazione delle barriere, la progressiva privatizzazione di proprietà e attività economiche statali e perfino di servizi pubblici come l’istruzione e la sanità. In gran parte dei Paesi ‘in via di sviluppo’, questo ha accelerato ed esteso la portata di scelte dettate già da tempo dalle organizzazioni finanziarie internazionali (in particolare la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale) che hanno condizionato la concessione di crediti all’applicazione di piani di aggiustamento strutturale delle economie invariabilmente orientati a privatizzare attività economiche e servizi e a promuovere la produzione per l’export. Nell’insieme, è aumentata la capacità della grande finanza e delle istituzioni finanziarie internazionali di determinare le scelte economiche e politiche dei singoli Paesi, in particolare delle economie meno forti, semplicemente spostando capitali e concedendo (o negando) crediti.
Esula dagli intenti di questo articolo approfondire il tema della globalizzazione economica. Basti qui notare che la globalizzazione ha creato opportunità senza precedenti per alcuni, mentre altri ne sono rimasti esclusi. Alle soglie del 21° sec. assistiamo così a un vertiginoso squilibrio tra Paesi ricchi e Paesi poveri, tra regioni industrializzate e non, Paesi inclusi o esclusi dai flussi globali dell’economia. Lo sviluppo diseguale che aveva caratterizzato la seconda metà del Novecento si è approfondito nell’epoca dell’economia globalizzata; anche nei Paesi che finalmente registrano buoni tassi di crescita è però cresciuto il gap interno tra ricchi e poveri, inclusi ed esclusi. Non si tratta solo dell’accesso a beni di consumo: la polarizzazione è tra chi ha o non ha accesso anche alla salute, all’istruzione, ai flussi di informazione, ai processi decisionali dell’economia globale.
Alla polarizzazione Est-Ovest del mondo bipolare si è dunque sostituita, secondo la definizione di Maurizio Simoncelli, direttore dello staff di ricerca dell’Archivio disarmo, una «polarizzazione tra ricchi e poveri» (Le guerre del silenzio, 2005). Queste diseguaglianze hanno ripercussioni a tutto campo: sociali, politiche, economiche, perfino ambientali. Il sovrasfruttamento delle risorse naturali produce fenomeni ormai impressionanti di degrado ambientale, che a loro volta accentuano la miseria umana; la povertà estrema e/o i disastri naturali e le carestie spingono all’esodo masse di profughi in cerca di sopravvivenza. D’altra parte, il divario sempre più visibile tra le regioni depresse e il mondo più ricco spinge milioni di persone a muoversi e migrare, seguendo l’insopprimibile spinta a cercare miglioramento materiale e nuove opportunità per sé e per i propri figli. Uno squilibrio profondo che genera dunque fenomeni sociali e politici sempre più difficili da gestire, con crescenti rischi di instabilità che possono infine precipitare in numerosi conflitti armati.
L’insieme di squilibri ambientali e sociali è divenuto un elemento di fondo di tutte le analisi sulla diffusione dei conflitti armati: il SIPRI, nell’introduzione del suo Yearbook 2007, sottolinea il concetto di rischio e di politiche di sicurezza basate sull’analisi del rischio (risk-based security analysis): «Politiche pubbliche che tengano conto dell’intero spettro dei rischi – inclusi i disastri naturali e le vulnerabilità sociali ed economiche, oltre ai conflitti e al terrorismo – hanno più chances di valutare correttamente le priorità».
Il boom della spesa militare
Se lo sviluppo umano resta un lontano obiettivo, anche il ‘dividendo della pace’ si è rivelato in breve tempo un’illusione. La spesa militare, diminuita in effetti nei primi anni seguiti al crollo dell’Unione Sovietica, ha ricominciato a crescere nella seconda metà degli anni Novanta.
L’insieme della spesa militare mondiale annua ammontava a 762 miliardi di dollari nel 1993, era sceso a 691 miliardi nel 1996, aveva riguadagnato quota 723 miliardi di dollari nel 2000 (SIPRI, Yearbook 2003) per poi superare nel 2003 il livello di dieci anni prima, e continuare a crescere. Nel 2007 la spesa militare mondiale ha raggiunto i 1339 miliardi di dollari, stima il SIPRI (Yearbook 2008): si tratta di un aumento in termini reali del 6% rispetto all’anno precedente e del 45% in dieci anni. Questa cifra rappresenta il 2,5% del PIL mondiale nel 2007.
Gli Stati Uniti hanno aumentato la propria spesa militare del 59% in termini reali tra il 2001 e il 2007, soprattutto in ragione dei 381 miliardi di dollari destinati alle operazioni in Afghānistān, ῾Irāq e altrove nell’ambito della guerra al terrorismo, ma anche per l’aumento del budget militare di base che nel 2007 è stato il più alto dalla fine della Seconda guerra mondiale. La spesa militare degli Stati Uniti, 547 miliardi di dollari nel 2007, rappresenta il 45% del totale mondiale. Sempre nel 2007 la Cina era il terzo Paese al mondo per spesa militare, con 58,3 miliardi di dollari, superando la Francia in cifre assolute, anche se ovviamente non pro capite. La spesa militare è aumentata complessivamente nei Paesi dell’Europa orientale del 15% nel 2007, il maggiore aumento percentuale al mondo, in gran parte dovuto all’aumento (+13%) della spesa militare della Russia. L’aumento minore è quello registrato in Europa occidentale. Nel decennio 1997-2007, sei regioni hanno aumentato la propria spesa militare di oltre il 50% in termini reali: sono, nell’ordine, Europa Orientale, America Settentrionale, Medio Oriente, Asia meridionale, Africa, Asia orientale (SIPRI, Yearbook 2008).
Va da sé che anche la produzione e il commercio di armamenti conoscano un vero e proprio boom. Le 100 maggiori aziende al mondo (escluse quelle cinesi) hanno venduto nel 2006 armamenti per un totale di 315 miliardi di dollari, secondo la stima del SIPRI (Yearbook 2008). Gli Stati Uniti e la Russia sono stati i maggiori esportatori di armamenti convenzionali tra il 2003 e il 2007: insieme a Germania, Francia e Regno Unito coprono l’80% del volume delle vendite. I maggiori importatori al mondo sono stati, in quel periodo, Cina, India ed Emirati Arabi, anche se con un relativo declino delle ordinazioni cinesi.
Quando si parla di grandi importatori, ci si riferisce spesso all’acquisto di armamenti sofisticati, ad alta tecnologia. Si noti però che la richiesta di armi proveniente da Paesi in via di sviluppo, che si tratti di governi o di forze ribelli o irregolari, riguarda piuttosto armi non avanzate tecnologicamente: la gran parte delle guerre più o meno dimenticate dei nostri tempi sono in fondo combattute con armi piccole e leggere, economiche, facili da usare e aggiustare. Una delle armi leggere più devastanti per il suo effetto a lungo termine è rappresentata dalle mine antiuomo, devastanti soprattutto perché restano sul terreno per lunghi anni anche dopo la fine dei conflitti e continuano a fare un gran numero di vittime civili: si calcola che in media 20.000 persone vengono uccise o mutilate ogni anno nei campi, nei villaggi, sulle strade. La vendita, l’uso e lo stoccaggio delle mine antiuomo sono ormai banditi dal Trattato di Ottawa del 1997, cui nel 2007 avevano aderito 158 Paesi, ma non Stati Uniti, Cina, Russia e India; e questo fa sì che le mine continuino a circolare in modo massiccio. Nel maggio 2008 si è riunita a Dublino (Irlanda) una conferenza internazionale con l’obiettivo di bandire anche le bombe a grappolo (cluster bombs) che disseminano sul terreno oggetti esplosivi spesso non riconoscibili come tali dalla popolazione civile mietendo vittime ben al di là dei campi di battaglia. La prima tornata di negoziati non ha però raggiunto alcun accordo.
Infine, nel 2006 il numero di militari e personale dispiegato in missioni di pace (peacekeeping) era più alto che in ogni anno precedente e anche la spesa in missioni di pace ha raggiunto livelli senza precedenti. Quell’anno erano attive 60 missioni di pace, di cui 20 guidate dalle Nazioni Unite, 33 da alleanze e organizzazioni regionali (come quelle della NATO o dell’Unione africana) e 7 da coalizioni ad hoc. Se si esclude la Forza multinazionale in ῾Irāq, che costituisce un caso a parte, impiegavano 167.600 persone, tra militari e civili, con un costo combinato di 5,5 miliardi di dollari nel 2006 (SIPRI, Yearbook 2007).
Un excursus bellico
La guerra dunque non è mai scomparsa dalla scena. L’ultimo decennio del 20° sec. era cominciato con l’invasione irachena del Kuwait (ag. 1990) e la prima guerra del Golfo (1991), destinata a lasciare una pesante eredità di tensioni, premessa del ciclo di guerra e terrorismo esploso a partire dal 2001. È seguito l’intervento internazionale in Somalia nel 1992, presto trasformatosi in una guerra tra i peacekeepers e i signori della guerra locali.
È in quel decennio del resto che la guerra è tornata anche in Europa dove era scomparsa dalla fine della Seconda guerra mondiale: nei Balcani (con l’implosione della Iugoslavia e la nascita di repubbliche separate) e nel Caucaso, con la ridefinizione di poteri e territori dopo il crollo del potere centralizzato dell’Unione Sovietica.
È degli stessi anni il genocidio in Ruanda (1994) e l’inizio della guerra nella Repubblica Democratica del Congo (1996), a volte chiamata prima guerra mondiale africana, perché vi hanno preso parte le forze armate di sei Paesi del continente, arrivando a coinvolgere fino a centomila soldati. A margine, decine di crisi cronicizzate e per lo più ignorate dai media. Come già notato, le tendenze osservabili nel 2007-08 dicono che il numero dei conflitti armati è in relativo declino, anche se resta alto. Nella categoria major armed conflicts, il SIPRI segnala, nel suo Yearbook 2007, un accentuato transnazionalismo delle guerre in corso, ovvero un accresciuto ruolo di diaspore e reti di gruppi combattenti o terroristi. In Afghānistān, per es., il governo centrale, sostenuto dalla presenza di una Forza multinazionale della NATO sotto mandato ONU, continua ad affrontare l’opposizione armata dei Ṭālibān, che ha consolidato basi e supporto logistico nel vicino Pakistan. Questo Paese, a sua volta, conosce un conflitto interno strisciante con i Ṭālibān pakistani nelle regioni alla frontiera con l’Afgānistān.
Non ci soffermeremo qui sul conflitto israelo-palestinese, uno dei più presenti sui media italiani.
La Somalia, sprofondata in una profonda crisi che l’ha resa, dai primi anni Novanta, campo di battaglia dei signori della guerra, tra il 2005 e il 2006 è anche diventata un punto focale sia della ‘guerra globale al terrorismo’ statunitense, sia di interessi regionali (nel 2007 l’Etiopia è intervenuta a sostegno del Governo federale di transizione di Mogadiscio contro le milizie organizzate nelle Corti islamiche; l’intervento si è concluso nel gennaio 2009 con il ritiro delle truppe).
L’Asia resta la regione in cui si registra il più elevato numero di conflitti armati ‘maggiori’: oltre all’Afghānistān si segnalano il Kashmir; le guerre etniche in Myanmar; lo Srī Laṅkā dove è ripresa la ventennale guerra tra l’esercito governativo (della maggioranza etnica cingalese) e il movimento secessionista armato della minoranza Tamil; la guerra tra il governo delle Filippine e il Moro national liberation front nell’isola di Mindanao.
L’altra regione più rappresentata in questo elenco è l’Africa, anche se non necessariamente nella categoria dei conflitti maggiori. Oltre alla citata Somalia si pensi al Sudan, dove nel 2004 è finito l’annoso conflitto tra il governo centrale arabo-islamico e i ribelli del Sudan people’s liberation movement che rivendicavano una regione autonoma nel sud animista-cristiano: la pace resta fragile, ma nei primi mesi del 2009 ancora resisteva. Nel 2003 era esploso un conflitto nella regione occidentale del Dārfūr, ai confini con il Ciad, che vedeva opporsi l’esercito governativo e due principali gruppi ribelli (Justice and equality movement e Sudan liberation movement). Nel conflitto intervenivano contro i ribelli anche milizie irregolari, ǧanǧāwīd, responsabili di feroci incursioni contro la popolazione civile. Bombardamenti di villaggi e scorrerie di miliziani hanno finora ostacolato l’accesso a osservatori e operatori umanitari; il conflitto del Dārfūr è stato definito genocidio dalle Nazioni Unite, che nel luglio 2007 hanno deliberato l’invio di una missione di peacekeeping di 26.000 uomini, missione congiunta ONU-Unione africana. Il governo sudanese ne ha accettato la presenza, ma il dispiegamento è stato solo parziale. Nel frattempo però la crisi si è estesa al Ciad.
Si aggiungano ancora l’Uganda, dove nel novembre 2008 è definitivamente fallito un tentativo di pace negoziata tra il governo centrale e i ribelli del Lord’s resistance army: gli ormai 19 anni di guerra civile hanno fatto decine di migliaia di morti e costretto a sfollare 1,6 milioni di persone. Le Nazioni Unite stimano inoltre che i ribelli abbiano rapito circa 20.000 bambini.
Nel 2007 una certa normalità sembrava tornata in Sierra Leone e Costa d’Avorio, che negli anni precedenti avevano conosciuto un ciclo sanguinoso di ribellioni e guerre civili. Segnaliamo ancora la Nigeria, dove serpeggia il conflitto tra il potere centrale e l’insorgenza armata della setta al-Sunna wa al-Ǧamā῾a (i cui componenti sono stati spesso designati come i Ṭālibān neri) nelle regioni del Nord, mentre a Sud la regione petrolifera dell’immenso delta del fiume Niger vive una nuova escalation militare, dopo quella sperimentata nei primi anni Novanta. Una crisi in cui intervengono l’esercito mandato a proteggere le installazioni petrolifere, le milizie di sicurezza private delle aziende petrolifere medesime, movimenti di protesta più o meno violenti, come il Movement for the emancipation of the Niger Delta, e gang armate e agguerrite che si dedicano a un fiorente commercio parallelo di greggio (circa il 10% del petrolio estratto, si stima, prende la via del contrabbando). Le organizzazioni internazionali hanno raccolto testimonianze di raid con elicotteri contro villaggi ribelli e di violenze indiscriminate da parte di militari e milizie private.
Infine, nell’America Meridionale resta attivo il conflitto che lacera la Colombia, dove si affrontano l’esercito governativo e una trentennale guerriglia rivoluzionaria (le Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia e l’Ejército de liberación nacional), ma il quadro è complicato dalla presenza di un narcotraffico agguerrito, di milizie paramilitari nate a volte come guardie private per il settore estrattivo (petrolio, smeraldi) e a volte come ‘squadre della morte’, in ogni caso usate per il ‘lavoro sporco’. A complicare ulteriormente il quadro, in Colombia sono presenti forze armate degli Stati Uniti nell’ambito del Plan Colombia.
I luoghi delle guerre dimenticate
L’elenco non pretende di essere esaustivo, ma già permette di notare che gran parte della conflittualità armata sviluppatasi a cavallo del nuovo secolo ha luogo in Paesi in via di sviluppo oltre che, come già accennato, nelle zone periferiche e marginali dell’ex impero sovietico: cioè per lo più nella parte del pianeta più povera e svantaggiata dai flussi globali dell’economia. Project ploughshares ha sovrapposto la mappa dello sviluppo umano con quella dei conflitti armati avvenuti tra il 1997 e il 2006: si può constatare così che appena l’1,6% dei Paesi ad alto sviluppo umano è stato interessato da eventi bellici, contro il 30% dei Paesi a medio e il 39% di quelli a basso sviluppo umano.
Le cause profonde vanno probabilmente cercate proprio nello sviluppo diseguale, oltre che nei processi di decolonizzazione incompiuti. Con la Seconda guerra mondiale, e poi negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, le allora colonie in Africa e Asia hanno via via conquistato l’indipendenza; con poche eccezioni però le ricchezze delle nuove nazioni sono rimaste sostanzialmente sotto il controllo delle ex potenze coloniali (anche se ormai per lo più attraverso grandi aziende private, multinazionali).
Prendiamo, per es., l’Africa: dopo un primo periodo di ottimismo, spesso le nuove nazioni postcoloniali sono entrate in crisi. Le ricchezze sono rimaste concentrate nelle mani di piccole élites locali legate a interessi stranieri, le economie non sono decollate. Le istituzioni democratiche non sono riuscite a consolidarsi, le amministrazioni sono rimaste monopolio di gruppi ristretti spesso appartenenti all’una o all’altra delle componenti etniche dei nuovi Stati; i meccanismi di successione spesso sono stati dinastici o di clan. Questo ha contribuito a generare tensioni interne e scontri tra diversi gruppi sociali per il controllo del potere e delle risorse; non di rado tali tensioni sono sfociate in colpi di Stato, ribellioni armate, guerriglie; cosa che ha contribuito a spaccare ulteriormente le nuove nazioni e a impoverirle. Nel frattempo la popolazione in queste regioni è cresciuta, e così anche la tendenza alla migrazione dalle zone rurali – impoverite e teatri di conflitto – verso le aree urbane, ormai attorniate da baraccopoli in cui si riproducono povertà e tensioni sociali.
In un mondo bipolare i conflitti e le fratture sociali tendevano ad assumere la forma di contrapposizioni politico-ideologiche, anche perché spesso i contendenti cercavano sostegno presso una o l’altra delle potenze mondiali. Alla fine del 20° sec., perse le coloriture ideologiche, le lotte di potere hanno fatto leva piuttosto sulle appartenenze, di solito etniche o religiose (cosa non difficile, se si pensa che i confini degli attuali Stati postcoloniali sono spesso creazioni artificiali, risultato di spartizioni tra le vecchie potenze che non avevano tenuto conto della distribuzione delle popolazioni sul territorio; inoltre non di rado le potenze coloniali avevano usato i gruppi etnici gli uni contro gli altri per mantenere il loro dominio, creando o accentuando conflitti).
Anche per questo motivo, al pubblico della lontana Europa queste guerre appaiono il più delle volte indecifrabili e, nella difficoltà di distinguere cause profonde, torti e ragioni, vengono liquidate come guerre intestine, perenni conflitti tribali.
Guerre per le risorse naturali
Spesso, in queste lotte di potere sfociate in conflitto armato, il controllo delle ricchezze naturali è la posta in gioco quanto e a volte più del controllo del potere politico. Il petrolio (si pensi alla Nigeria e alle serpeggianti ribellioni armate nella regione petrolifera del Delta del Niger), l’uranio, i diamanti, il coltan, il legname tropicale e infinite altre: sono ricchezze immense, materie prime che muovono le moderne economie industrializzate, oggetto di spartizione tra élites locali e grandi attori dell’economia globale. Anche per questo, non di rado all’ombra di guerre croniche, sono cresciute intere economie criminali: prosperano traffici e trafficanti mentre le economie nazionali crollano e si moltiplicano i casi di failed States (Stati falliti), in un circolo vizioso che tende a perpetuarsi (Collier, Elliott, Hegre et al. 2003).
L’importanza delle risorse naturali nelle nuove guerre merita una sottolineatura. Michael Renner, ricercatore del Worldwatch institute di Washington, osserva che su una cinquantina di crisi violente e conflitti armati presenti nell’anno 2001 almeno un quarto era in qualche modo legato al controllo di risorse naturali: nel senso che l’estrazione e lo sfruttamento legale o illegale di una ricchezza naturale costituiva una delle cause e/o poste in gioco del conflitto, o contribuiva a esacerbarlo, o permetteva di finanziare la sua continuazione (Renner 2002). Gli esempi sono numerosi, vanno dalla guerra civile in Cambogia negli anni Novanta (dove sia la guerriglia dei Khmer rossi, sia l’esercito governativo si sono finanziati con il legname tropicale pregiato), a quella che fino a tutto il 2002 ha devastato l’Angola (dove un ciclo ventennale di guerra civile aveva perso ormai ogni connotato ideologico e le miniere di diamanti erano diventate il vero oggetto della ribellione armata contro il governo centrale). Si potrebbero aggiungere l’economia della coca in Colombia e quella dell’oppio in Afghānistān.
La guerra del Congo è forse l’esempio più impressionante: nella seconda fase del conflitto, tra il 1998 e il 2002-03, gli eserciti di sei Paesi africani sono accorsi a sostegno delle diverse fazioni in lotta nella Repubblica Democratica del Congo, governativi o ribelli, e tutti sono stati ripagati con ricche concessioni minerarie: il presidente ruandese Paul Kagame l’aveva definita «una guerra che si autofinanzia». Le Nazioni Unite hanno incaricato un gruppo ad hoc di esperti di indagare sul nesso tra sfruttamento illegale di risorse e approvvigionamento di armi nella Repubblica Democratica del Congo. Il rapporto consegnato al Consiglio di sicurezza dell’ONU nell’autunno 2003 conteneva un ampio capitolo sul traffico d’armi e affermava che «lo sfruttamento illegale [di risorse naturali] resta una delle principali fonti di finanziamento dei gruppi responsabili di perpetuare il conflitto, specialmente nelle regioni orientali e nord-orientali».
Il nesso tra guerra e risorse naturali mette in luce un’altra caratteristica delle ‘nuove guerre’ di questo inizio secolo: conflitti armati geograficamente remoti, poco presenti sui mass media, di cui è sempre più difficile comprendere ragioni e torti e perfino individuare protagonisti e alleanze, sono però estremamente globalizzati. Un caso paradigmatico è quello del coltan, o colombite-tantalite, minerale indispensabile all’industria elettronica avanzata (è usato per fabbricare i condensatori che regolano il flusso di corrente nei circuiti integrati, presenti in tutti i prodotti ad alta tecnologia, dai telefoni cellulari alle PlayStation, ai computer di bordo di un jet, ai sistemi elettronici militari). Tra il 2000 e il 2001 il boom dell’industria dell’informazione e delle comunicazioni aveva portato a un’impennata della domanda mondiale di coltan, e al quasi esaurimento delle riserve disponibili. Nelle regioni del Kivu, Bukavu e Ituri, in Congo occidentale, il coltan è abbondante in giacimenti superficiali, dove l’estrazione richiede poca tecnologia: basta scavare, setacciare, ripulire con attrezzature elementari. Così in pieno conflitto migliaia di persone si sono buttate in questa attività mineraria ‘da poveri’: il coltan estratto veniva raccolto da intermediari che lo portavano a grossisti e infine ad aziende di export a Kampala o Kigali, le capitali dei vicini Uganda e Ruanda. Il coltan congolese ha dato all’industria elettronica mondiale la flessibilità necessaria a far fronte a una contingente penuria della materia prima fornendo, inoltre, alle fazioni in guerra un’abbondante fonte di finanziamento e procurando ai cercatori un miserabile reddito di sopravvivenza (Forti 2004).
Dunque i minerali estratti nel Congo sono volati direttamente sui mercati internazionali. Allo stesso modo, il legname tagliato sui monti della Cambogia finisce nei mobilifici di Cina, Stati Uniti, Europa. I diamanti estratti in Angola sono arrivati nelle gioiellerie di Roma, Londra o New York, finanziando grandi acquisti illegali di armi. Tra i minatori di coltan immersi nel fango delle foreste congolesi, il sangue della guerra e i telefonini prodotti dall’industria high-tech esiste dunque un filo diretto.
Tutto questo non chiama in causa solo milizie ribelli e trafficanti, ma coinvolge grandi società minerarie, aziende d’intermediazione commerciale, agenzie di trasporti e linee aeree, industrie, banche. Le responsabilità variano dal ruolo attivo di chi va a estrarre risorse in zone di guerra alla complicità silenziosa di chi fa affari con un certo regime o una determinata forza ribelle. Chiamano in causa attori insospettabili: chi commercia i diamanti angolani, chi acquista il coltan estratto in Congo, chi vende mine antiuomo e altre armi poco tecnologiche, ma letali.
Globali sono anche le implicazioni di queste guerre: le masse di rifugiati, il futuro di intere popolazioni, la devastazione ambientale, il traffico d’armi e le mafie che lo controllano, la fragilità dei diritti umani e la trasparenza delle aziende – corporate accountability, con termine anglosassone – in un’economia globalizzata.
Nel 2005 il Worldwatch institute di Washington ha lanciato un programma biennale di ricerca sull’intersezione tra disastri naturali, degrado ambientale, conflitti armati e peacemaking. Ha analizzato tra l’altro i casi di Aceh (provincia settentrionale di Sumatra, Indonesia) e di Srī Laṅkā, le due regioni più colpite dallo tsunami che il 26 dicembre 2004 ha devastato i Paesi affacciati sull’Oceano Indiano. Al momento del disastro naturale sia Aceh, sia le regioni settentrionali e nord-orientali di Srī Laṅkā erano interessate da conflitti civili più che ventennali tra i governi centrali e forze separatiste; l’immane devastazione provocata dallo tsunami ha portato le parti a sospendere le ostilità (nel caso di Aceh) o a rinsaldare una fragile tregua (in Srī Laṅkā) per permettere le operazioni di soccorso, anche grazie a un massiccio intervento umanitario internazionale. In entrambi i casi le forze internazionali hanno anche garantito una certa mediazione tra le parti, sempre in riferimento ai soccorsi; infine si sono concretizzate mediazioni internazionali per riaprire negoziati di pace. L’esito è stato positivo nel caso di Aceh, dove le forze separatiste e il governo centrale indonesiano hanno infine trovato un assetto di pace; non così a Srī Laṅkā, dove la tregua negoziata nel 2002 era già stata rotta da entrambe le parti quando nel gennaio 2008 il governo di Srī Laṅkā ha formalmente ripreso le ostilità; nel gennaio 2009 l’esercito, attuando una massiccia offensiva, ha conquistato i bastioni ribelli.
Perché alcuni conflitti sono dimenticati e da chi
A cavallo del secolo una ricerca promossa dalla Caritas italiana, con la collaborazione delle riviste cattoliche «Famiglia cristiana» e «Il regno», ha cercato di analizzare i motivi della disattenzione dell’opinione pubblica e dei media italiani nei confronti dei numerosi conflitti armati in corso nel mondo.
La ricerca, coordinata da Francesco Strazzari e Giampiero Giacomello, si è svolta tra il gennaio 1999 e il giugno 2001 e ha messo a confronto un paio di conflitti ‘celebri’ (Palestina e Kosovo), con cinque casi-studio di conflitti annosi che però sono risultati meno noti al pubblico (Angola, Colombia, Guinea-Bissau, Sierra Leone, Srī Laṅkā). I ricercatori hanno esaminato l’informazione (TV, radio, stampa, Internet e agenzie di stampa) e sondato un campione rappresentativo della popolazione italiana; hanno così cercato di capire che cosa impone all’attenzione alcuni conflitti e ne spinge altri, pure drammatici e sanguinosi, nell’oblio (Caritas italiana 2003).
Un primo elemento, ovvio, è che la consapevolezza e l’interesse dell’opinione pubblica sono strettamente correlati allo spazio che i media dedicano a questo o quell’evento. Spazio scarso e discontinuo, come testimonia anche l’ultimo rapporto su Le crisi umanitarie dimenticate dai media compilato dalla sezione italiana di Medici senza frontiere con l’Osservatorio di Pavia sui mass media (marzo 2009).
Ma cosa determina realmente la presenza o assenza di conflitti e guerre nell’arena comunicativa? Gli autori della ricerca promossa dalla Caritas italiana hanno avanzato delle ipotesi interpretative, individuando alcune variabili strategiche: la presenza o meno di militari italiani coinvolti nel conflitto, la lontananza geografica del Paese in questione, la gravità del conflitto stesso (numero di vittime, uso di armi ‘inumane’, trattamento della popolazione civile) e la sua durata (un conflitto che si cronicizza ha più probabilità di essere dimenticato); la rilevanza geostrategica della regione coinvolta e la presenza di intervento militare o di peacekeeping internazionale; l’importanza del/dei Paese/i in situazione di conflitto rispetto agli scambi commerciali con l’Italia; la presenza di legami storico-culturali con l’Italia.
Ciascuno di questi elementi contribuisce a far sì che una guerra si imponga o meno all’attenzione pubblica, anche se non basta in sé a spiegarlo: la guerra nella Repubblica Democratica del Congo, con circa 3 milioni di morti e 2 milioni di profughi, è stata tra le più sanguinose dei tempi recenti, ma non ha certo avuto in Italia un’attenzione proporzionata; l’Eritrea e l’Etiopia hanno legami storico-culturali con l’Italia, ma la guerra di frontiera tra i due Paesi non riscuote grande attenzione. Questi elementi vanno considerati non come fattori statistici, ma come ipotesi esplicative, elementi che contribuiscono a dare o meno rilevanza mediatica a certi eventi.
Questo ha spinto gli autori della ricerca a fare alcune considerazioni sulla percezione che le moderne società democratiche hanno dei conflitti moderni e sulla mutata natura di questi conflitti. Da un lato, fanno notare, «le moderne democrazie si sono demilitarizzate»: nel senso che l’esperienza bellica appartiene solo a una minoranza di cittadini che intraprendono volontariamente il mestiere delle armi, cioè i militari e il piccolo indotto logistico e tecnico che accompagna le forze armate, e alla minoranza ancora più esigua che svolge volontariato di carattere umanitario in zone di conflitto o vi svolge un lavoro d’informazione. La stragrande maggioranza della popolazione di una moderna democrazia avanzata non partecipa direttamente all’esperienza del conflitto armato, anzi evita di trovarsi in aree geografiche dove la propria sicurezza potrebbe essere in pericolo.
Per i più, insomma, la guerra è un’esperienza solo virtuale: dalla fine della Seconda guerra mondiale, le generazioni nate in Europa occidentale, a eccezione dei Balcani, hanno avuto il privilegio di non subire guerre. Questa indubbia fortuna fa sì che i conflitti percepiti come remoti non abbiano grande rilevanza per la sicurezza e il benessere dei cittadini italiani e in genere delle nazioni occidentali, benestanti e democratiche; ciò influenza anche l’atteggiamento dei cittadini-contribuenti-elettori rispetto alle guerre medesime: nessuno vorrà rischiarvi la propria vita e sicurezza (o quella dei propri figli). D’altra parte, la tipologia nuova dei contemporanei conflitti armati li rende in qualche modo sfuggenti per l’opinione pubblica, non aiutata di certo da mass media che tendono a un’informazione discontinua e spesso rinunciano a fornire le chiavi di lettura e gli approfondimenti necessari a interpretarne origini e cause.
La Caritas italiana, sempre con «Famiglia cristiana» e «Il regno», ha ripetuto a distanza di pochi anni uno studio riguardante conflitti dimenticati, guerre infinite, terrorismo internazionale e la persistente disattenzione dell’opinione pubblica italiana, coordinato anche questa volta da F. Strazzari, professore di relazioni internazionali all’Università di Amsterdam (Caritas italiana 2005). Di nuovo, nell’arco di tre anni (giugno 2001-giugno 2004) i ricercatori hanno condotto una complessa raccolta di dati e informazioni, analizzato l’offerta dei mass media e intervistato un campione di popolazione italiana. Hanno osservato una consapevolezza maggiore della pervasività della guerra, anche perché conflitti cronici rimasti in ombra, come quello della Cecenia, erano tornati sulla scena in modo drammatico con il massacro dei bambini della scuola di Beslan, nella vicina Ossezia, nel settembre 2004: in quel momento la capitale cecena, Groznyj, era sull’orlo di una terza guerra civile dopo quelle degli anni Novanta, mai realmente risolte. Forse anche perché in quegli anni di guerra al terrorismo le questioni della sicurezza sono diventate onnipresenti: il periodo seguito all’11 settembre 2001 ha visto nuovi terribili episodi di terrorismo kamikaze prima nella lontana Bali e a Djakarta, poi a Londra, Madrid, Mosca. In quegli anni il terrorismo internazionale è stato proclamato «la più grave minaccia alla sicurezza nel secolo 21°», come ebbe a dire nel 2003 l’allora premier britannico Tony Blair. Le immagini di attentatori (e attentatrici) suicidi, ostaggi sgozzati, giornalisti rapiti hanno portato la violenza dei conflitti armati più vicina al pubblico, benché sempre attraverso la mediazione dei mass media.
La maggiore consuetudine con notizie di guerra però non impedisce che decine di conflitti armati continuino a consumarsi nell’ombra, lontano dai riflettori della grande informazione. In effetti, «la ‘dimenticanza’ non è solo fenomeno quantitativo e indiscriminato, ma anche e soprattutto qualitativo e selettivo», osserva Strazzari nell’introduzione alla nuova ricerca della Caritas: «Che si vedano più immagini di morte non significa che se ne informi meglio, e tantomeno che siamo in possesso di un maggior numero di chiavi esplicative» (Caritas italiana 2005). Alla ricerca di chiavi interpretative sui motivi della disattenzione pubblica, questa nuova ricerca si è dunque soffermata di più sull’analisi della natura dei conflitti, per osservare la presenza crescente di nuove guerre infinite, diluite nel tempo e nello spazio, incluso il terrorismo internazionale; la presenza di «conflitti apparentemente culturali o di civiltà dietro a cui c’è sempre la lotta per il potere e per le risorse»; il forte legame tra guerre e povertà, il crescere di economie criminali all’ombra di guerre croniche. Soprattutto, la ricerca della Caritas sottolinea il crescere delle violazioni dei diritti umani connesse alla guerra e la necessità di approcci nuovi per la prevenzione e la risoluzione dei conflitti.
Dalle due ricerche citate emerge un ultimo dato di grande interesse: i cittadini italiani per lo più ritengono che i conflitti armati possano essere evitati grazie a mediazioni politiche internazionali, e considerano le Nazioni Unite, il Papa e la Chiesa cattolica le uniche voci autorevoli che si levano contro l’ingiustizia delle guerre. Si potrebbe prenderlo come un buon auspicio: nel senso comune, l’orrore di tante guerre più o meno dimenticate chiede di essere fermato.
Bibliografia
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Caritas italiana, I conflitti dimenticati, a cura di P. Beccegato, W. Nanni, Milano 2003.
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Worldwatch institute, State of the world 2005: redefining global security, Washington 2005 (trad. it. Milano 2005).
Le guerre del silenzio. Alla scoperta dei conflitti e delle crisi del XXI secolo, a cura di M. Simoncelli, Roma 2005.
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Medici senza frontiere, Osservatorio di Pavia, Le crisi umanitarie dimenticate dai media, quinto rapporto, Roma 2009.
Webgrafia
Per approfondire l’argomento, si vedano i seguenti siti:
www.ploughshares.ca/libraries/ACRText/ACR-TitlePageRev. htm; www.pcr.uu.se/research/UCDP/index.htm; www.sipri.org; www.crisisgroup.org; www.conflittidimenticati.org.