SOCIALI, GUERRE
. Antica Grecia. - Con tale designazione (che bene s'adatterebbe a molte delle guerre combattute tra Greci) s'indicano di solito due guerre particolari: 1. quella combattuta da Atene contro gli alleati ribelli fra il 357 e il 355 a. C.; 2. quella che Filippo V condusse, in aiuto degli Achei e dei Simmachi, contro gli Etoli negli anni 219-217 a. C.
1. Nell'autunno del 357 a. C. Chio, Rodi e Cos, membri della seconda confederazione navale ateniese, si proclamarono dimissionarî: Bisanzio, che già nel 364 aveva fatto un tentativo analogo, aderì al moto separatistico. Del quale occasione e incentivo fu certo l'appoggio concesso da Mausolo di Caria, anche se le radici più profonde siano da ricercare nei molti malcontenti verso Atene. Atene mosse contro gli alleati ribelli con tutte le forze. Nell'autunno del 357 pose l'assedio a Chio, ma l'impresa fallì per la morte dello stratego Cabria. L'estate successiva (356) vide in mare, di contro alle 100 triere dei soci ribelli, 120 triere ateniesi sotto il comando degli strateghi Carete, Ificrate e Timoteo. La battaglia decisiva si sarebbe dovuta combattere nelle acque di Chio, presso Embata; ma la giornata burrascosa divise il volere degli strateghi, dei quali Carete mosse all'assalto, Ificrate e Timoteo si astennero. Per modo che il medesimo Carete fu da ultimo costretto a ritirarsi; e la giornata di Embata, pur non segnando una sconfitta, fu tuttavia un insuccesso.
In Atene Ificrate e Timoteo furono citati in giudizio, l'inverno fu speso in un'intensa campagna per la pace. L'estate successiva (355) si venne alla conclusione della pace (che, per l'abile mediazione del finanziere Eubulo, è detta appunto "pace di Eubulo"), la quale riconosceva l'indipendenza dei soci ribelli.
2. L'altra "guerra sociale" o "guerra dei Simmachi" (συμμαχικός πόλε μος) ebbe attori da un lato gli Etoli, coadiuvati da Spartani, Elei e Cretesi; dall'altro l'insieme dei Simmachi, cioè Achei, Macedoni, Tessali, Epiroti, Acarnani, Beoti e Focesi sotto la presidenza del re di Macedonia, nella persona di Filippo V. Questo conflitto, che s'iniziò sopra tutto per la brama achea di fiaccare la potenza etolica, si ridusse in sostanza a una serie di brigantaggi (saccheggio dei santuarî di Dion in Pieria e di Dodona in Epiro da parte degli Etoli, di quello di Thermos in Etolia da parte dei Macedoni); ma condusse anche a considerevoli acquisti da parte di Filippo. Iniziatasi nella buona stagione del 219, la guerra si concluse nel 217 con la pace di Naupatto, che ratificava le numerose perdite degli Etoli e dei loro alleati.
Bibl.: Per la guerra sociale del 357-55: R. Weise, Der athenische Bundesgenossenkrieg, Berlino 1895; K. J. Beloch, Griechische Geschichte, III, i, ivi 1922, p. 237 segg.; ii, ivi 1923, p. 258 segg.; G. Mathieu, Les idées politiques d'Isocrate, Parigi 1925, p. 115 segg.; P. Cloché, Les procès des stratèges athéniens, nella Revue des études anciennes, XXVII (1925), pp. 111-12; id., La politique étrangère d'Athènes de 404 à 338 av. J. Chr., Parigi 1934, p. 158 segg.; A. Momigliano, Filippo il Macedone, Firenze 1934, p. 90 segg.
Per la guerra sociale del 219-17: B. Niese, Geschichte der griech. u. maked. Staaten, II, Gotha 1899, p. 408 segg.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, III, ii, Torino 1917, p. 395 segg.; M. Holleaux, Rome, la Grèce et les monarchies hellénistiques, Parigi 1921, p. 145 segg.; A. Ferrabino, Il problema dell'unità nazionale nella Grecia. Arato di Sicione, Firenze 1921, p. 121 segg.; W. W. Tarn, in Cambridge Ancient History, VII, Cambridge 1928, p. 763 segg.; F. W. Walbank, Aratos of Sicyon, ivi 1933, p. 114 segg.
La guerra sociale in Italia.
Si suole chiamare guerra sociale o marsica l'insurrezione antiromana degli alleati italici divampata nel 91 a. C. in seguito all'assassinio di M. Livio Druso (v.) che aveva presentato leggi assai favorevoli al riconoscimento dei loro diritti. Come la ripulsa della legge di M. Fulvio Flacco aveva provocato l'infelice ribellione di Fregelle, la sorte tragica del più forte, del migliore fra gli uomini che avrebbero saputo e potuto ridare autorità e prestigio al governo senatorio rendendogli la possibilità di compiere un'opera adeguata alle esigenze imperiali, provocava una crisi i cui pericoli per lo stato non erano forse minori di quelli della guerra di Annibale.
La guerra antiromana tentata dagli alleati italici aveva di necessità uno scopo unico e gravissimo: la distruzione dello stato imperiale, che aveva nell'unità romano-italica il suo fondamento, grazie al quale aveva potuto resistere alle prove più gravi. Era la guerra inevitabile. Le classi politiche di Roma avevano avuta la cecità di mettersi sulla china pericolosa che portava a recidere le fonti della potenza dello stato, negando giustizia agli alleati, tentando di ridurli al livello di sudditi, rinnegando un passato di comune milizia e di gloria che aveva dato ai Romani, ai Latini e Italici ogni diritto di continuare per sempre a formare un solo popolo, come avevano voluto le generazioni che, con uno sforzo incessante, avevano dato uno stato unico alle genti della penisola appenninica. Più che rivolta o insurrezione, la guerra marsica o sociale fu guerra di indipendenza; avrebbe potuto essere una guerra di distruzione, poiché lottando contro Roma gl'Italici scendevano in campo non solo per chiedere giustizia, ma anche per abbattere la centralizzazione delle loro forze in Roma. L'insurrezione tentò di mantenere l'unità italica in una forma confederale; gli alleati riuscirono a dare alla loro insurrezione un carattere politicamente unitario che ha una importanza storica notevole. Le città del Piceno iniziarono il movimento scambiandosi ostaggi e facendo strage dei Romani di Ascoli, uccidendo anche il proconsole Servilio (91 a. C.). Il movimento si estese: le tribù marsiche, sabelliche, picenti al nord, le tribù osche, sannite, lucane al sud si organizzarono in una forma federativa centralizzata, con capitale in Corfinio, cui fu dato nome Italica e che - vera e improvvisata anti-Roma - ebbe due consoli, il marsico Pompedio Silone e il sannita Papio Mutilo, un senato e un'organizzazione militare e politica foggiata su quella romana. Per fronteggiare il pericolo Roma fu obbligata ad armare dieci nuove legioni, ad arruolare coorti di provinciali iberici, galli e africani, ed anche a chiamare sotto le armi i liberti: precedente grave, e, soprattutto, indizio della maggiore importanza per l'avvenire dello stato. Infatti, mentre Roma difendeva l'unità peninsulare, chiamando a combattere sotto le sue insegne i provinciali affermava per la prima volta una unità militare e una collaborazione di sforzi con le provincie occidentali. Fu guerra aspra e complessa. I migliori generali romani, fra cui Mario e Silla, avevano assunto i comandi nei varî fronti: tuttavia Pompeo Strabone, Rutilio e lo stesso Gaio Mario conobbero la sconfitta, ed il governo dovette affrettarsi, nel 90 a. C., a concedere la cittadinanza agli alleati che restavano fedeli, e a quanti abbandonassero la lotta per sottomettersi (89 a. C.); ai Celti della Gallia Cisalpina fu concesso, per tenerli lontani dalla guerra, il diritto latino. I nuovi cittadini venivano però iscritti in dieci tribù da aggiungersi alle tradizionali trentacinque, rendendo quindi la concessione di scarsa efficacia, almeno dal punto di vista dell'effettiva loro partecipazione al governo dello stato attraverso le assemblee, ma tuttavia ammettendoli al godimento di tutti gli altri diritti dei cittadini romani.
La guerra, grazie ai provvedimenti politici presi tempestivamente dai Romani, e che miravano, con pieno effetto, a rendere vani gli scopi degl'insorti, non tardò a declinare, malgrado le vivaci resistenze provocate dal comprensibile timore della repressione romana. Già al principio dell'89 Pompeo Strabone vinceva ad Ascoli i ribelli in battaglia campale; nell'88 Lucio Cornelio Silla, console con Pompeo Rufo, riuscì a far capitolare diversi dei centri di resistenza, e a costringere i Marsi alla resa. Mentre sotto Nola assediata si tratteneva nell'88 l'esercito di Silla, l'insurrezione fu localizzata a poche popolazioni, che, segretamente sovvenzionate dal grande nemico che si preparava alla maggiore guerra dell'Oriente contro Roma, Mitridate re del Ponto, e favorite dalle incertezze della situazione politica interna del governo, riuscirono a resistere sino quasi all'80 a. C.
La guerra civile degli alleati aveva avuto due aspetti fondamentali: la rivendicazione dell'unità popolare romano-italica da parte degl'insorti e la necessaria, e forse quasi involontaria, affermazione dell'unità imperiale dello stato, fatta dal governo di Roma costretto a valersi dell'aiuto dei provinciali per salvare la potenza statale in Italia. Gl'insorti furono vinti, e la guerra costò trecentomila vite; la severa repressione di Roma modificò inoltre profondamente lo stesso assetto sociale in Italia.
Fonti: Epit. Liviane, LXXII segg.; Appiano, Bell. civ., I, 38 segg.; Velleio Pat., II, 15 segg.; Floro, II, 6 segg.; Plutarco, Mario; Diodoro, ecc.
Bibl.: Last-Gardner, in Cambridge Ancient History, IX, Cambridge 1932, p. 158 segg.; A. v. Domaszewski, in Sitzungsber. d. Akad. in Wien, 1924; C. Cichorius, in Römische Studien, Lipsia-Berlino 1922, p. 130 segg.; G. H. Stevenson, in Journal of Roman Studies, IX (1919) p. 95.