Guerriglia
Gli scrittori moderni hanno spesso sottolineato che la g. è la forma più antica di guerra. L'occidente antico non aveva però un termine per indicare il complesso delle tattiche diverse dalla battaglia decisiva; in compenso una delle eredità della guerra romana contro Annibale fu il concetto di cunctatio (il temporeggiare), che indica una strategia (ratio belli) basata sul deliberato rifiuto della battaglia decisiva. Raffrontando la strategia di Federico ii durante la guerra dei Sette anni con quella di Pericle durante la guerra del Peloponneso, H. Delbrück coniò nel 1900 il concetto di strategia di logoramento (Ermattung) del nemico in contrapposizione con quella di annientamento (Niederwerfung).
Alla guerra dei Sette anni risale anche il concetto di piccola guerra, da cui deriva, per il tramite spagnolo, il termine guerriglia. Esso indicava in origine solo la tattica delle forze irregolari (partigiane, di frontiera) e delle forze regolari 'speciali' (soprattutto di cavalleria), in genere combinata con le operazioni delle grandi armate. A partire dalle guerre napoleoniche, la combinazione con le operazioni navali e anfibie e soprattutto la politicizzazione della g. (come forma di guerra tipica della resistenza nazionale e delle insorgenze antifrancesi) hanno però gradualmente inflazionato l'uso del termine, fino a indicare, per sineddoche, una vera e propria 'forma di guerra' (warfare) diversa dalla guerra delle grandi armate e delle battaglie decisive (indicata come 'classica', 'ortodossa', 'regolare') e retta da regole e principi almeno apparentemente opposti (per es., quello della 'dispersione', anziché della 'concentrazione' delle forze).
Nella letteratura militare occidentale si trovano tentativi di definire in modo meno ambiguo e più rigoroso la 'guerra di guerriglia': C. von Clausewitz ne trattò gli aspetti politici nel capitolo del Vom Kriege sull'armamento popolare (Volksbewaffnung); lo storico militare W. Hahlweg propose nel 1960 'guerra senza fronti'; la g. cinese e latino-americana teorizzò la 'guerra di lunga durata' (nello stesso ordine d'idee di cunctatio); la teoria americana della controinsorgenza ha coniato espressioni meramente descrittive come 'guerra a bassa intensità' e, da ultimo, 'guerra asimmetrica' (che mette l'accento sulla sproporzione di forze tra gli avversari). Nessuna di queste definizioni si è potuta però imporre. Storicamente determinate, esse colgono aspetti importanti, ma parziali, non la struttura connotante della guerra di guerriglia.
Equivoci e pregiudizi
L'estensione del termine guerriglia dal linguaggio della tattica a quello della strategia e della politica non manca di produrre pregiudizi ed equivoci. Uno riguarda l'idea che la g. sia per antonomasia 'l'arma dei poveri'. In realtà, vi hanno fatto ricorso anche i governi delle grandi potenze; sia direttamente, in caso d'invasione del proprio territorio (come la Russia nel 1812 e nel 1941-1944, e come prevedevano i piani della NATO in caso d'invasione sovietica), sia indirettamente, sfruttando o favorendo insorgenze in territori esterni (come l'Inghilterra durante le guerre napoleoniche e gli alleati nella Seconda guerra mondiale). Del resto la g. è tanto più efficace quanto più si internazionalizza, ricevendo aiuti esterni, e quanto più viene associata ad altre forme di guerra (militari e/o economiche).
Un altro pregiudizio riguarda il carattere 'popolare' della g., senza considerare che la sua natura resta necessariamente settaria e non democratica anche quando riesce a conquistare il sostegno popolare e si batte per una causa democratica. Popolari e democratiche sono in realtà proprio la guerra regolare e la difesa contro la g., non tanto per gli scopi perseguiti, quanto perché dipendono dal consenso attivo e dalla mobilitazione militare e civile della nazione. Formate da pochi quadri e selezionate dalla stessa g., le forze partigiane operano invece in ambienti almeno inizialmente ostili e sempre in larghissima maggioranza attendisti, ai quali impongono (spesso con il terrore) un consenso soltanto passivo e che a volte usano freddamente come carne da cannone e scudi umani, speculando sulle rappresaglie indiscriminate. Mediante queste ultime, i comandanti in campo, senza troppo curarsi del costo politico a medio e lungo termine, cercano nell'immediato di esorcizzare la paura e di rialzare il morale delle truppe, scosso dalla vista dei compagni trucidati. Lo scopo della g. non è infatti quello di mobilitare masse che non si potrebbero armare né nutrire, e che incrementerebbero la vulnerabilità, bensì di sabotare la mobilitazione decretata dal nemico; non di strappargli lo scettro dalle mani, ma di raccoglierlo dalla polvere.
La comprensione della guerra di g. è inoltre ostacolata dalla guerra delle parole. Il valore positivo associato dopo il 1945 a termini come guerriglia, resistenza e partigiano, in virtù della lotta di liberazione contro il totalitarismo e il colonialismo, costituisce, per es., una remora per il loro impiego in riferimento ai nemici della democrazia, dimenticando che la distinzione tra 'combattenti della libertà' (freedom fighters) e terroristi (come quella tra guerre/armi difensive e offensive) appartiene alla propaganda di guerra, non alla scienza politica e militare, e al giudizio storico.
Attacco e difesa
La definizione della g. come 'guerra asimmetrica', dominante nei primi anni del 21° sec., è in realtà tautologica. Tutte le guerre si possono infatti definire tali, perché asimmetrico è il rapporto tra attacco e difesa; una delle intuizioni più importanti del Vom Kriege è appunto il loro rapporto di 'polarità', da cui deriva il paradosso clausewitziano che la difesa sia la forma originaria della guerra, e che essa sia intrinsecamente superiore all'attacco (v. guerra).
Asimmetrici, tuttavia, sono tutti i concetti definiti per contrasto reciproco (per es., pace/guerra, bene/male, destra/sinistra ecc.). Anche 'guerra/guerriglia' è una coppia filosofica asimmetrica, che può essere incrociata con quella attacco/difesa. Tra i pregiudizi correnti sulla g. c'è quello di associarla alla difesa: ciò riflette l'esperienza europea delle guerre mondiali e coloniali, però le g. latino-americane, africane e le g. asiatiche posteriori al 1945 non erano difensive bensì offensive (guerra rivoluzionaria, di liberazione nazionale, santa). Inoltre, la g. differisce dalla difesa classica: quest'ultima cede spazio per guadagnare il tempo che occorre per sfruttare 'l'attrito' (Friktion, nel linguaggio clausewitziano) sia materiale sia morale dell'attacco, mirando a impedire al nemico di conseguire il suo scopo politico e a invertire i rapporti di forza per poterlo a sua volta contrattaccare, mentre la g. opera nello spazio già perduto e colpisce non la capacità materiale ma la volontà del nemico.
Se lo scopo politico della g. può essere tanto difensivo quanto offensivo, il modo di combattere è necessariamente offensivo a livello tattico e difensivo a livello strategico. La g. deve infatti non soltanto manifestarsi (mediante la 'propaganda armata'), ma anche evitare di essere distrutta in uno scontro decisivo. La tattica offensiva è possibile anche in condizioni di estrema inferiorità generale di forze, sfruttando la sorpresa e la mobilità, secondo il principio 'mordi e fuggi'. Nella fase iniziale la g. acquisisce facilmente l'iniziativa, perché lo scopo meramente comunicativo (psicologico, dimostrativo, simbolico) dei singoli attacchi (soprattutto degli attentati) moltiplica gli obiettivi possibili, includendovi, di preferenza, quelli insignificanti dal punto di vista militare, strategico o politico, e perciò più facilmente vulnerabili. Nel loro complesso gli attacchi (e soprattutto i sabotaggi) producono però anche un 'attrito' effettivo; mettono il nemico 'sulla difensiva', costringendolo a disperdere, dequalificare, immobilizzare e, infine, aumentare le proprie forze per controllare o presidiare tutti gli obiettivi possibili (con ricadute negative in termini di efficienza, di costi e di consenso). In compenso, l'efficacia psicologica degli attacchi degrada con il tempo, per effetto sia dell'assuefazione, sia soprattutto delle aspettative crescenti dello spettatore, amplificate dalla logica della comunicazione mediatica. Impadronendosi dello spazio comunicativo, la g. formula implicitamente una promessa ('la progressione geometrica della potenza di fuoco' come teorizzavano in Italia le Brigate rosse) che non può essere mantenuta e che, nel medio termine, provoca il crollo non soltanto della credibilità esterna, ma anche del morale delle stesse forze partigiane.
Sul piano strategico lo scopo essenziale della g. è non essere distrutta. Priva dello spazio istituzionale e territoriale, controllato dal nemico, la g. deve recuperare uno spazio sociale sufficiente per guadagnare tempo. La strategia della g. si basa sul rifiuto dello scontro decisivo e sulla 'lunga durata'. La durata è determinata dallo scopo politico del nemico: quanto più è 'limitato', tanto più limitata finirà per essere la g.; e non soltanto nella durata, ma anche nell'intensità. Combattere contro uno scopo illimitato (come la resistenza o l'instaurazione di un regime politico aborrito) richiede uno sforzo illimitato. Lunga durata e scopo illimitato scommettono sulla determinazione e sulla capacità di tenuta del nemico, ma sono rischiose per entrambi i contendenti: alla sconfitta della g. peruviana, per es., ha contribuito anche il ripudio popolare della guerra dei Cento anni profetizzata dall'ideologo di Sendero luminoso, ma l'impegno del presidente G.W. Bush a restare in 'Irāq 'fino alla vittoria' comunica agli americani l'idea deprimente di una guerra che doveva essere preventiva e che sembra ormai divenuta fine a sé stessa, e perciò permanente e senza fine.
bibliografia
I.F.W. Beckett, Encyclopedia of guerrilla warfare, New York 1999.
I.F.W. Beckett, Modern insurgencies and counter-insurgencies. Guerrillas and their opponents since 1750, London 2001.
D. Rooney, Guerrilla. Insurgents, patriots and terrorists from Sun Tzu to Bin Laden, London 2004.
I. Arreguin-Toft, How the weak win wars: a theory of asymmetric conflict, New York 2005.