GUGLIELMO da Sarzano
Nacque intorno agli ultimi decenni del Duecento a Genova, nel sestiere di Sarzano, da cui ereditò l'appellativo, se si deve accordare valore restrittivo alle indicazioni fornite dalla rubrica che introduce alle sue due opere: "frater Guilelmus de Sarzano de Ianua, lector fratrum minorum in sancto Laurentio civitatis Neapolis".
La sua personalità acquisì una certa consistenza agli inizi del Novecento, quando Pietro Fedele rinvenne nella Biblioteca reale di Torino il codice contenente le sue opere: da allora si è soliti indicare Genova come città natale di Guglielmo. Nella dedica di una fra le opere, il De excellentia principatus monarchici et regalis, egli parla distesamente della sua patria, ma senza precisarne i confini geografici. Era una regione rimasta immune dal dilagare delle eresie imperversanti nel resto d'Italia; grazie all'indipendenza dal dominio imperiale, inoltre, vi regnava stabilmente la pace e - a coronare l'immagine di una patria anche interiore - G. aggiungeva di non potersi separare ("a meis visceribus abdicare") né dalla dolcezza di quel suolo, né dallo zelo di cristiano (Delorme, p. 227).
Nella città natale dovette trascorrere una parte della giovinezza e perfezionarvi la sua formazione ecclesiastica nell'Ordine dei frati minori, divenendo lector di un locale convento. Ancora all'inizio del De excellentia ricorda infatti d'aver condotto alcune ricerche preliminari "illis temporibus quibus in conventu januensi quamvis insufficiens gessi lectoris officium" (ibid., p. 226).
Nel corso del 1310-11, forse dopo aver concluso l'esperienza genovese, G. si trasferì a Firenze, per insegnare nello Studio: come "lector Florientiae" viene infatti indicato dal procuratore dell'Ordine dei francescani, Raimondo di Fronsac, il quale narra come G., in occasione della disputa tenutasi tra la comunità e i frati spirituali nella Curia pontificia, avesse collaborato alla stesura di un libello contro l'exemptionis privilegium concesso ai frati spirituali, e perciò subscripsisse - che nella terminologia giuridica di allora equivaleva ad "associarsi nel ricusare" - le affermazioni calunniose in esso contenute.
In un secondo tempo G. entrò nel convento di S. Lorenzo a Napoli, dove divenne lector fratrum minorum. Presso la corte angioina G. rivestì un ruolo certamente non marginale. Nelle carte della Cancelleria si conserva un documento, datato 6 apr. 1327, in cui si dice che G. ogni mese aveva un'oncia "in subsidium expensarum suarum et familie sue" (Caggese): egli era dunque provvisto di sussidi frequenti e di stipendi, dei quali godevano solo i protetti del re.
G. si trovava a Napoli quando compose le due opere, dalle quali emerge il suo profilo spirituale e politico. Esse sono entrambe dedicate a Giovanni XXII, il pontefice che segnò la sua epoca in quanto implicato in una delicata controversia contro l'imperatore Ludovico il Bavaro circa l'origine dell'autorità imperiale e la sacralità del suo mandato terreno.
In effetti, il De potestate summi pontificis, il primo fra i due trattati di G., muove serrate argomentazioni contro la derivazione divina dell'autorità imperiale, a sostegno della dipendenza di questa dall'autorità papale, unica depositaria della volontà di Dio.
L'autore tace il nome di Dante Alighieri, la cui Monarchia, composta intorno al 1317, era coinvolta nel medesimo e ormai secolare dibattito, ma sul fronte opposto. Il trattato dantesco doveva emergere agli occhi di G. come naturale bersaglio polemico, in ragione della sua esplicita adesione alla cosiddetta teoria dei due soli, secondo la quale entrambe le autorità derivano direttamente da Dio e possono dunque esercitare un potere autonomo e distinto nelle rispettive sfere d'influenza: il dominio temporale e il dominio spirituale.
Dante si spingeva, in realtà, ben oltre l'assegnazione di netti confini e imputava - specialmente nel poema, pressoché contemporaneo alla Monarchia - proprio alla mancata separazione dei due poteri e alla cupidigia dei detentori dell'uno e dell'altro l'irrimediabile declino dell'umanità.
Nel suo argomentare in favore dell'autonomia dell'imperatore dal papa Dante poteva contare su una tradizione filosofica solidissima, benché pervicacemente perseguitata dalla Chiesa: l'averroismo, diffuso oltre che in Francia anche in Italia, sosteneva infatti la separazione tra ragione e fede come premessa irrinunciabile a ogni indagine filosofica; su tale presupposto teorico fondava anche la necessità della separazione tra le due autorità preposte al dominio spirituale e al dominio temporale. Ognuna di esse doveva garantirsi da reciproche intromissioni al fine di consentire all'umanità il pieno raggiungimento delle due felicità possibili: la felicità terrena, cui è indispensabile una retta e giusta politica, e la felicità eterna, alla cui guida è preposto il pontefice, che ne avrà cura come sua somma missione spirituale.
La Monarchia di Dante non si diffuse solo presso i filosofi, anzi divenne - secondo la testimonianza di Boccaccio - addirittura il vessillo teorico dell'imperatore Ludovico il Bavaro. La personalità stessa di Dante, infine, offriva alimento alla polemica politica; secondo una leggenda, egli aveva complottato al fianco dei Visconti per uccidere il papa, ricorrendo addirittura a pratiche magiche. Per questo insieme di ragioni il trattato dantesco divenne il baluardo forse più conosciuto delle istanze avverse a Giovanni XXII e quindi il bersaglio principale delle argomentazioni di G. in difesa del pontefice. Tuttavia, la risposta che egli predispose non segue l'argomentare del trattato dantesco per concentrarsi invece su un unico nodo teorico, la determinazione dell'origine dell'autorità imperiale, tralasciandone le implicazioni di carattere filosofico.
Il De potestate, edito da Del Ponte (1971, pp. 1020-1094), è suddiviso in diciotto capitoli e affronta i temi essenziali all'argomentazione antimperiale, discutendo, con rigoroso metodo scolastico, le opinioni contrarie: la Chiesa come unica depositaria della salvezza e delle due spade, simbolicamente raffiguranti il potere temporale e lo spirituale; la sacralità della potestas pontificia. Nel cap. XIII G. discute l'affermazione risolutiva, secondo la quale al principio del mondo "aut nulla fuit electio Regis de jure, aut fuit ex sacerdotis auctoritate" (ibid., p. 1021).
Secondo una parte della critica, gli indiretti richiami alla Monarchia e l'altezza cronologica del De potestate, da circoscrivere intorno alla seconda decade del Trecento, fanno dell'opera di G. il trattato politico che inaugura la polemica antidantesca, e che dunque si colloca in un periodo precedente al De reprobatione Monarchiae compositae a Dante, composto da Guido Vernani tra il 1327 e il 1334, cui fece seguito la condanna al rogo del trattato pronunciata dal cardinale Bertrand du Poujet.
Richiami a Dante si colgono anche al di fuori dell'opera politica. Messo in ombra il suo nome, infatti, la Commedia viene evocata da G., con spirito scettico e incredulo: a colpire la frugale immaginazione di G., in ossequio alla più rigida ortodossia, è la forza del poema e la laicità del suo autore, capace di spingersi oltre i limiti imposti all'intelletto umano, fino a mettere in rima il fondo dell'universo. È quanto si legge in effetti nella dedica al pontefice: l'intelletto umano, definito "improbus et inquietus" tenta, sfidando le sue stesse forze, di "tocius mundialis machine rimari"; "aliquis humanitus sapiens" innalza lo sguardo verso i "Dei secreta" e, senza timore, "disputat enim et disserit de summi Pontificis potestate" (ibid., p. 1020).
Nel secondo trattato, sempre dedicato a Giovanni XXII e intitolato De excellentia principatus monarchici et regalis (interamente pubblicato in Delorme, pp. 226-244), G. si misura con il tema del principato, cui afferma d'essersi risolto dopo aver a lungo osservato la condizione dell'Italia, particolarmente ferita da guerre intestine e dal continuo incremento degli infedeli laddove si estendevano i territori sottoposti al dominio imperiale.
Ciò non accadeva, secondo il suo parere, in quella parte d'Italia dove egli aveva avuto i natali ("in quibus originem traxi", ibid., p. 227): Genova era entrata a far parte dei territori angioini dal 1318 e vi sarebbe rimasta per circa vent'anni.
L'opera è suddivisa in quattro capitoli: dopo aver elencato e descritto i tipi di principato (monarchico, aristocratico, politico), chiamati "modi regendi, quibus gubernatur res publica" (ibid., p. 228), G. passa a dimostrare che il principato regale è il migliore e che nella maggior parte dei casi esso si è rivelato più efficace se ereditario. L'elezione viene riservata invece a colui che sia preposto al governo di un principato aristocratico o politico (quest'ultimo è da intendersi come militare o bellico). Con le uniche eccezioni di questi due tipi di principato, dunque, la successione è da preferirsi all'elezione.
Nel predisporre le sue argomentazioni, G. propone esempi e ragionamenti concepiti nel clima della corte napoletana di re Roberto d'Angiò, dove la tesi della supremazia della discendenza ereditaria era sostenuta con forza per le evidenti implicazioni favorevoli alla dinastia. Anche in questo trattato, perciò, G. preferisce concentrarsi su un'unica, centrale argomentazione: dimostrare che la via ereditaria garantisce continuità riducendo notevolmente il periodo dell'interregno che, in caso di elezioni, invece, si troverebbe a essere prolungato da eventuali discordie.
L'increscioso esempio imperiale, che vedeva di continuo sorgere feroci contrasti tra gli elettori, che erano principi e prelati, si configurava come inoppugnabile ("Regnum diu vacare et esse sine rege, sicut patet de rege Alemanie", Fedele, p. 272).
Particolarmente grave doveva apparire la situazione dell'Impero in quel delicato frangente: il trattato fu infatti composto quasi certamente prima del 1330, data cui risale il definitivo riconoscimento dell'autorità di Ludovico il Bavaro.
Dall'essere il trono imperiale troppo spesso vacante discendeva la rovinosa condizione di tutti i territori italiani che gli erano sottoposti, mentre ciò non accadeva nel Regno stabile e sicuro di Roberto. Il caso imperiale non presentava meri risvolti dialettici; serviva anche, in modo diretto, al progetto politico più ambizioso concepito da Roberto d'Angiò.
Consolidando una politica già intrapresa dai suoi predecessori, che erano stati sempre fieramente avversi all'universalismo imperiale, egli vagheggiava la nascita, anche in Italia, di un Regno unito e forte proprio in virtù dell'indipendenza dall'Impero. La linea di Roberto si indirizzava in senso opposto a quella sostenuta da Dante nella Monarchia, favorevole all'ingresso dell'Italia nella sfera imperiale. Il nome di Dante, dunque, tornava, anche per questa via, a rappresentare il principale avversario delle posizioni ideologiche di Guglielmo.
La data e il luogo di morte di G. sono ignoti.
Fonti e Bibl.: P. Fedele, Per la storia del De Monarchia, in Giorn. stor. della letteratura italiana, LVI (1910), pp. 271 s.; R. Caggese, Roberto d'Angiò e i suoi tempi, II, Firenze 1930, p. 390; F.M. Delorme, Fratris Guilelmi de Sarzano Tractatus de excellentia principatus regalis, in Antonianum, XV (1940), pp. 221-244; M. Maccarrone, Dante e i teologi del XIV-XV sec., in Studi romani, VII (1957), pp. 20-23; N. Matteini, Il più antico oppositore politico di Dante: Guido Vernani da Rimini. Testo critico del "De Reprobatione Monarchiae", Padova 1958, pp. 39 s.; R. Del Ponte, Un presunto oppositore della "Monarchia" dantesca: G. da S., in Omaggio a Camillo Guerrieri Crocetti, Genova 1971, pp. 253-269; R. Del Ponte - O. Capitani, Il "Tractatus de potestate summi pontificis" di G. da S., in Studi medievali, s. 3, XII (1971), pp. 997-1094; A. Vallone, Antidantismo politico nel XIV secolo, Napoli 1973, pp. 75 s., 110; J. Miethke, Ein neuer Text zur Geschichte der politischen Theorie im 14. Jahrhundert: der Tractatus de Potestate summi Pontificis des Guillelmus de Sarzano aus Genua, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, LIV (1974), pp. 509-538; A. Vallone, Il pensiero politico di Dante dinanzi ad A. Trionfi e a G. Vernani da Rimini, in Atti del Convegno internaz. di studi danteschi… 1971, Ravenna 1979, pp. 173-201; L'État Angevin. Pouvoir, culture et societé entre XIIIe et XIVe siècle. Actes du Colloque international…, Rome-Naples… 1995, Roma 1998, ad ind.; Enc. dantesca, III, p. 314; Rep. fontium historiae Medii Aevi, V, pp. 327 s.