DELLA PORTA, Guglielmo
Figlio dello scultore Giovanni Giacomo e di una Caterina, nacque a Porlezza probabilmente attorno al 1515 (Gramberg, 1964, p. 109); pronipote di Antonio detto Tamagnino e cugino in secondo grado di Giovanni Battista e di Tommaso il Giovane, ebbe almeno una sorella, Marta, che sposò lo scultore Niccolò Longhi.
Che il D. sia figlio di Giovanni Giacomo e non nipote, come risulterebbe dal Vasari (1568) e da un documento romano (Bertolotti, 1881, I, p. 134), è attestato non solo dai numerosi documenti genovesi in cui viene detto "figlio di Giacomo", ma anche dal fatto che Niccolò Longhi, in un contratto del 1536, è chiamato genero di Giovanni Giacomo (Alizeri, V, 1877, p. 193) e cognato del D. nel testamento dello stesso, del 1558 (Bertolotti, 1881, II, p. 307).
Cresciuto ed educato verosimilmente a Milano, in una lettera autobiografica indirizzata probabilmente all'Ammannati, alla fine del settimo decennio (Gramberg, 1964), il D. ricorda "Girolamo Tudolo detto Fantino, mio primo maestro, huomo singolarissimo" nelle arti e nelle scienze, che lo introdusse alle glorie di Roma antica e moderna. Oltre a questo non si conosce nulla circa la sua formazione. Ebbe comunque un'educazione classica, superiore nel complesso a quella degli altri membri della sua famiglia. Ricevette i primi insegnamenti nel campo della scultura probabilmente nella bottega milanese di suo padre.
Non ci sono documenti che attestino l'attività del D. a Milano: la prima notizia si trova in Vasari ([1568], VII, p. 422), il quale afferma che, dopo aver ritratto "con molto studio ... le cose di Lionardo da Vinci" a Milano nel 1531, andò a Genova con il padre, quando questi venne "chiamato là a fare la sepoltura di San Giovanni Battista" e che, avendo fatto "benissimo" uno dei sedici lati dei basamenti (si tratta di un grande baldacchino marmoreo con quattro piedistalli, ognuno con quattro lati scolpiti, soprastante l'urna con i resti del Precursore nella cattedrale di S. Lorenzo), "gli furono fatti fare tutti gli altri". Non esistono documenti per questo elaborato baldacchino, soltanto un'iscrizione attesta che l'opera fu terminata nel 1532 per conto di Filippo Doria. Tuttavia, secondo le fonti, gli elementi decorativi del monumento sono di Niccolò Da Corte, che fu socio dei due Della Porta dalla fine del 1532. Pertanto la critica attuale ritiene che i tre artisti furono responsabili per l'esecuzione del monumento fra il 1530 (quando Niccolò aveva già ricevuto altri incarichi per S. Lorenzo) e il 1532 (cfr. Roli, 1966, pp. 210 ss., n. 20; Kruft-Roth, 1973, pp. 926-34).
Tra il dicembre 1532 e il 1534 la bottega, così costituita, accettò altri incarichi nelle persone di Giovanni Giacomo e di Niccolò Da Corte: il D. evidentemente non figurava in quanto non aveva ancora l'età sufficiente (cfr. Varni, 1866, pp. 61 ss., Alizeri, 1877, pp. 155-166; Klapisch-Zuber, 1969; Kruft-Roth, 1973, p. 925). È invece esplicitamente nominato in un documento del 23 dic. 1534: si tratta del contratto per il completamento del Monumento sepolcrale di Giuliano Cibo vescovo di Agrigento in S. Lorenzo, che doveva essere pagato in parti eguali al D., al padre e a Niccolò Da Corte (Varni, 1866, pp. 63-65).
La cappella Cibo, il più grande e più importante monumento genovese di quegli anni, è un notevole complesso marmoreo di nicchie, colonne, rilievi e sette figure a grandezza quasi naturale; altre due figure, rappresentanti il Vescovo Cibo giacente e un Ecclesiastico in preghiera, che attualmente fanno parte del complesso, furono probabilmente aggiunte in una ristrutturazione posteriore al 1537 (vedi per la questione: Kruft-Roth, 1973, pp. 914-919). Resta insoluto il problema dell'attribuzione delle statue e dei rilievi malgrado i numerosi studi in proposito (Pope-Hennessy, 1963, III, pp. 96 s.; Roli, 1966, Rp. 209-20; Kruft-Roth, 1973, pp. 920-24). E certamente un'opera di collaborazione, ma sembrano riconducibili al D. la figura drammatica di Abramo, quella giacente del Cibo, di finissima fattura, e forse parte di altre figure come la testa di Mosè.
La bottega Della Porta continuò ad accettare commissioni: nel marzo 1536 per una fontana a piazza Nuova (Varni, 1866, pp. 68 S.); nell'aprile e agosto dello stesso anno è documentata la produzione di alcune membrature architettoniche per il palazzo di Alvaro da Bazán a Granada (Alizeri, 1877, pp. 228 s., 231); nell'aprile 1537 gli artisti ricevettero un pagamento per una statua di Ansaldo Grimaldi (ibid., p. 203), che fu in realtà terminata molto tempo dopo dal solo Giovanni Giacomo. I documenti genovesi contengono numerosi altri riferimenti al D. ma solo come socio di Giovanni Giacomo (Kruft-Roth, 1973, pp. 952 ss.).
Oltre a questi lavori di collaborazione altre opere gli sono state attribuite: quattro sono annoverate dal Vasari; in Soprani-Ratti (1768, pp. 408 ss.) ne sono menzionate altre due di cui non si ha più notizia e infine Gibellino Krasceninnicowa (1944, p. 105) ne elenca ancora tredici. Di queste, alcune sono opera di Giovanni Giacomo, alcune sono scomparse da lungo tempo (la fontana di piazza Nuova, una piccola statua di S. Barbara, il portale di palazzo Carrega, un bassorilievo del Redentore alla porta Acquasola, la fontana per Andrea Doria, una Cerere per Ansaldo Grimani); altre ancora, come la S. Caterina già nella porta Acquasola e ora nell'Accademia di belle arti, ricordata anche questa dal Vasari, sono di qualità mediocre e di incerta attribuzione. Il Venturi (1937, p. 536) ha attribuito al D. e a Giovanni Giacomo le figure sui palazzi Lanfranco Cicala, in via degli Orefici, e Doria, a piazza Principe.
Il Vasari (VII, p. 423) asserisce che studiò con Pietro Buonaccorsi detto Perin del Vaga, e nella "vita" di questo (V, p. 366) dice che il D. era "stato già seco a Genova e molto amato da lui, avendogli già voluto dare la sua figliola per donna" (ma quest'ultimo fatto non è documentato).
Perino giunse probabilmente a Genova nel 1528 per decorare il nuovo palazzo di Andrea Doria a Fassolo; le affermazioni del Vasari e la chiara influenza del Buonaccorsi sullo stile più tardo del D., specialmente nei disegni, hanno indotto a ritenere che almeno una parte della decorazione a stucco all'interno del palazzo sia opera del D. (è stata ipotizzata l'attribuzione al D. della sala degli Eroi: cfr. Kruft-Roth, 1973, p. 935). Dal momento che la bottega Della Porta aveva avuto l'incarico di eseguire le porte e le cornici delle finestre nel palazzo, durante il soggiorno di Perino, è molto probabile che il D. abbia avuto l'opportunità di studiare i suoi disegni e i suoi affreschi e di entrare in contatto con lui. P possibile che egli abbia lasciato Genova alla volta di Roma con Perino, o spinto da lui, dal momento che scompare dai documenti genovesi dopo l'aprile 1537, malgrado il suo nome compaia il 30 apr. 1538 nell'atto di rinnovo della società (Alizeri, 1877, pp. 193-95), di cui faceva parte anche il cognato Niccolò Longhi, che avrebbe più tardi lavorato con il D. a Roma.
La prima notizia dell'attività del D. a Roma risale al maggio 1546; questa lacuna di nove anni è solo in parte colmata rispettivamente dal Baglione (1642, p. 151, il quale asserisce che fu incaricato da Perino di eseguire (attorno al 1538) gli stucchi della cappella Massimo (distrutta) nella chiesa di Trinità dei Monti, e dal Vasari (VII, p. 423), che annota che nel 1537 Giovanni Giacomo raccomandò il D. al suo amico Sebastiano Luciani detto del Piombo a Roma, "acciò esso il raccomandassi come fece a Michelagnolo ... ; il quale ... veggendo Guglielmo fiero, e molto assiduo alle fatiche, cominciò a porgli affezione, et innanzi a ogni altra cosa gli fece restaurare alcune cose antiche in casa Farnese, nelle quali si portò di maniera, che Michelagnolo lo mise al servigio del papa [Paolo III]". Probabilmente ambedue i fatti sono veri (malgrado non ci sia alcuna relazione documentata fra Giovanni Giacomo e Sebastiano del Piombo) e il D. doveva impiegare il proprio tempo in parte lavorando come stuccatore, in parte restaurando e copiando le statue antiche.
La prima attività documentata del D. a Roma si svolse al servizio del papa, che tra il 1544 e il 1547 si serviva di Perino nella decorazione del suo nuovo appartamento in Castel Sant'Angelo. Nell'agosto 1546 fu pagato scudi 46,50 per un busto di completamento alla testa, antica, di Antonino Pio,collocata allora nel cortile del castello (oggi nel Museo naz. di Castel Sant'Angelo: vedi, per tutta la questione, Gaudioso, 1976, pp. 19, 50 n. 28, 61 [docc. 47, 50, 51] 121 n. 23); in dicembre ricevette un acconto di 20 scudi per restaurare un Cupido di marmo e "fare un ritratto del papa" (D'Onofrio, 1978, p. 316); un anno più tardi, il 9 dicembre, ricevette la stessa cifra "per [un] ritratto che lui a da fare di metallo di N. S." (ibid., p.317; non è chiaro però se si tratta di un ritratto solo o di due differenti).
Il D. lavorò anche per un altro progetto di Paolo III: la decorazione della sala regia, già iniziata da Perino intorno al 1542: nel maggio 1546 fu pagato 25 scudi "a buon conto della manifattura delle porte di marmi et pietre mischie" (Bertolotti, 1881, I, p. 132). Un'altra attività del D. durante i primi anni romani fu quella di allestire "carri della festa di Testaccio. Et in altre mascherate ...", come riporta il Baglione (1642, p. 151), seguendo il Vasari.
In quegli stessi anni, forse con il sostegno di Michelangelo e di Alessandro Farnese, il D. ricevette da Paolo III due incarichi che gli avrebbero portato inizialmente fama e fortuna.
Alla morte di Sebastiano del Piombo, il D. ricevette l'incarico papale di "custode del piombo", che comportava un salario annuo di 800 scudi e del quale il D. scriveva nel 1557 in una lettera al cardinale Farnese: "se il piombo frutase come era solito, 10 non domandaria mai dinari" (Borzelli, 1920, p. 12). Più o meno nello stesso periodo, gli fu commissionata la Tomba di Francesco de Solis, il vescovo spagnolo di Bagnoregio, morto nel 1545.
Il Vasari (VII, pp. 423 s.) afferma che Michelangelo mise il D. al servizio del papa, "essendosi anco avuto prima saggio di lui in una sepoltura... al vescovo Sulisse": annotazione che può spiegare come uno scultore sconosciuto, la cui unica opera in bronzo era stata il poco costoso ritratto papale del 1546, abbia poi ricevuto incarico per una tomba in bronzo lunga 3 m, alta 2 m, con otto rilievi, elementi decorativi elaborati e un'effigie del defunto. Il monumento de Solis è noto solo attraverso un disegno anonimo conservato a Torino, Bibl. reale (Gramberg, 1984, p. 360, fig. 88), che mostra come la base della tomba seguisse lo schema della tomba di Sisto IV del Pollaiolo e la figura del vescovo giacente ricalcasse quella della tomba Sforza del Sansovino in S. Maria del Popolo. L'effigie del defunto fu inviata in Spagna ed è oggi sulla tomba del vescovo Luis Torres a Malaga (Camacho Martinez, 1985, pp. 93-111). Della base, che Paolo III scelse per la propria tomba in S. Pietro, rimangono due dei quattro putti angolari, e quattro degli otto rilievi progettati con figure, tutti incorporati nella tomba papale; le altre parti furono fuse per fare la statua del papa.
Paolo III morì nel novembre 1549 e immediatamente dopo i cardinali si accordarono per una spesa di 10.000 scudi per la sua tomba, affidando l'incarico al Della Porta.
Da due lettere scritte da Annibale Caro (II, pp. 100-102, 104-107), nel 1550 (o 1551?) e nell'agosto 1551, sappiamo che il modello del D., che si era consultato con Michelangelo, doveva includere le figure in marmo di quattro Virtù e delle quattro stagioni. Queste figure, lunghe due metri, dovevano essere adagiate ai quattro lati di una "cappelletta" a se stante, contenente il sarcofago antico che era già stato scelto dal papa stesso. Otto "termini" avrebbero sostenuto la base in bronzo (proveniente dalla tomba di Francesco de Solis); al di sopra di tutto il complesso sarebbe stata posta la colossale statua bronzea del pontefice seduto come "pacificatore", alta più di 3 m. Due cose sono chiare: il disegno del D. per la tomba era molto vicino all'idea originaria di Michelangelo per la tomba di Giulio II e la descrizione del Vasari (VII, p. 187) della collocazione prevista e della reazione di Michelangelo sembra indicare che la tomba avrebbe dovuto essere messa proprio nella crociera. Non si sa se fosse realmente una questione di invidia come credeva il D. (ibid.), sta di fatto che né il primo grandioso progetto per la tomba di Paolo III né la sua presuntuosa collocazione furono realizzati. I lavori procedettero all'inizio abbastanza speditamente, come attestano i pagamenti registrati nel libro dei conti per gli anni 1550-1555 (Cadier, 1889, pp. 86-92). Una lettera del Caro al cardinale Farnese nel novembre 1553 descrive come il D. avesse scolpito la prima Virtù, la Giustizia: "con maraviglia di tutti che la veggono, perché non lavora a bozza, come i altri ma va scoprendo le membre finite; di sorte che pare una donna ignuda ch'esca da la neve" (Gramberg, 1984, p. 345). Nel corso dei lavori, e anche dopo che il monumento era pressoché finito, il D. continuava anno dopo anno a progettare per esso nuove aggiunte (Vasari, VII, p. 425; Gramberg, 1984, pp. 344, 347).
Nel frattempo Paolo III aveva avuto una sepoltura temporanea in S. Pietro, mentre la statua di bronzo era stata posta a parte nel giugno 1559 (Borzelli, 1920, p. 14) "sotto i primi archi che reggono la tribuna del nuovo San Piero" (Vasari, VII, p. 425). Nel 1574, i vari elementi furono finalmente messi insieme e nell'agosto di quell'anno il D., felice, scriveva al cardinale Farnese: "... in paradiso si potria avere più bel loco, ma nel mondo non più che quello che si è avuto et è resuscitata la statua principale et il restante in modo che ognuno resta meravigliato et contento" (Gramberg, 1984, p. 348). Dopo diverse collocazioni all'interno della basilica di S. Pietro (Vasari, VII, p. 425; Borzelli, 1920, pp. 13 s.; Siebenhüner, 1962, pp. 265-268; Gramberg, 1984, pp. 348, 356), nel 1629 la tomba fu sistemata nella sua attuale collocazione nell'abside, di fronte all'Urbano VIII del Bernini; le figure della Pace e dell'Abbondanza furono portate nel salone di palazzo Farnese, mentre sono scomparse l'iscrizione, lo stemma, due putti e la maggior parte del basamento.
Nell'anno 1550, proprio mentre iniziavano i lavori della tomba di Paolo III, il D. era stato incaricato da papa Giulio III, per conto dell'ambasciatore spagnolo, di progettare un monumento in onore di Carlo V.
Doveva raffigurare l'imperatore a cavallo, in una statua bronzea grande quanto il MarcoAurelio,con quattro province - Italia, Sicilia, Germania e Africa - impersonate da figure femminili in atto di obbedienza ai suoi piedi, il tutto sopra una base "historiata et figurata di pregionii in segno di. Victorie". Questo progetto era stato abbandonato per "la mutation di tempi"; da due lettere del 1559-60 (Gramberg, 1964, p. 120) risulta che il D. aveva un'altra versione da offrire (più grande e più imponente): un tempietto isolato, del diametro di 12 m, decorato dentro e fuori con "istorie" e sormontato dalle figure dell'imperatore, delle province e dei prigionieri. Le "istorie" dovevano essere quattordici Scene della Passione di Cristo, i cui modelli, cominciati quattro anni prima, dovevano essere quasi finiti e pronti per essere fusi in bronzo in bassorilievi di m 1 × 2.
Neppure questo secondo progetto del' monumento a Carlo V fu realizzato, ma le Scene della Passione nel corso degli anni seguenti furono offerte dal D. a vari personaggi (da Paolo IV a Cosimo de' Medici, dal cardinal Farnese, al suo amico G. Dosio, al re di Spagna) per diverse utilizzazioni (tra l'altro per le porte o per un altare in S. Pietro) e nei materiali più svariati (cfr. Bertolotti, 1881, I, pp. 135, 142; II, pp. 103 s.; Gramberg, 1964, pp. 54-56, 103 s., 107 s., 118-124; Valone, 1977, pp. 243-255). Inoltre molte delle singole scene (in particolare la Pietà)furono riprodotte più volte prima e dopo la morte del D., in placchette di materiali e misure diverse, la cui paternità è spesso discussa (cfr. Verheyen, 1969; Gabhart, 1968-69; Middeldorf, 1977).
Durante il pontificato di Giulio III (1550-1555) non risulta che il D. abbia ricevuto incarichi a eccezione di una fornitura di marmi, nel giugno 1553, per villa Giulia (Lanciani, III, 1907, p. 19). Secondo il Vasari (VII, p. 187), l'idea di una tomba a parete in S. Pietro per Giulio, corrispondente a quella di Paolo III, dovette essere abbandonata quando il D. si rifiutò di adottare il progetto di Michelangelo. Il pontificato di Paolo IV Carafa (1555-1559) fu di poco più produttivo sebbene fosse cominciato in modo promettente: i Romani, grati per l'eliminazione di una tassa sulla carne, volevano una statua del papa sul Campidoglio e il D. ne ricevette l'incarico, ma questo fu revocato, secondo il D., da Michelangelo "con alcuni altri de larte" (lettera al cardinale Farnese, 1565-1569 c.: cfr. Gramberg, 1964, pp. 120 s.).
Un'altra sconfitta risale al primo mese del pontificato di Paolo IV, quando il D. ricevette l'incarico per una grande statua (2,5 m) di S. Giovanni,che doveva essere collocata con altre quattro eseguite da Raffaello da Montelupo, Daniele da Volterra, M. Civitali e G. A. Sormani (Vasari, V, p. 23) su un nuovo portale per Castel Sant'Angelo. I marmi furono ordinati a Carrara, ma probabilmente il progetto fu modificato per via della guerra contro la Spagna; forse le statue non furono mai eseguite (D'Onofrio, 1978, pp. 296 s.), sebbene ci sia un pagamento al D. di 50 scudi nel gennaio 1556 e uno del 3 marzo in cui veniva annotato "quam sculpsit Carrarie" (Bertolotti, 1881, I, pp. 133 s.). Nella lettera già citata al card. Farnese il D. si lamentava perché durante il primo anno del pontificato di Paolo IV Michelangelo gli aveva impedito di gettare in bronzo i quattro profeti (da lungo tempo scomparsi) che erano nella cappella Paolina e di metterli nelle quattro nicchie principali di S. Pietro (cfr. W. Gramberg, G. D.s verlorene Prophetenstatuen für S. Pietro...,in Walter Friedländer zum 90. Geburtstag...,Berlin 1965, pp. 79-84).
Nell'ottobre 1556 il D. ricevette un acconto per l'esecuzione di candelieri per il papa (Bertolotti, 1881, I, p. 134): ci sono molti disegni per candelieri nel suo quaderno di schizzi (Gramberg, 1964, nn. 61 ss., 101, 217 s.) e molti sono quelli esistenti stilisticamente riconducibili al D., ma null'altro si sa della serie Carafa. Per altre probabili opere eseguite per Paolo IV, cfr. Gramberg (1964, pp. 78 s.). "Ultimamente", scrive il Vasari (VII, p. 426), il D. "ha condotto ... modelli di cera per tre altari di San Piero: Cristo deposto di croce, il ricevere Pietro le chiavi della Chiesa, e la venuta dello Spirito Santo", e il D. stesso, in una lettera all'Ammannati, scritta attorno al 1569, menziona i progetti per tre altari e per l'altar maggiore "dove celebra il Papa" (Gramberg, 1964, pp. 124 s.); nell'inventario dello studio del D., del 1578 (Bertolotti, 1881, I, pp. 142 s.) sono elencati due modelli in terracotta, una Pentecoste e una Consegna delle chiavi.
Le opere che il D. effettivamente eseguì durante i quaranta anni trascorsi a Roma furono soprattutto busti e ritratti funerari.
I più significativi fra i primi sono i busti di Paolo III; tre di questi, tutti in marmo, sono conservati presso il Museo di Capodimonte a Napoli e provengono dall'eredità Farnese: uno più piccolo, non finito e senza piviale, è probabilmente il ritratto per cui il D. fu pagato nel dicembre 1546, il secondo, perfetto, fatto con marmi di vari colori, alto 75 cm, con il volto del vecchio ed energico papa finemente modellato, potrebbe essere il busto di prova per la stavia della tomba, dato che i motivi decorativi del piviale sono uguali a quelli del ritratto bronzeo di S. Pietro; il terzo, non finito, è forse una copia del secondo, opera della bottega. Esistono anche un piccolo busto in bronzo (Amburgo, Museum für Kunst und Gewerbe), simile a quello di Capodimonte, per il quale probabilmente il D. fu pagato nel dicembre 1547 (Gramberg, 1959, lo data attorno al 1544; Id., 1984, pp. 317-319), ed almeno altre sette versioni conosciute (ibid.). Per le attribuzioni al D. di effigi tombali in cui il defunto è rappresentato o dormiente o sveglio, vedi, Baglione, 1642; Venturi, 1937, pp. 536, 557; Graniberg, 1964, p. 94.
Dal tempo del suo arrivo a Roma, da quando cioè, come racconta il Vasari (VII, p. 186; cfr. anche C. L. Frommel, in Le Palais...,I,1, 1981, p. 169), Michelangelo lo mise al lavoro per restaurare statue antiche a palazzo Farnese, fino alla sua morte, cinquant'anni più tardi, come si può vedere dagli oggetti elencati negli inventari della sua casa e del suo studio, il D. fu costantemente occupato a restaurare (spesso completandole) opere antiche, talvolta anche di sua proprietà, che di frequente rivendeva.
Già nel 1549-50 la sua collezione era citata dall'Aldrovandi (1562); nel 1550-53, il D. riceveva il permesso o il privilegio di eseguire, al Belvedere, "lavori di scalpello" e di raccogliere antichità; per la sua attività aveva bisogno di un gruppo di uomini, pagati 10 scudi al mese, alle sue dipendenze (Lanciani, 111, 1907, p. 38). Nel marzo 1551 una statua, chiamata la Bacchessa, dalla casa del D. fu portata a palazzo Farnese (Bertolotti, 1881, 1, p. 133); nel cortile dello stesso palazzo erano visibili, nel XVIII secolo, la Flora Farnese,tradizionalmente attribuita al D. e, ovviamente, l'Ercole Farnese;di quest'ultimo il Baglione racconta che dopo che furono ritrovate le gambe originali Michelangelo avrebbe detto che i restauri del D. erano di esse migliori (R. Vincent, in Le Palais..., I, 2, 1981, p. 337). Il D. fece disegni di sarcofagi presenti in altre collezioni, e ne ebbe almeno uno famoso nella sua, dove G. A. Dosi (il Dosio) dopo il 1560 vide un coperchio con un'Amazzonomachia (Bober,1986, pp. 178 s.); il D. aveva in mente di scrivere una guida che descrivesse anche le collezioni Della Valle, Cesi e Garimberti (Gramberg, 1964, p. 126).
L'esperienza diretta dei pezzi classici, soprattutto delle scene narrative sui sarcofagi, così come la conoscenza prima a Genova, poi a Roma di molti affreschi di Perin del Vaga di soggetto classicomitologico, misero in grado il D., una volta stabilito a Roma, di rifornire un vasto mercato di piccoli rilievi (di solito 15×22 cm) che, una volta disegnati, potevano essere modellati, scolpiti o fusi, con diverse destinazioni, in una grande varietà di modi e materiali.
A una serie di placchette di questo genere, illustranti le Metamorfosi di Ovidio, appaiono destinati moltissimi disegni contenuti nell'album di schizzi di Düsseldorf o conservati in varie raccolte; a un certo punto egli pensò di riunirli tutti insieme in un libro; in un secondo momento, nell'aprile 1575, pensò di trarne sedici "storie greche morali di argento et oro per adornamenti di tavole et di studioli" da offrire al re di Spagna (Gramberg, 1964, pp. 100, 108). I bozzetti in creta di questa serie (alcuni dei quali furono rubati nel 1586) furono utilizzati da altri artisti e artigiani, tra i quali Jacob Cobaert, aiuto del D. nel sesto decennio del secolo, la cui opera, insieme a quella di altri assistenti, soprattutto Antonio Gentili, è spesso confusa con quella del D. (Bertolotti, 1881, I, p. 143; Gramberg, 1960, p. 31 e passim; Masetti Zannini, 1972, p. 305).
Una serie intera di placchette con le Storie di Ovidio, otto ovali e otto ottagonali, si trova oggi a Vienna, Kunsthistorisches Museum (dalla collezione Este); altri notevoli esemplari sono ad Amburgo (Museum für Kunst und Gewerbe), Berlino-Dahlem (Staatliche Museen, sei pezzi in oro), New York (Metropolitan Museum), Londra (Victoria and Albert Museum), e presso i Musei Vaticani (Gramberg, 1968, p. 69 e passim; Middeldorf, 1976, p. 158).
Un altro tipo di oggetti portatili è costituito dai crocifissi in bronzo e argento, prodotti dal D. e dalla sua bottega in molte versioni; secondo l'inventario del 1577, per esempio, nella sua casa furono trovati sei gruppi di crocifissi, due dei quali di sette esemplari ognuno e uno addirittura di quaranta (Masetti Zannini, 1972, p. 303; per l'elenco degli esempi noti, i problemi e la bibliografla a riguardo, cfr. Gramberg, 1981).
Il D. si considerò architetto oltre che scultore: infatti 36 dei circa 200 disegni dei suoi quaderni di schizzi sono idee per costruzioni (piante più che alzati e palazzi più che chiese). Nel 1571 fu autore del progetto e incaricato di seguire la costruzione di un nuovo edificio per l'ospedale della Ss. Trinità a Roma (Masetti Zannini, 1972, p. 299); nello stesso anno sopraintese alla "fabrica nova" di Tor Pia (Lanciani, IV, 1912).
Nel maggio 1571 fece il progetto per un nuovo acquedotto per portare a Roma l'acqua del Salone (Acqua Vergine) e per un gruppo di nuove fontane, eseguite da Giacomo Della Porta; ma l'acquedotto, una volta costruito, perdeva acqua, tanto che dové essere rifatto (Pecchiai, 1944). Attorno al 1574 scrisse inoltre un "discorso per finire" palazzo Farnese, mettendo in evidenza la necessità di un cortile più grande, di logge, e di costi più bassi (Gramberg, 1964, pp. 100-102; W. Lotz, in Le Palais..., I, 1, 1981, pp. 232 s. n. 47). Uno dei suoi ultimi progetti (1574 c.), mai attuato, riguardava la ristrutturazione del Colosseo; per usarlo come granaio (Gramberg, 1964, pp. 111 ss.). Il D. visse in via Giulia almeno dal 1558, anno in cui elenca, nel testamento, due case in quella strada (Bertolotti, 1881, II, p. 303; Spezzaferro, 1973, pp. 424-430).
Nel dicembre 1548 fu nominato membro della Pontificia Accademia dei Virtuosi del Pantheon e nel 1550 ricevette la cittadinanza romana (Orbaan, 1915, pp. 24-27). Mantenne sempre una casa e della terra nel paese d'origine, a Porlezza, dove nel 1556 costruì una cappella, come attesta un'iscrizione che si trova ancora in loco; intorno al 1575 pensò addirittura di trasferirvisi e di portare con sé la collezione di modelli (Gramberg, 1964, pp. 109 s.).
Nel 1558 il D. era probabilmente malato, e certamente lo era nel 1560 (come risulta da una lettera di A. Caro, III); inoltre, in una lettera non datata, ma scritta nella primavera 1575, l'artista dichiarava "sonno stato in leto circha un mese, molto agaravato". Ciononostante, egli continuo a coltivare una grande quantità di progetti e di idee fino alla fine della sua vita (Gramberg, 1964, pp. 107, 110 s., 114).
Morì a Roma il 6 genn. 1577 e la sua casa fu inventariata prima del 5 febbraio dal figlio Fidia (Masetti Zannini, 1972, pp. 299, 303-305); un altro e diverso inventario venne fatto da Sebastiano Torrigiani, aiuto del D. e tutore di suo figlio Teodoro, nell'ottobre 1578 (Bertolotti, 1881, I, pp. 142 s.).
Tra i numerosissimi oggetti appartenenti alle case erano forme e modelli che divennero, in un noto processo intentato da Teodoro contro Antonio Gentili nel 1609, oggetto di disputa perché ne erano state fatte copie illecite (Bertolotti, 1881, II, pp. 120-161).
A quanto pare il D. ebbe quattro figli: Lisippo, che morì a sei anni e fu seppellito a S. Caterina della Rota; Mirone, nominato nel 1558 come vivente; Fidia, il maggiore, e Teodoro, per i quali due ultimi cfr. le voci in questo Dizionario. Non si conosce la madre di Fidia (forse la stessa madre di Lisippo?), ma sia Mirone sia Teodoro furono figli di Panfilia Guazzaroni, che di certo non era moglie del D. nel 1558, quando egli le lasciava 25 scudi "ultra eius salarium", e che, dopo la morte del D., sposò Sebastiano Torrigiani nel luglio 1577 (Masetti Zannini, 1972, p. 301).
Nel 1574 il D. aveva ottenuto da Gregorio XIII una bolla, riconfermata nel 1579, che lo dispensava dalla proibizione di lasciare i suoi beni agli eredi in quanto ecclesiastico, almeno nominalmente (Bertolotti, 1881, I, p. 141); il Gualandi (1845) ha pubblicato il passo del testamento del D. del 1577 in cui Teodoro viene nominato suo erede universale. Due testimoni al processo del 1609 dichiararono che il D. lasciò i suoi figli tanto ricchi che "vivevano d'entrata" (Bertolotti, 1881, pp. 139, 144). Questa ricchezza suscitò critiche; il Vasari (VII, p. 427), sottolineando che il D. non portò a termine nessun lavoro fra il 1547 e il 1567, dice che era usuale, per colui che occupava l'ufficio del piombo, di diventare pigro e infingardo; più tardi il D. scriveva al cardinal Farnese che "alcuni anni fa me dete una passata con dire ch'e io sonno rico e che poco me curo de larte", ma al contrario - replicava - egli pensava soltanto a servire Dio, l'arte e lo stesso cardinale e tutti i progetti non realizzati erano dovuti all'interferenza di Michelangelo (Graniberg, 1964, pp. 120 s.). Per la quantità dei suoi grandiosi ma non realizzati progetti (tombe per papi e imperatori, porte e altari, statue per S. Pietro) egli sembra un Bernini ante litteram ed è difficile capire perché. dopo un inizio così pieno di successi abbia poi concluso così poco.
Fonti e Bibl.: Non esiste una monografia sul D., pertanto per il suo periodo genovese cfr. Kruft-Roth 1973; per ulteriori esaurienti studi cfr. i saggi di Gramberg dal 1937 al 1984; in particolare lo studio del 1964 riguarda i due quaderni di schizzi, le lettere e le annotazioni raccolte da G. Ghezzi prima del 1721 con il titolo L'arte del disegno,conservati presso il Kunstmuseum di Düsseldorf. Cfr. inoltre U. Aldrovandi, Delle statue antiche ... [1562], in L. Mauro, Le antichità...,Venezia 1562, pp. 231 s.; G. Vasari, Le vite ... [1568], V, Milano 1964, p. 366; VI, ibid. 1964, pp. 408, 471; VII, ibid. 1965, pp.23, 186 s., 422-428; A. Caro, Delle lettere familiari,a cura di A. Greco, II, Firenze 1959, pp. 100 ss., 104-107, 164; III, ibid. 1961, p. 43; G. Baglione, Le vite...,Roma 1642, pp. 151 s.; F. Titi, Descrizione delle pitture...,Roma 1763, pp. 15, 109, 111, 265; R. Soprani-C. Ratti, Le vite ...,I, Genova 1768, pp. 408 ss.; G. B. 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