CASTELBARCO, Guglielmo di
Ultimo figlio di Azzone di Briano, nacque - ignoriamo esattamente quando - intorno al quinto decennio del sec. XIII, da nobile famiglia di feudatari della Val Lagarina.
La sua famiglia traeva nome da Castelbarco, rocca sull'Adige di cui appare insignorita già intorno al IM, ed era nominalmente vassalla della Chiesa di Trento, che ne aveva via via sanzionato con investiture e conferme l'espansione nella parte meridionale della valle. Tale rapporto feudale non aveva tuttavia impedito ai Castelbarco di ribellarsi. quando se ne era presentata l'opportunità, ai vescovi di Trento: lo stesso padre del C., Azzone, era stato tra i sostenitori trentini della politica di espansione al di là della Chiusa perseguita da Ezzelino III da Romano e, dopo la morte di costui, aveva favorito quella promossa, ai danni del vescovo di Trento Egnone di Appiano, dal conte del Tirolo Mainardo. Nel testamento da lui redatto poco prima di morire, il 7 lu, glio 1265 a Verona, nella casa dei figli in contrada S. Biagio, Azzone aveva diviso in parti eguali tra cinque dei suoi figli - Alberto, sacerdote e canonico della Chiesa veronese, Bonifacio, Leonardo, Federico e il C. - tutti i suoi beni, disponendo che non potessero venir alienati o in alcun modo dispersi. Al sesto dei suoi figlì di nome Abriano, che si era fatto monaco, aveva lasciato solamente un legato.Il nome del C. compare per la prima volta in un documento pubblico il 5 maggio 1266, quando i rappresentanti di numerosi villaggi della Val Lagarina si assoggettarono ai signori di Castelbarco, cedendo ad essi i loro possedimenti e rinunziando ai loro diritti su di essi. Nell'atto, che fu allora rogato, il C. ed i suoi fratelli Bonifacio, Federico, Leonardo risultano rappresentati da uno zio paterno, Federico, il quale agisce in solido con essi. Coinvolto nella lotta tra Mainardo e il vescovo Egnone di Appiano, il 7 apr. 1267 fu testimone della cerimonia ufficiale nella quale i sindaci di Trento consegnarono come indennizzo il castello del Buon Consiglio al conte del Tirolo, ma già nel 1269, migliorati - sia pure precariamente - i rapporti tra la Chiesa tridentina e Mainardo, Egnone, riaccostatosi ai Castelbarco, conferiva al C. - che insieme con lo zio Federico rappresentava anche i suoi fratelli - l'investitura dei beni ereditati dal padre (12 gennaio). L'anno successivo, di comune accordo, il C. ed i suoi fratelli procedettero - forse per evitare contese future - ad una divisione dei loro domini (14 dicembre).
Dall'atto di divisione risulta la ragguardevole estensione dei territori che formavano allora il dominio dei Castelbarco. Il primo gruppo includeva i loro possedimenti tra Avio, Ossenigo, Belluno, e il territorio di Verona; il secondo i territori sulla sinistra dell'Adige, con Lizzana e la Vallarsa; il terzo quelli sulla riva destra dell'Adige, con Ravazzone, Brentonico, Chizzola, sino a Torbole, a Nago e alle Giudicarie; l'ultimo era costituito dai feudi in territorio di Volano, Folgheria, Beseno, Garnigo, Trento e Pergine (G. Gerola, G. C., pp. 5 s.).
Nel dicembre del 1275 il C. viene ricordato, in un documento, tra i fedeli del nuovo vescovo di Trento, succeduto ad Egnone morto a Padova nella primavera del 1273, Enrico II, il quale il 25 maggio 1276 lo creò rappresentante della Chiesa tridentina nelle trattative avviate dal presule in vista di una pace col conte del Tirolo e con il Comune di Verona, suo alleato. Con lui Enrico nominava poco dopo mallevadori anche due dei fratelli del C., Leonardo e Federico. Nella sua nuova veste di rappresentante della Chiesa di Trento, il C. si trovava a Bolzano il 31 di quello stesso mese di maggio per seguire le trattative in corso, e il 1° di giugno assisteva all'investitura di Matteo nella signoria di Vanga, il borgo sorto nel secolo precedente nella parte settentrionale di Bolzano. Le trattative si conclusero con il trattato di Ulma del 21 luglio 1276, di cui peraltro non ci sono noti i termini. Riapertosi il conflitto, nel maggio successivo il C. e i suoi fratelli si schierarono dalla parte di Mainardo, che già il 27 di quello stesso mese riusciva ad impadronirsi di Bolzano. L'intervento dell'imperatore, cui Enrico si era rivolto per aiuti, portò il 3 novembre ad un nuovo accordo, che fu rotto subito dopo dal conte del Tirolo, cui si unì, ora, anche il Comune di Verona. Ottenuto l'appoggio della lega delle città guelfe capeggiata da Padova, il vescovo di Trento, scomunicati i suoi avversari, sostenne il loro urto sino al 1279, quando, grazie anche ai buoni uffici del vescovo di Feltre Adalgerio, riuscì ad indurre i suoi nemici a trattare. Il 9 ag. 1279 Bonifacio e Federico di Castelbarco si presentarono davanti ad Enrico e chiesero "humiliter ac devote", anche in nome del C., "beneficium absolutionis ab excommunicatione, quam ipse dominus episcopus tulerat in eosdem et sequaces ipsorum", ottenendo dal presule l'assoluzione dalla scomunica, in cambio della quale prestarono il giuramento feudale di fedeltà. Furono i primi ad acconciarsi alla pace. Il 13 agosto fu la volta di Mainardo. Verona Paccettò solo il 4 ottobre. L'esecuzione delle clausole dei trattato offrì il motivo a malumori e dissensi, che sfociarono in lotta aperta nel 1282: il C., ancora una volta alleato al conte del Tirolo, venne scomunicato dal vescovo di Trento. Una nuova tregua, di quattro anni, fu firmata il 29 marzo 1284.
Podestà di Verona nel 1285, fece costruire, a difesa dei confini di quel Comune, una fortezza che controllasse la chiusa dell'Adige. Nella primavera del 1288, morto nella città scaligera il podestà Giovannino Bonacolsi, veniva chiamato a succedergli il C., che rimase in carica sino alla fine del mese di aprile dell'anno successivo, quando rinunziò spontaneamente alla carica. Ignoriamo i motivi di questa decisione, che può forse venir spiegata da avvenimenti posteriori. Sembra infatti che intorno al 1295 il C. abbia dovuto difendersi da una congiura ordita dai suoi stessi fratelli.
Ignoriamo, per il silenzio delle fonti, i particolari e le motivazioni della oscura vicenda, che potrebbe tuttavia spiegarsi con la posizione di rilievo che il C., alleato ed amico del signore di Verona, Alberto Della Scala, aveva ormai assunto all'interno della famiglia. Avvisato da un informatore, il C. sarebbe riuscito a catturare i fratelli, mentre questi erano riuniti per un conciliabolo a Rovereto, nella casa del gastaldo, e li avrebbe fatti incarcerare. Avrebbe tuttavia finito per perdonarli restituendo loro la libertà.
Nel 1297 il C. dovette invece affxontare una rivolta dei figli di suo fratello maggiore Bonifacio, i quali, occupate le fortezze di Pradaia, Chiusole, Saiori, Baldo e Mori, avevano attaccato i castelli di Albano e Rogogone. Con l'aiuto di Bartolomeo di Alberto Della Scala, subito giunto in suo soccorso nella Valle Lagarina con un contingente di truppe veronesi (febbraio), il C. riuscì a domare la ribellione, rioccupando i territori e i centri perduti. Salito alla cattedra episcopale tridentina, il 31 luglio 1289, Filippo di Pinamonte Bonacolsi, il C. si vide costretto, suo malgrado, a rivedere la sua politica nei confronti degli Scaligeri. Appartenente alla celebre famiglia mantovana, il nuovo vescovo, fidando soprattutto sull'appoggio dei pontefice e dell'imperatore, in un primo momento, tra il 1289 e il 1299, aveva infatti cercato invano di trovare un accordo col conte del Tirolo, che occupava gran parte delle terre del vescovato, e la stessa Trento, ma, visti fallire i suoi tentativi di risolvere la questione negoziando, aveva deciso di usare la forza, e si era rivolto per aiuti a Mantova, dove il nipote Guido aveva conquistato la signoria coll'appoggio di Alberto Della Scala, e a Verona. Legato ai conti del Tirolo, il C. non poté fare a meno di venire coinvolto nel conflitto contro gli Scaligeri; e quando il vescovo Filippo Bonacolsi si decise finalmente all'azione e alla testa di milizie veronesi e mantovane risalì la Valle Lagarina riconquistandola sino a Rovereto (luglio 1301), nel corso delle operazioni militari il C. ebbe devastate e incendiate le terre di Ala e di Avio. La decisione con cui fu condotta la campagna convinse i conti del Tirolo e, i loro alleati a trattare. Grazie alla mediazione del vescovo di Coira il 24 dicembre di quello stesso anno anche il C. poté giurare la pace con i, Comuni di Verona e di Mantova, e con i signori di Arco, loro alleati. Essa prevedeva la restituzione di tutti i castelli, i luoghi e le terre, e i diritti loro annessi, appartenenti alla Chiesa tridentina che il C. aveva usurpato nel corso degli anni precedenti; dal canto loro gli alleati si impegnavano a far revocare il bando, con cui era stato colpito il C., per ordine di Bartolomeo Della Scala. Quest'ultimo provvedimento induce a ritenere che il C. avesse ottenuto la cittadinanza veronese.
Le relazioni tra il C. e la Chiesa di Trento rimasero, da allora, ottime: tanto che nel giugno del 1302 il C. venne investito dal Bonacolsi delle terre e del palazzo di mezzo del castello di Beseno. Negli anni successivi, ripresa, dopo la morte del vescovo Filippo (18 dic. 1303), la tradizionale politica di amicizia con Verona, il C. si dedicò soprattutto alla cura e all'amministrazione dei suoi feudi, che aveva notevolmente ingrandito o per diritto di successione - come quando raccolse l'eredità dei fratelli -, o per acquisto - come fu per i castelli di Beseno e di Pietra, comprati dai loro proprietari nel 1303-1304 -., o per spontanea sottomissione di Comunità, come fu per le località minori della valle. Il 19 febbr. 1307 assistette, insieme col nipote Aldrighetto, alla cerimonia nel corso della quale, innanzi al nuovo vescovo Bartolomeo Quinni, i conti del Tirolo giurarono di mantenere la pace nei confronti della Chiesa di Trento; il 6 aprile successivo il Quirini lo confermò nei feudi ereditati dal padre e dai fratelli in territorio di Avio, di Ala, di Brentonico, di Serravalle, di Lizzana, di Gardumo, di Castellano, di Presano, di Villa Lagarina, di Beseno, di Aldeno. Il 25 apr. 1308, insieme con il nipote Aldrighetto, il C. aderì alla lega difensiva stretta fra Ottone di Carinzia, suo fratello Enrico di Boemia, e i Comuni di Verona e di Mantova.
"Canis consiliarius onmisque cius fortunae consors", secondo la testimonianza di Albertino Mussato, che lo conobbe durante la sua prigionia vicentina, il C., fedele alla sua antica amicizia per i signori di Verona, fu accanto a Cangrande nelle operazioni militari che lo videro impegnato, tra il febbraio del 1312 e il febbraio 1318, nella lotta per la conquista di Padova. Sotto le mura e nel territorio di Vicenza con un suo contingente di truppa nell'estate-autunno del 1314, il 4 ottobre di quello stesso anno, insieme con lo Scaligero firmò la pace con Padova. Il 16 giugno 1314 Enrico di Metz, succeduto sulla cattedra tridentina a Bartolomeo Quirini, morto il 23 apr. 1307, confermò al C. i feudi già riconosciutigli dai suoi predecessori, comprendendo in essi anche Castelnuovo, Castelcorno e Dosso Maggiore, che il C. aveva acquistato dopo la scomparsa del Quirini. L'anno successivo lo creò capitano delle Giudicarie. Riapertesi le ostilità tra Padova e lo Scaligero nel dicembre del 1317, dopo la battaglia di Piove di Sacco, il C., alla testa di un corDo d'esercito di 500 fanti e di 50 cavalleggeri, il 10 febbr. 1318 si ricongiunse all'esercito di Cangrande sotto le mura di Padova, e due giorni dopo sottoscrisse anch'egli la pace tra Padova e il signore di Verona. Fu l'ultimo episodio della sua vita di uomo d'arme. Stanco e in età piuttosto avanzata, il C. si ritirò per sempre dalla vita politica. Moriva poco meno di due anni dopo, il 6 genn. 1320. Il suo corpo venne tumulato, così come aveva pre: scritto, a Verona, nel chiostro di S. Ana stasia, la basilica a cui aveva dedicato tante cure in vita.
Aveva sposato, nel settembre del 1297, una nobildonna vicentina, Speronella di Marcobruno dì Artuso Vivari, dalla quale non ebbe figliuoli. Speronella sopravvisse di poco al marito: il 31 luglio 1321, presentendo prossima la fine, dettò a Vicenza il suo testamento, nominando suo erede il fratello Alberto.
Del C. conosciamo il testamento, da lui redatto a Lizzana il 15 ag. 1319. Dopo le disposizioni particolari riguardanti le modalità secondo cui doveva svolgersi il suo funerale e il luogo nel quale doveva essere eretto il suo monumento funebre, e dopo tutta una serie di lasciti a diversi Ordini religiosi, a chiese e monasteri della Valle Lagarina, ai poveri (ai quali destinava la cospicua somma di 20.000 lire di piccioli), ed altri minori, il C. concedeva la libertà a tutti i suoi servi e alle loro famiglie, dichiarando di rinunziare ad ogni diritto sulle loro persone, perché "et sint et intelligantur esse cives Romani et liberi et ab omni servitutis vinculo liberati". Divideva quindi i suoi possessi ereditari tra i discendenti superstiti dei suoi fratelli Federico e Bonifacio. Ad Aldrighetto di Federico assegnava, sulla sinistra dell'Adige, tutta la parte superiore della Valle Lagarina, da Lizzana a Castel Beseno, con Terragnolo e Vallarsa; al pronipote Aldrighetto, figlio di Bonifacio di Federico, i territori sulla riva destra del fiume, da Gardumo a Villa Lagarina; all'altro nipote, Guglielmo, figlio di Azzone di Federico, lasciava tutte le terre a destra e a sinistra del basso corso dell'Adige, da Mori, Brentonico e Serravalle sino alla Chiusa. L'ultima, e più piccola parte, le terre e i feudi di Brentonico, assegnava a Giovanni, figlio di Briano di Bonifacio. Particolari lasciti legava alla moglie Speronella, a disposizione della quale metteva anche alcune rendite ed alcune terre, "ut ipsa habeat unde possit honorifice vivere et stare, et in vita et in morte".
Amante delle arti, il C. svolse, nel corso di tutta la sua vita, una intelligente e munifica opera di rinnovamento edilizio a Rovereto, a Trento, a Verona. A lui si deve il primo incremento di Rovereto, con l'ampliamento dell'abitato, la fortificazione della cittadella e, forse, con l'avvio della costruzione del castello. Nel testamento, fra l'altro, lasciò alla chiesa di S. Maria del Carmine "positam inter Roveretum et Lizzanam", ben 3.000 lire di piccioli, perché le fosse costruito accanto un monastero per otto francescani, che la officiassero. A Trento diede impulso ai lavori per il completamento della cattedrale finanziando e curando la costruzione della navata meridionale. Tuttavia l'opera non doveva essere ancora terminata quando egli morì, se, nel suo testamento, si preoccupò di lasciare "ecclesie beati Vigilii de Tridento" 5.000 lire di piccioli veronesi, "que debeant expendi in edificatione dicte ecclesiae". Lasciava inoltre la somma di 1.000 lire di piccioli per la costruzione - sempre nella cattedrale di Trento - di una cappella e di un altare, stabilendo una rendita perché vi venissero celebrate messe in suffragio suo e dei suoi. Cappella e altare - ora scomparsi - furono effettivamente terminati dai nipoti Aldrighetto e Guglielmo sul finire del 1319, come precisava un'iscrizione da essi fatta murare nelle pareti della cappella stessa. A Verona diede nuovo impulso ai lavori per la fabbrica della basilica di S. Anastasia, che segui con fervore fin dal 1307 C che all'epoca della sua morte dovevano essere assai avanzati. Ma il nome del C. è legato soprattutto all'ampliamento e alla ristrutturazione della basilica superiore di S. Fermo Maggiore, alla fabbrica della quale il C. destinò a più riprese somme ingenti, e perfino crediti che egli aveva a Firenze.
Già dei benedettini, nel 1216 S. Fermo era stata dal papa affidata ai francescani, ma solo nel 1312, grazie all'intervento di Ennco VII e dello stesso Cangrande Della Scala verosimilmente sollecitati dal C., il decreto pontificio era diventato operante. Da quell'anno la fabbrica della nuova chiesa prosegui senza sosta, grazie anche all'interessamento costante del Castelbarco. Nell'archisesto del coro è rappresentato il C. in ginocchio, di profilo, rivestito di una tunica e di un'ampia sopravveste rossa bordata di giallo, priva di maniche; sul capo, già bianco, porta un pesante berretto ornato di pelliccia. Tra le mani reca, come offerta votiva, la chiesa stessa di S. Fermo. Accanto a lui, lo stemma di famiglia e un breve distico ("Suscipe, Sancte Deus munuscula que pater meus/de mei fisco Guglielmus dat tibi Christo") ricordano ai fedeli la pietà del munifico committente.
Nonostante le cure dedicate a S. Fermo Maggiore, il C. aveva tuttavia scelto la chiesa di S. Anastasia come luogo presso cui erigere il suo monumento funebre.
Dopo la morte del C. la famiglia - come il suo stesso testamento determinava - si divise nelle quattro linee di Lizzana. di Avio, di Castelmiovo, di Brentonico, che non si fusero più. Secondo un'antica tradizione Dante avrebbe conosciuto a Verona il C. e sarebbe stato invitato da questi in Val Lagarina. Ospitato nei castelli di Avio e di Lizzana, da qui il poeta avrebbe ammirato la "ruina" di Marco, cui sembra riferirsi nell'Inferno (XII, vv. 4-6).
Della famiglia ricordiamo: il fratello Alberto, sacerdote, canonico della Chiesa veronese, citato per la prima volta il 29 maggio 1254; il 20 dic. 1268, in qualità di testimone, presenziò al trattato di pace tra il vescovo di Trento Egnone e Mainardo conte del Tirolo; era ancora vivo nel luglio 1284. Non deve essere confuso con il nipote Alberto di Rovoglione.
Bonifacio, anch'egli fratello del C., podestà di Verona nel 1269; nel 1281, mandato da Alberto Della Scala per chiedere ragione alla città di Trento di usurpazioni nel territorio veronese, venne imprigionato, ma fu liberato dal podestà Tagino Bonacolsi, che lo ricondusse a Verona. Aveva sposato una Zilia, da cui ebbe tre figli, Alberto, Briano e Aldrighetto, ancora minorenni nel 1294. Morì tra il luglio e il dicembre 1294. Non deve essere confuso con Bonifacio, figlio di Federico di Azzone, altro fratello del C., ancora vivo nel 1306; e nemmeno con un Bonifacio attivo nel 1265. che era probabilmente suo zio.
Alberto, detto di Rovoglione, figlio di un altro fratello del C., Bonifacio, creato cavaliere Pii nov. 1294 da Alberto Della Scala in occasione della pace seguita alla vittoriosa campagna contro gli Estensi, si ribellò nel 1297 allo zio Guglielmo di Castelbarco. Nel 1307 era a Ravenna come testimone di Guido Bonacolsi. Nel 1311 Enrico VII di Lussemburgo lo nominò vicario imperiale a Brescia.
Aldrighetto, che era figlio di Federico di Azzone, il nipote prediletto, fu costantemente a fianco del C. negli ultimi anni della sua vita. Il 15 nov. 1310 presenziò all'elezione di un procuratore che giurasse fedeltà all'imperatore Enrico VII, per Alboino e Cangrande Della Scala. Vicario imperiale a Vicenza nell'anno 1311, fu uno degli esecutori testamentari dello zio, e il capostipite del ramo dei Castelbarco di Lizzana; anche dopo la morte dello zio, Aldrighetto continuò la politica di alleanza con gli Scaligeri, tanto che Cangrande lo mandò come ambasciatore, insieme a Spinetta Malaspina e Pietro da Marano, per trattare ad Este, nel settembre 1320, la pace dopo la terza guerra contro Padova. Ebbe quattro figli: Federico di Gresta, Azzone e Guglielmino di Lizzana e Marcabruno di Beseno: i tre ultimi, il 27 nov. 1328, durante le feste per la conquista di Padova, vennero fatti cavalieri da Cangrande Della Scala, insieme a Guglielmo di Castelbarco della linea di Avio.
Aldrighetto, che era figlio di Bonifacio di Azzone, detto Brussamolin, pronipote del C. ed uno dei suoi eredi, venne creato cavaliere da Alberto Della Scala come il fratello Alberto nell'anno 1294; nel 1312 vendette beni in Pesina, dove abitava: non lo si deve confondere con il suo omonimo e contemporaneo Aldrighetto, detto Aldrighettino, figlio di Bonifacio di Federico. Federico di Gresta, che era figlio primogenito di Aldrighetto di Federico, il 24 gennaio del 1331 prestò 15.000 fiorini a Giovanni re di Boemia, figlio di Enrico, e ricevette in pegno, unitamente ai fratelli, tutta la riviera di Salò, Vobarno e il castello di Gavardo, che venne cosi sottratta alla città di Brescia.
Guglielmo della linea di Avio, figlio di Azzone, creato cavaliere da Cangrande nel novembre 1328, prese parte al colpo di mano che portò i Gonzaga a sostituirsi ai Bonacolsi nel dominio su Mantova. Aveva sposato nel 1319, a Mantova, Tommasina di Luigi Gonzaga. Dal giugno al settembre 1331 a Bergamo - quando la città cedette ai Visconti alleati degli Scaligeri - esercitò l'ufficio di vicario per Giovanni di Boemia. Si mantenne fedele - come gli altri Castelbarco - al partito lussemburghese anche negli anni seguenti; nell'agosto 1333 ospitò nel suo castello di Avio Carlo di Lussemburgo, il futuro Carlo IV. In quello stesso periodo venne costituito dal suocero Luigi Gonzaga procuratore presso il re di Boemia. Ebbe cinque figli: Aldrighetto, Alberto, Giancarlo, Francesco Leone, Azzone; e una femmina, Franceschina.
Fonti e Bibl.: G. Orti Manara, Cronaca inedita dei tempi degli Scaligeri, Verona 1842, pp. 6 1 ss.; F. Odorici, Storie bresciane dai primi tempi sino all'età nostra, Brescia 1856, VI, pp. 283 s.; Antiche cronache veronesi, a cura di C. Cipolla, I, Venezia 1890, pp. 396, 399; Henrici VII Constitutiones 1311, in Monum. Germ. Hist., Legum sectio IV, IV, 1, Hannoverae 1895, n. 579, p. 534; G. Dominez, Regesto cronol. dei documenti di Trento in Vienna, Cividale 1897, n. 423 nota; C. Cipolla, Documenti per la storia delle relaz. fra Verona e Mantova, in Misc. di storia veneta, s. 2, XII (1907), 1, pp. 265, 311, 443, 449; G. Gerola, Il testam. di Azzone Castelbarco 1265, estratto da Rivista tridentina, VIII (1909), 4; Cronica di Dino Compagni, in Rer. Ital. Script., 2 ed., IX, 2, a cura di Isidoro Del Lungo, p. 234, n. 2; B. Bonelli, Monumenta Ecclesiae Tridentinae, Tridenti 1765, p. 69; G. B. Verci, Storia della Marca Trevigiana, Venezia 1787, 111, doc. 239; C. Cipolla, Ricerche stor. intorno alla chiesa di S. Anastasia, in Arch. ven., XVIII (1879), p. 686; Id., Corrado II e Briano Castelbarco, in Archivio storico per Trieste, l'Istria e il Trentino, IV (1887), 1-2, p. 21; G. Gerola, Il castello di Belvedere, in Tridentum, II (1899), pp. 101, 208; R. Catterina, I signori di Castelbarco, Camerino 1900, passim;G. Gerola, G. C., in VII Annuario degli studenti trentini 1900-1901, Trento 1901, pp. 167-201; Id., I signori di Castelbarco, estratto da Tridentum, IV (1901), 3; Id., Sull'origine boema dei Castelbarco, estratto da ibid., 6; Id., Frammenti Castrobarcensi, estratto da Archivio trentino, XVI (1901), 1; XVII (1902), 2; XVIII (1903), 2; Id., Contributi alla storia fra i Casielbarco e gli Scaligeri, in Tridentum, VI (1903), pp. 54-63, 106-21; Id., Il carteggio dei Castelbarco coi Gonzaga nella seconda metà del Trecento, estratto dagli Atti dell'Accad. d'agr., scienze, lett., arti e comm. di Verona, s. 4, IX (1908); A. M. Allen, A history of Verona, London 1910, pp. 134, 144, 163, 177, 184, 206, 213, 215, 221 s., 258, 345, 363; W. M. Bowsky, Henry VII in Italy. The conflict of Empire and City-State, 1310-1313, LincoIn 1960, pp. 125, 144 s.; A. Bosisio, Il Comune, in Storia di Brescia, Brescia 1963, 1, p. 699; G. Zanetti, Le Signorie, ibid., p. 837; G. Panazza, L'arte gotica, ibid., pp. 897, 935; Encicl. dantesca, I, p. 863, s. v.