Guglielmo di Occam (o Ockham)
(o Ockham) Filosofo e politico (n. Occam, Surrey, fine sec. 13° - m. 1349 o 1350).
Entrato nell’ordine francescano, studiò a Oxford, dove nel 1319 era professore. In questo periodo si occupò particolarmente di problemi filosofici; accusato di eresia, dovette (1324) presentarsi alla curia papale, in Avignone, dove fu trattenuto per quattro anni; riuscito finalmente a fuggire, andò a Pisa con il generale dell’ordine, Michele da Cesena, in contrasto con il papa Giovanni XXII per la questione della povertà dell’ordine, e con il confratello Bonagrazia da Bergamo, presso Lodovico il Bavaro in lotta anch’egli con il pontefice. I tre frati, scomunicati, ebbero piena protezione dall’imperatore e si ritirarono a Monaco di Baviera, dove, in convento, G. scrisse i suoi trattati politici, a sostegno della politica dell’imperatore volta a svincolare l’autorità imperiale da quella del papato instaurandola sul consenso popolare. Al periodo di Oxford appartengono opere di argomento filosofico: Super quatuor libros Sententiarum; o teologico: Quodlibeta septem; Centiloquium theologicum; De sacramento altaris; Tractatus de praedestinatione et praescientia Dei; di argomento logico: Expositio aurea super artem veterem; Summa totius logicae; di filosofia della natura: Quaestiones in octo libros Physicorum; Summulae in libros Physicorum o Philosophia naturalis; Expositio super physicam Aristotelis. Al periodo di Monaco appartengono opere di argomento politico: Opus nonaginta dierum; Breviloquium de principatu tyrannico; Tractatus de dogmatibus Iohannis XXII papae; Compendium errorum papae Iohannis XXII; Tractatus contra Benedictum XII; Octo quaestiones de potestate papae; Defensorium contra Iohannem XXII; An princeps pro suo succursu, scilicet guerrae, possit recipere bona ecclesiarum, etiam invito papa; Epistola ad fratres minores in capitulo apud Assisium congregatos; De imperatoris et pontificum potestate. Il più importante dei suoi trattati politici è il Dialogus inter magistrum et discipulum de potestate papae et imperatoris.
G. pone al centro del suo pensiero la tesi dell’irripetibile individualità di ciascun essere, legata a una visione contingentistica che ha il suo ultimo fondamento nell’idea dell’infinita potenza di Dio. La realtà è tutta individuale e nessun universale esiste fuori dell’anima; né le idee platoniche, né l’aristotelico e tomistico quod quid est (essenza individuata fondamento oggettivo dei processi astrattivi), né le scotistiche formalitates; l’universale è quindi solo nel soggetto conoscente, operazione di classificazione degli individuali. Nella realtà individuale non v’è distinzione di essenza ed esistenza (sono soltanto due modi diversi di considerare lo stesso oggetto), né distinzione reale tra gli accidenti e la sostanza, essendo i primi modi di concepire la sostanza, e così per le relazioni che sono quindi oggetto della logica, non della metafisica. A questa concezione della realtà corrisponde una psicologia che riconosce il primato alla conoscenza intuitiva che ha per oggetto le cose stesse nella loro esistenza puntuale, e poiché le cose sono contingenti, anche l’ordine di verità cui appartengono le corrispondenti intuizioni è contingente; la conoscenza astrattiva è invece quella che prescinde dall’esistenza, o quella che raccoglie caratteri che paiono comuni a più individui (carattere quindi nominale e fittizio dell’universale, che non ha con gli oggetti né rapporti univoci né analogici). L’universale prodotto dal procedimento astrattivo è una suppositio simplex legata all’oggetto pensato; il termine invece che designa l’individuo una suppositio personalis; dottrina che va collegata con il valore meramente convenzionale del rapporto tra il termine del linguaggio e l’oggetto significato (suppositio materialis): questa complessa dottrina della suppositio e del signum avrà notevoli sviluppi nella logica della scuola occamista.
Questa concezione della realtà e questo modo d’intendere il processo conoscitivo hanno le loro corrispondenze nella teologia: cade il valore delle tradizionali prove dell’esistenza di Dio fondate tutte su un tessuto ontologico, che G. ritiene non valide o non conoscibili; neppure il principio di causalità può essere utilizzato nella prova dell’esistenza di Dio, non essendo possibile escludere un regresso all’infinito. Dio è solo oggetto di fede, e gli attributi divini sono nomi che attribuiamo allo stesso essere. Tra questi attributi G. sottolinea l’onnipotenza, che sta a fondamento di una concezione contingentistica in cui tutti gli esseri, le loro relazioni e gli stessi fondamentali principi logici ed etici dipendono dalla volontà di Dio.
Molte le critiche all’aristotelismo in ambito fisico: non solo viene positivamente valutato il conoscere intuitivo e sperimentale, ma anche a proposito di alcune dottrine fondamentali, è notevole il contributo di G. al superamento della problematica tradizionale. Si ritrovano, per es., nelle sue opere la teoria dell’impetus (che nega la dottrina aristotelica del movimento dei proiettili come mossi dall’aria circostante e ne attribuisce il movimento alla vis a essi impressa nel lancio) e la teoria dell’intensio et remissio formarum ridotta a termini nominalistici e in qualche modo sperimentali. La teoria dello spazio è connessa da G. al modo di rappresentare il corpo: lo spazio non è diverso dal corpo.
Questo complesso di dottrine porta a rivedere profondamente i rapporti tra filosofia e teologia: di quest’ultima è negato ogni valore speculativo e ogni possibilità quindi di usare nel suo ambito tecniche filosofiche: nella teologia è la fede il fondamento e la guida. Per converso, la filosofia, nel suo ambito, è autonoma. Tale autonomia di sfere si riflette anche nell’ambito politico come distinzione e autonomia di Chiesa e Stato, essendo la prima concepita da G. come società spirituale, sicché è negato al papa ogni intervento nel dominio politico. Grande figura di pensatore, G. segna uno dei momenti culminanti della crisi della cultura e della società scolastica quale si era affermata nel corso del 13° sec.: per molti aspetti egli avvia un orientamento di pensiero che avrà larga influenza nei secoli seguenti.
È così chiamato il principio di cui G. fa grande uso, e cioè pluralitas non est ponenda sine necessitate ponendi, o anche entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem; tale principio indica un canone metodico di semplificazione.
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