EMANUEL, Guglielmo
Nacque a Napoli il 27 apr. 1879 da Giovanni, piemontese, uno dei più famosi attori di teatro dell'Ottocento, e da Vittorina Nebuloni. Iniziò la sua carriera giornalistica alla Stampa di Torino, allora diretta da A. Frassati, dopo aver lavorato come assistente di chimica all'università di Torino (si era laureato in chimica). Nel gennaio del 1906 abbandonò il quotidiano piemontese per entrare come redattore nel Corriere della sera di Luigi Albertini, e subito, dopo un mese, venne inviato dal giornale alla conferenza internazionale sulla prima crisi marocchina che si tenne ad Algeciras dal 16 gennaio al 7 aprile e che aveva come scopo precipuo la risoluzione delle gravi tensioni tra Germania e Francia e delle conseguenti minacce al sistema di equilibrio europeo.
Lì conobbe il futuro ministro degli Esteri Carlo Sforza, allora agli esordi della sua carriera diplomatica come assistente di E. Visconti Venosta, con cui avrebbe intrattenuto rapporti di collaborazione sino al secondo dopoguerra.
La sua presenza alla conferenza diplomatica come primo incarico di rilievo assume un significato simbolico nella carriera giornalistica dell'E., che andò sempre più specializzandosi sui temi della politica internazionale e cui furono poi affidati compiti che esulavano da quelli strettamente cronachistici, propri piuttosto della diplomazia parallela svolta dal Corriere albertiniano.
Alla fine della conferenza in Spagna l'E. partì per Londra come corrispondente del Corriere (anche se la nomina formale gli giunse soltanto all'inizio di dicembre), in sostituzione di Pietro Croci inviato a Parigi.
I primi anni di lavoro nel Regno Unito furono caratterizzati da parecchie difficoltà, sia d'ordine tecnico per l'inoltro degli articoli a Milano, che furono in parte superate dall'installazione del servizio telefonico per comunicazioni a grande distanza nella stessa abitazione dell'E., sia d'ordine più strettamente editoriale. L'E. doveva infatti occuparsi di tradurre articoli interessanti pubblicati dai quotidiani inglesi, e soprattutto dal Daily Telegraph, e di inviare al Corriere pezzi cosiddetti di varietà sulla vita londinese, evitando quanto più possibile commenti dichiaratamente politici. Ma, nonostante la fedeltà alla linea politica voluta da Albertini, la sua forte propensione verso la schietta analisi degli avvenimenti da un posto d'osservazione privilegiato come la Londra di inizio secolo non poteva talvolta non scontrarsi con essa, tanto da causare da parte della redazione milanese pesanti tagli - o addirittura la non pubblicazione - di molti dei suoi articoli.
Nel luglio del 1907 fu inviato all'Aja per seguire la conferenza sul disarmo, mentre durò dal giugno al dicembre 1910 la sua permanenza a Buenos Aires. Il soggiorno argentino fu considerato dall'E. una esperienza del tutto negativa dal punto di vista giornalistico, nonostante fosse stato lui a proporlo ad Albertini per seguire una analoga iniziativa del Times, che in quel periodo stava dando molto spazio alla situazione sudamericana. Il suo compito doveva esser simile a quello londinese: descrivere la vita argentina attraverso articoli di varietà, da lui considerati impossibili da scriversi. Sarebbero stati più adatti alla situazione del paese, invece, quelli di vera e propria indagine sociale, cui però il Corriere non era interessato.
Dopo un breve periodo di malattia trascorso in Italia l'E. riprese il suo posto a Londra nel febbraio 1911. Nel frattempo Albertini stava modificando la linea editoriale del giornale e aveva cominciato a richiedergli elzeviri politici in contemporanea con il prospettarsi del conflitto italo-turco e con la posizione decisamente favorevole all'impresa libica da parte del Corriere.
Ma l'atteggiamento censorio del governo italiano verso la stampa relativamente alla pubblicazione di molte notizie inerenti l'impresa di Libia, da un lato, e la posizione fortemente antitaliana dei giornali britannici, dall'altro, crearono non pochi problemi al lavoro dell'E., che rimproverava al Corriere la mancanza di una linea coerente e a G. Giolitti l'incomprensione del supporto positivo che la stampa avrebbe potuto dare alla sua politica, se solo essa non avesse dovuto soggiacere alla stretta censura che le impediva di rispondere con informazioni di prima mano alle frequenti notizie manipolate o addirittura false, pubblicate sui quotidiani esteri.
Alla fine di dicembre di quell'anno l'E. venne comunque inviato al Cairo per seguire da vicino la situazione in Tripolitania, cui il giornale dedicava larghissimo spazio. Lì ebbe modo di osservare la posizione dell'Egitto verso l'Italia e di ottenere informazioni preziose sull'evolversi del conflitto sia attraverso un cancelliere del consolato italiano al Cairo, sia attraverso un medico del Consiglio quarantenario, che proprio per il suo incarico era al corrente di tutti i passaggi di navi dal canale di Suez.
Nel marzo del 1912, fallita una sua missione a Massaua per intervistare l'ldrissi a causa dell'intervento delle autorità, l'E. si accingeva a fare ritorno in Italia quando ricevette il contrordine dalla direzione del Corriere, che intendeva inviarlo in Grecia in previsione dell'occupazione italiana dell'isola di Rodi e del Dodecaneso. L'E. istituì subito contatti con un quotidiano ateniese onde assicurare i servizi per il Corriere con testimoni oculari che potessero sorvegliare eventuali operazioni militari in Egeo. Col ministero degli Affari esteri greco aveva inoltre preso accordi per venire in possesso dei dispacci ufficiali cifrati che provenivano dai consolati delle isole egee, di Smirne, di Salonicco e dei Dardanelli.
Nei mesi di permanenza ad Atene l'E. organizzò un giro nelle isole per effettuare dei servizi fotografici e scrisse tre articoli servendosi delle confessioni di un personaggio turco, Nikolaides. Così come quella degli altri suoi colleghi, la situazione dell'E. in Grecia non fu delle più facili, poiché sulla questione dell'occupazione delle isole non si avevano da parte del governo delle direttive ben chiare. Egli tentò comunque di seguire gli avvenimenti successi a Sira il 18 luglio 1912, raggiungendo avventurosamente l'isola alcuni giorni dopo: in quell'occasione si rammaricò delle agevolazioni riservate all'inviato della Stampa, G. Bevione, dal colonnello G. Ameglio, allora comandante delle forze d'occupazione dell'Egeo.Nell'ottobre raggiunse Ouchy per assistere alla firma del trattato di pace italo-turco in sostituzione di Luigi Barzini, e fece quindi ritorno a Londra dove riprese il normale lavoro di corrispondenza per il quale spesso gli giunsero critiche da parte dei fratelli Albertini, che gli rimproveravano una sostanziale pigrizia nella ricerca di notizie interessanti che non fossero quelle rintracciate sui quotidiani inglesi.
Dal 1914 l'attività dell'E. nella capitale britannica coniugò le esigenze giornalistiche con il lavoro paziente di raccordo tra la politica albertiniana del Corriere, la rappresentanza diplomatica italiana e i circoli dirigenti di Londra. Concorde con l'avvicinamento dell'Italia alle potenze dell'Intesa, anzitutto alla Gran Bretagna, e con la linea interventista del giornale, l'E. non soltanto inviò sin dal 1915 a Luigi Albertini relazioni sull'atteggiamento britannico nei confronti dell'impegno italiano nella prima guerra mondiale, ma si interessò anche dei problemi inerenti il lavoro di propaganda che il Corriere avrebbe potuto svolgere in proposito, in mancanza di una precisa linea governativa.
Questo fu anche il suo principale interesse durante il periodo che trascorse sotto le armi, dal settembre 1916 sino agli inizi del 1917, quando ebbe il congedo col grado di sottotenente di complemento del genio.
Al fronte egli lavorò presso l'ufficio bollettini e comunicati del comando supremo, sotto il tenente colonnello Foschini: dopo il suo arrivo - come testimonia egli stesso - "fu possibile intensificare la diramazione all'estero di note ufficiose e di pubblicazioni intese a valorizzare il nostro sforzo militare", nonostante esse dovessero subire una lunga trafila burocratica per avere l'approvazione diretta della presidenza del Consiglio a Roma.
Tornato a Londra nel febbraio 1917, continuò a esercitare pressioni quotidiane sia sui responsabili dei maggiori organi di stampa britannici, soprattutto dopo il disastro di Caporetto per smorzare le dure critiche rivolte all'alto comando militare, sia sugli esponenti politici per far comprendere la necessità di armamenti e di aiuti economici da destinare al fronte italiano. Ma da quello stesso anno, e sino alla conclusione del trattato di Rapallo, gli sforzi dell'E. si concentrarono sulla questione iugoslava, nucleo centrale della "politica delle nazionalità" propugnata da Luigi Albertini per l'area balcanica e iniziata col congresso delle nazionalità oppresse dell'aprile 1917.
Esprimendo il suo totale dissenso sulle rivendicazioni territoriali fatte dall'Italia col patto di Londra, l'E. sottolineava invece - già durante il conflitto - come fosse necessario per l'Italia porsi nella veste di difensore delle popolazioni slave ancora sotto dominazione asburgica. Con tale posizione partecipò insieme con esponenti politici iugoslavi a varie riunioni londinesi organizzate dal direttore del Times H. W. Steed, di cui era nota la tendenza filoslava, e fece nel contempo presente direttamente a Orlando l'opportunità di modificare il pacchetto delle richieste italiane alla conferenza della pace.
Fu perciò inviato dal Corriere a Versailles nel 1919, a dirigere l'ufficio corrispondenza, e a Parigi - dove sposò Nelly Capocci - rimase in pratica tutto l'anno, se si prescinde da due brevi viaggi a Londra nel mese di dicembre, continuando ad avere contatti dietro le quinte con le varie delegazioni presenti alla conferenza. Nell'aprile 1920 fu inviato a San Remo in occasione degli incontri italo-iugoslavi sulla questione adriatica.
Nel giugno 1920 l'E. venne trasferito all'ufficio corrispondenza di Roma, in sostituzione di Giovanni Amendola, ma mantenne anche il suo incarico di osservatore della politica estera italiana, assistendo alle conferenze internazionali che ebbero luogo in quel periodo, prima a Spa nel luglio, poi a Parigi, a Cannes nel gennaio 1922 e a Genova nell'aprile dello stesso anno. La sua libertà d'azione a Roma subì profonde modificazioni con l'avvento al potere di Mussolini, vista la sua fedeltà alle posizioni assunte dal Corriere e personalmente da Luigi Albertini, e già nel 1923 la polizia fascista cominciò a interessarsi di lui e della sua famiglia, seguendone tutti gli spostamenti.
I fratelli Albertini ebbero a lagnarsi più volte della sua gestione in quel periodo dell'ufficio romano del giornale, accusando l'E. sia di scarso rendimento sul lavoro sia di non assumere atteggiamenti più prudenti nei colloqui telefonici, oramai controllati dalla polizia, e nei commenti politici, che spesso suscitavano lamentele da parte del regime.
Il suo convinto antifascismo lo portò a seguire, insieme con altre voci autorevoli del giornale quali A. Tarchiani, L. Einaudi, F. Ruffini, A. Monti, F. Parri, A. Rossini e L. Magrini, l'uscita degli Albertini dal Corriere, cui inviò la sua lettera di dimissioni il 30 nov. 1925. Egli rimase comunque a Roma, subendo le vessazioni del regime. Dal febbraio 1927 sino al 1929 scontò due anni di ammonizione politica come antifascista "perché ritenuto pericoloso per l'ordine nazionale dello Stato", che diede poi luogo a una ininterrotta vigilanza da parte della polizia politica sino al 1935. Ciononostante, non smise mai di esercitare l'attività giornalistica, questa volta come corrispondente italiano per un'agenzia di stampa statunitense, l'International News service, e per una londinese, la Daily News, che gli consentiva si di fare frequenti viaggi su tutto il territorio nazionale ma che gli costò nel contempo due diffide nel 1932 per aver comunicato all'estero notizie allarmistiche sulla situazione politica ed economica dell'Italia. La sua condizione di vigilato antifascista migliorò, in ogni caso, nella seconda metà degli anni Trenta, tanto che nel 1936 gli fu concesso sia di esercitare la sua attività drammaturgica come autore di pièces teatrali, sia di riottenere il rilascio del passaporto per viaggi in Francia, Austria e Ungheria.
Nel 1943 riprese il suo posto come corrispondente romano del Corriere della sera, ma dall'armistizio dell'8 settembre sino alla liberazione di Roma del giugno 1944 dovette rimanere nascosto in città, perché ricercato con un mandato di cattura dalla polizia repubblichina. Dal giornale, controllato ormai de facto dalle autorità naziste, era giunta la diffida a ripresentarsi e la comunicazione che non gli sarebbe stato più corrisposto lo stipendio. Alla fine del conflitto divenne direttore del quotidiano napoletano di tendenze monarchiche Il Giornale, sino a quando - il 7 ag. 1946 - non venne chiamato a ricoprire la stessa carica per il Corriere della sera, in sostituzione di Mario Borsa. La sua designazione fu senza dubbio di carattere politico, avendo l'E. una posizione estremamente moderata che ben si attagliava alla linea politica che gli editori intendevano imporre al giornale. Nonostante le sue palesi simpatie monarchiche, l'E. vantava un passato di sincero antifascista che lo metteva al riparo da qualsiasi accusa proveniente dalla Sinistra e dagli ambienti progressisti, consentendogli nel contempo di spostare l'indirizzo del Corriere verso una linea più centrista.
L'allontanamento di Mario Borsa e la scelta dell'E. suscitarono non poche polemiche nel mondo giornalistico e politico italiano, tanto da far scendere in campo gli stessi protagonisti che si scambiarono accuse reciproche e risposte pubbliche nel novembre 1946. I sei anni nei quali egli diresse il quotidiano milanese furono gli stessi nei quali il Corriere assunse quella funzione di sostegno della politica della Confindustria, in certa misura parallela a quella governativa soprattutto nelle scelte internazionali, e di indirizzo di un certo settore dell'opinione pubblica. Ripresero proprio in quegli anni gli stretti contatti con Carlo Sforza, divenuto nel frattempo ministro degli Esteri, cui spesso vennero concesse le colonne del Corriere - più o meno direttamente - per perorare la linea occidentale e quindi atlantista dell'esecutivo. Fra i collaboratori più illustri del Corriere guidato dall'E. furono i corrispondenti a New York, Ugo Stille, e a Parigi, Guido Piovene, oltre a Indro Montanelli, Alberto Moravia, Vitaliano Brancati, Eugenio Montale. Il suo periodo di direzione del quotidiano ebbe termine il 14 sett. 1952.
Da quel momento in poi l'E. si interessò dei suoi hobbies preferiti, come la pittura, allestendo mostre personali a Milano, Roma, Napoli e Oslo. Dal 1956 al 1959 ricoprì poi la carica di presidente del prestigioso Circolo della stampa di Milano.
Morì la sera del 17 giugno 1965, nella sua casa di Roma, dove sei giorni prima era stato colpito da una trombosi cerebrale cui erano sopraggiunte complicazioni polmonari.
Fonti e Bibl.: Milano, Arch. stor. del Corriere della sera, buste Emanuel Guglielmo; Roma, Archivio centrale della Stato, Ministero dell'Interno, Casellario politico centrale, b. 1881, f. 9565; Dir. gener. Pubblica Sicurezza, Affari generali e riservati, 1934, b. 24. Parte delle lettere dell'E. e all'E. conservate presso l'Archivio privato Albertini sono state pubblicate in L. Albertini, Epistolario 1911-1926, a cura di O. Bariè, Milano 1968, ad Indicem; cfr. inoltre E. Decleva, Il Corriere della sera (1918-25), in 1919-1925. Dopoguerra e fascismo. Politica e stampa in Italia, a cura di B. Vigezzi, Bari 1965, pp. 235, 257; O. Bariè, Albertini, Torino 1972, ad Indicem; G. Licata, Storia del Corriere della sera, Milano 1976, ad Indicem; V. Castronovo, Stampa e opinione pubblica nell'Italia liberale, in Storia della stampa italiana, III, La stampa italiana nell'età liberale, Roma-Bari 1979, pp. 184, 186; P. Murialdi, La stampa quotidiana del regime fascista, ibid., IV, La stampa italiana nell'età fascista, Roma-Bari 1980, p. 44; Id., Dalla liberazione al Centro-sinistra, ibid., V, La stampa italiana dalla Resistenza agli anni Sessanta, ibid. 1980, pp. 204 ss., 214, 246. La sua testimonianza sul delitto Matteotti all'Alta Corte di giustizia il 3 genn. 1925 si trova in Il delitto Matteotti tra il Viminale e l'Aventino. Dagli atti del processo De Bono davanti all'Alta Corte di giustizia, a cura di G. Rossini, Bologna 1966, pp. 325-328.