FERRERO, Guglielmo
Nacque, di borghese famiglia subalpina, da Francesco e Candida Ceppi, il 21 luglio 1871, a Portici (Napoli), dove allora risiedeva suo padre, ingegnere delle Ferrovie.
Il padre era stato, in Torino capitale, compagno di studi e di leva di quel romagnolo argentino, l'ingegnere E. Rosetti, cognato di E. T. Moneta, che il F. conobbe a Milano nel 1897e gli fu poi sempre benevolo, massime durante le sue esperienze sudamericane, meritandosi così di essere assunto dal F. a protagonista, ed eloquente interprete, delle teorie filosofico-sociologiche di Fra i due mondi (Milano 1913,specialm. p. 65).
Erano cinque tra fratelli e sorelle; il quartogenito Felice diventò valoroso giornalista italoamericano, corrispondente da New York del Corriere della sera (morì l'estate del 1927: v. Carteggio ... tra L. Salvatorelli e G. Ferrero, p.21) e marito di quella Frances Lance, che tradusse vari scritti minori del F. nel volume Characters and events of Roman history (New York 1909).
La prima educazione scolastica del F. si svolse in Toscana. Naturale, pertanto, ch'egli s'iscrivesse nella facoltà di giurisprudenza dell'università di Pisa, dopo aver debuttato sedicenne con un articolo che gioverebbe riesumare, Il Consalvo di Leopardi. A proposito dell'ultima conferenza di G. Carducci, quella prosa romana del Jaufré Rudel,che suscitò gli entusiasmi di G. D'Annunzio e ispirò alla polemica A. Fogazzaro. L'anno dopo, ad aprile del 1889, il F., a Torino con un gruppo di condiscepoli, conobbe Cesare Lombroso, fu accolto nella sua casa di corso Oporto, come il F. medesimo rammentò nella più delicata e commossa delle sue pagine, la dedica di Liberazione,ultimo volume della tetralogia romanzesca (dicembre 1935), alla moglie, Gina Lombroso, appunto, conosciuta nel 1889 e sposata nel 1901. Lombroso tosto lo convinse a proseguire gli studi universitari a Torino, dov'ebbe insegnanti S. Cognetti de Martiis (che teneva anche corsi di storia del socialismo), G. Carle, G. E. Garelli della Morea, ecc. E dove si laureò nel 1891, con una apprezzatissima tesi, donde sarebbe uscito il suo primo libro: Isimboli (Torino 1893).
Se l'inteligencija torinese propendeva per il socialismo (Lombroso, A. Graf, E. De Amicis, e vi s'interessavano Cognetti e Garelli, ancor prima che si accompagnasse loro in facoltà di legge Achille Loria), il F. più impegnatamente propendeva per il radicalismo repubblicano, in cui lo confermò la quasi contemporanea esperienza bolognese, quale studente di lettere e direttore dell'Italiadei giovani, tra i mesi ultimi del 1889 e i primi del 1890. Vi sollecitò la collaborazione di condiscepoli torinesi (quali C. Treves, Z. Zini, ecc.), mentre acquistava rapidamente autorevolezza e rappresentatività nel mondo studentesco, quale affiliato (dal giugno 1888) alla Federazione democratica fra le associazioni studenti italiani, membro del comitato torinese "Pro pace et libertate" e tra i fondatori (primi mesi del 1889) dell'Associazione radicale universitaria.
Bologna fece il resto: anzi tutto il suo debutto "politico", alla commemorazione, in un teatro cittadino, del triumviro mazziniano Aurelio Saffi, e i suoi contatti e scontri con l'ambiente carducciano. Del Carducci il F. parlò e scrisse con reverenza, nonostante l'acceso africanismo e crispismo del maestro (si veda specialmente l'efficace ritratto in La guerra europea,Milano 1915, pp. 70 s.); ed è significativo che s'impegnasse, a marzo del 1891, seppure invano, per impedir l'inconsulta ma non ingenerosa "fischiata".
A Bologna si laureò in lettere nel 1893, quando, però, il suo destino già era segnato, non propriamente di letterato conforme ai moduli della scuola carducciana. Serra negò recisamente che il F. avesse mai "sentito né meno a fior di pelle l'influsso della scuola del Carducci" (R. Serra, Scritti, a cura di G. De Robertis - A. Grilli, II, Firenze 1938, p. 554).
Sotto la ferula di Lombroso, il F., convertitosi frattanto alla militanza socialista e dal 1891 collaboratore assiduo della Critica sociale, s'impegnava in ricerche di sociologia e di antropologia criminale, collaborava col maestro al volume (Torino 1893) su Ladonna delinquente e con A. G. Bianchi e S. Sighele (Milano 1893-95) al Mondo criminale italiano, una sorta di pendant giornalistico-praticoal problema teorico-sociologico della giustizia, cui voleva avviarlo il Lombroso, per l'applicazione delle sue teorie al diritto civile, anzi a tutto il diritto (come tardivamente confessò il F. medesimo al proprio genero B. Raditza; del quale si vedano i Colloqui con G. F., Lugano 1939, p. 27). Si formava, nel contempo, una solida cultura "positivistica": H. Spencer, G. Le Bon, R. Ardigò, ecc., non senza impazienze di riesumazione (ad esempio l'ingiustificatissimo ed iperbolico elogio di P. Marzolo nella prefazione a Isimboli).
Il positivismo del F. aveva, tuttavia, il suo lato buono, e ancor più il suo "lombrosismo", ch'egli interpretò non come una tecnica, uno strumento di rimedio pratico ai mali della società e dell'individuo (riforma carceraria e manicomiale, profilassi di malattie causate per gran parte dalla miseria o da cattive condizioni ambientali e sociali, la pellagra ad esempio, ecc.), ma, essenzialmente, come "la scienza dell'uomo", un tutto organico, che, applicato alla storiografia, importava il superamento del frammentismo filologico allora imperante e importava, altresì, un diverso, e migliore, orientamento della cultura universitaria, il trapasso da un esclusivo indirizzo "germanico" a un più libero e meno formalistico, e più "umanistico" indirizzo franco-inglese (con gl'inevitabili, ma tuttavia remoti, mutamenti d'indirizzo nell'ambito della politica italiana).
A novembre del 1893 partiva per Londra e vi soggiornava operosamente alcuni mesi. F. Turati per la Critica sociale e Treves per il torinese Grido del popolo non mancarono di sollecitargli subito articoli, informazioni, notizie, ritagli di giornale, statistiche sociali, ecc., per agguerrire la stampa socialista e orientare i compagni (si vedano, rispettivamente, Nuova Antologia, aprile-giugno 1982 [Lettere di Turati], p. 189, e la lettera del nov. 1893 presso A. Casali, C. Treves, I,pp. 60 s.).Ricco di esperienze e di nuove amicizie, forte soprattutto della stimolante conoscenza del primo laborismo britannico, in radice tanto diverso e dal socialismo italiano e dal modello germanico, perché individualistico assai più che non collettivistico e a larga base "religiosa", il F. tornò a Torino la primavera del 1894, giusto in tempo per essere coinvolto nella repressione crispina, la quale scioglieva le organizzazioni socialiste e ne deferiva gli affiliati ai tribunali.
Donde il processo (a Torino) del 14 nov. 1894, coimputati C. Treves, O. Morgari, G. Oggero e parecchi altri. Fu per gl'imputati e il partito un vero trionfo, non foss'altro per la presenza e le testimonianze a discarico di Graf, Lombroso, De Amicis, Corrado Corradino, ecc. Si concluse, però, con la condanna al domicilio coatto; per il F., due mesi in un borgo dell'alta Val di Susa, Oulx. La sentenza non poteva, tuttavia, divenir esecutiva che dal secondo semestre del 1895 e nel frattempo alcuni imputati, il F. e Treves per esempio, ebbero la facoltà di recarsi all'estero per motivi di studio (e per ragguagliar della situazione italiana l'opinione pubblica forestiera). Il F. e Treves partirono, quindi, per Berlino (donde procedettero a un'esplorazione sistematica dei paesi del Nord, il F. spingendosi fino a Mosca, dove fu ricevuto da L. N. Tolstoi, mentre in Scandinavia conosceva N. Nordenskjöld). Il soggiorno a Berlino permise al F. d'introdursi in ispecie nella casa e nel salotto politico d'un autorevole dirigente socialdemocratico e redattore del Vorwärts, il dottor Adolf Braun (e di stringere tenaci e durevoli vincoli di amicizia con la moglie, la quale, trasferitasi poi a Londra col secondo nome nuziale di Bertha Pritchard, fu negli anni Venti ospite frequente di casa Ferrero a Firenze e all'Ulivello, nonché assidua traduttrice in tedesco e in inglese delle maggiori opere coeve del Ferrero).
Tornato tempestivamente per rintanarsi nel domicilio coatto di Oulx, invidiatogli scherzosamente dall'amichevole ironia di Turati (Lettere..., p. 190), il F. ne profittò per la redazione, sul materiale accumulato durante il soggiorno all'estero (e in parte usato per varli "servizi" giornalistici), di quel suo libro (uscito, però, soltanto a primavera del 1897) che doveva creare (nella terminologia dell'amico G. Mosca) "il fenomeno Ferrero" e dar notorietà europea al suo nome: L'Europa giovane (Milano1897). inaugurando un lungo rapporto di autore-editore con la casa Treves. Tra il confino di Oulx e la pubblicazione dell'Europagiovane era,però, in qualche modo cambiata l'atmosfera politica italiana e quindi anche mutata la vita e l'attività del Ferrero.
Questi, difatti, oppositore fierissimo e vittima del "crispismo", non aveva esitato a redigere (in un primo tempo con l'assistenza occasionalmente editoriale del conterraneo ingegner Camillo Olivetti) un battagliero opuscolo (Torino 1895) Il fenomeno Crispi e la reazione, dove di Crispi si affigurava un ritratto non moralistico alla Cavallotti (quindi, senza retroscena di corte e d'alcova, cui credeva, e che rivelò, anche R. Bonghi) né poetico-risorgimentale alla Carducci, ma sociologico "cesaristico", lo statista siciliano incarnando, e forse al suo meglio, quel tipo di reggimento negativo, lo Stato ladrone ed elemosiniere, militaresco e classistico, ostile tanto all'organizzazione del proletariato quanto all'industrializzazione della penisola e alla conseguente formazione d'una moderna borghesia, che il F. avrebbe esemplato a contrario, cioè come tipico dei paesi "latini", in antitesi ai "paesi del Nord", nell'imminente Europa giovane.
Adua, il marzo 1896,trovò il F. in Francia. Nella sconfitta militare, che provocò il crollo immediato del governo Crispi, per l'abbandono del re e senza nemmeno uno straccio di spiegazione-dichiarazione in Parlamento, parve al F. conferma di quanto avevano previsto, desiderato e pubblicamente preannunziato egli, Turati e, in genere, i socialisti. I quali tutti, a prescindere da ogni giudizio sul problema dell'espansione coloniale in terra d'Africa, giustamente vedevano (come il F. in tarda età ribadi dopo la mussoliniana guerra d'Etiopia) un mero diversivo di politica interna.
Nell'Europagiovane abbondano le "grandi pagine" (trascelte dal F. medesimo in appendice ai Colloqui col Raditza), massime il racconto del viaggio in Russia; e abbondano le verità rivelatrici, massime sul cosiddetto nerzo sesso", cioè sull'operosità femminile in ambito professionale, impiegatizio e operaio, per sottrarre le donne così all'aggiogante inevitabilità del matrimonio e/o alla dipendente miseria del celibato per le ragazze senza mestiere e senza dote (il destino, spesso compianto dal poeta, di Maria Pascoli). E resta, quel libro, il prototipo e il modello (quando il "barzinismo" ancora non esisteva) del severo e informato, non meramente coloristico-descrittivo, reportage giornalistico, l'inizio d'un genos letterario, cui validamente contribuirono, nei primi tre lustri del nostro secolo, O. Malagodi e M. Borsa (entrambi amicissimi del F.), G. Prezzolini, G. A. Borgese e G. Bevione.
Uno dei temi suggeriti dall'Europagiovane fu quello i cui tratti salienti stranamente parve al F. riscontrare nella stessa Germania, della decadenza o desuetudine del militarismo. Donde, per un verso, le conferenze organizzate da E. T. Moneta, appunto sul Militarismo (Milano 1898), che il F. giudicava ormai un reliquato di popoli inferiori e "latini", mentre matura in Francia l'affaire Dreyfus e sono in armi gli Stati Uniti per togliere alla Spagna "colombiana", non senza le lacrime del povero Pascoli, Cuba e le Filippine, e l'Inghilterra si avvia al supremo cimento, ancor più politico e costituzionale, che immediatamente militare, della guerra boera. I problemi che insorgono e ne conseguono, che prima facie al F. sembrarono problemi "sociologici", come e perché grandeggino e lo declinino le nazioni, sono concreti, corpulenti, ineluttabili problemi di storia (epperò anche di storiografia): la pace e la guerra, il sorgere e l'amministrazione d'un impero plurinazionale e plurirazziale, come il britannico, il colonialismo e il mercantilismo, nonché, o soprattutto (crescit ocipulto velut arbor aevo...),il nuovo miracolo (che il F. fu tra i primi a intuire) della progressiva presenza, cioè della progressiva "europeizzazione", degli Stati Uniti.
Ora questi problemi hanno un antecedente storico, l'impero di Roma, la sua genesi, la sua organizzazione, la sua decadenza. All'impero di Roma, né solamente per ispirarsene, o per un orgoglioso confronto, hanno fissa la mira i classicistici proconsoli di Gran Bretagna, i Bryce, i Milner, i Cromer (e alla scuola di A. Milner si forma, nell'esperienza e nella pratica dell'amministrazione imperiale, il prossimo traduttore del F., sir Alfred Zimmern). Donde un nuovo, e tuttavia insoddisfatto, interesse europeo, anzi euro-americano, per la storia di Roma, insoddisfatto dalle quisquilie accademiche, dalle questioncelle erudite, dalle insufficienze patenti della storiografia filologica e del pirronismo demolitore.
Il F., cui non ha mai fatto difetto il senso e il fiuto del pubblico, cioè la consapevolezza dei bisogni intellettuali del tempo suo, avverte che è qui una lacuna da colmare, o da tentar di colmare. E intraprende a scrivere, a pubblicar nel secondo anno del secolo, Grandezza e decadenza di Roma.
Disse di avervi lavorato già "negli anni dei miei viaggi in Europa, tra il 1893 e il 1897": "io avevo studiato molto la storia greca e la romana, per certe ricerche che avevo allora in mente e che poi abbandonai" (La vecchia Europa e la nuova, Milano 1918, pp. 14 s.). Le ricerche allora intraprese erano, peraltro, di sociologia del diritto; quand'anche il F. medesimo stranamente confessasse di essersi accinto "a studiare la storia di Roma, se non per cercar di venire a capo del quesito che avevo tentato di sciogliere ... nell'Europagiovane: aquali segni si possa riconoscere se un popolo ascende o decade. Onde il titolo che l'opera porta in fronte". Il titolo, peraltro, mutuato al Montesquieu, già di per sé rivela il cambiamento che l'opera inavvertitamente subì negli anni della sua faticosa gestazione: "La storia di Roma, di mezzo e strumento ad una ricerca filosofica, divenne opera d'arte e fine a sé stessa".
Era, dunque, il ritorno alla storia; era l'avvento d'una nuova storiografia, d'una storiografia "reale", perché non meramente filologica, perché rispondente a un'esigenza morale dello storiografo e al bisogno, al sentire del tempo. Il "così detto gran pubblico", al quale Gaetano De Sanctis spregiativamente rimproverava di leggere e di amare l'opera del F. (Scritti minori,III, Roma 1972, p. 409), aveva più sensibilità e ragione degli accademici allarmati, stizziti e rumorosamente protestatarii. La rivendicazione, che il F. costantemente riaffermò, del carattere artistico della storiografia, della "sua" storia come un'opera d'arte, qui giustamente avvertendo, nel discorso fiorentino del 1910 (Colloqui, p. 112) "la vera ragione dell'accanimento con cui si tentò di screditare l'opera mia in Italia", la rivelava conforme alla crisi tanto della storiografia filologica quanto della storiografia "scientifica", sottraeva la storiografia alla scienza, cioè all'empirismo naturalistico, scioglieva il tragicomico dilemma di P. Villari, inaspettatamente ravvicinava l'opera stessa ai postulati rivoluzionarii di B. Croce, benché nel medesimo anno della risposta al De Sanctis il F. mostrasse riguardo e rispetto per la prolusione messinese di G. Salvemini, La storia considerata come scienza (Roma 1902). Nell'opera, quindi, se persiste increscioso l'inamabile gergo scientistico-positivistico, pur nella perfino soverchia leggibilità e scorrevolezza stilistica, gli uomini dei primi anni del secolo colsero e accolsero un segno, un prodotto, uno specchio del tempo, vi si ritrovarono con le proprie passioni e ambizioni, con i loro problemi e propositi di avanzamento sociale e di battaglia politica, siccome la generazione romantico-postquarantottesca si era ritrovata agevolmente nella Römische Geschichte di Th. Mommsen.
Il F. non ha mai rivelato il metodo delle sue ricerche, i modi della sua preparazione "erudita"; la quale certo non mancò e lo provano la bibliografia, i continui riferimenti alle "fonti", le appendici e le note, insomma tutto l'"apparato" scientifico. E fu assai più facile contestarne il metodo, le conclusioni e le idee che non i piccoli particolari, gl'inevitabili errori di lettura o di citazione (cfr. C. Barbagallo, L'opera storica di G. F., Milano 1911, pp. 171 ss., specie pp. 175 s.).
I cinque volumi (che nella più corretta e completa versione francese divennero sei; e questo, fra parentesi, rende assai arduo e pressoché insolubile il problema dell'eventuale ristampa, scomparse, assai probabilmente perdute, le note, le aggiunte, gli avvertimenti del F. al suo traduttore) narrano, dopo alcuni capitoli d'un faticoso, e dall'autore medesimo poi contestato o deplorato, proemio, i cento anni dalla morte di Silla alla morte di Au' gusto: e sono, in sostanza, una storia sociale. In ultima analisi, come ai nostri giorni propugnano R. Syme e E. Badian, una storia della classe dirigente cui la rivoluzione postgraccana, cesariana e triumvirale porta progressivamente il potere, alla nobilitas senatoria tradizionalistica, fondiaria, militare, e insomma "politica", sostituendosi una borghesia italicoprovinciale, non politica, mercantilistica e non militare, sebbene ovviamente desiderosa di raccogliere i titoli e le funzioni dell'antica nobilitas, cioèdi dar vita a una "nuova" nobilitas,che dalle province migra e sciama nella metropoli e si conquista sovente il trono dei Cesari.
Se per questo sostrato o sottofondo "sociale", per questo livellamento e abbassamento degli "eroi", Cesare in ispecie, si direbbe che il F. anticipi l'odierna storiografia britannica, per la rivalutazione di Ottaviano restauratore della res publica e conquistatore d'un potere, assoluto bensì ma non cesariano, quantunque fondato sui due cardini della tribunicia potestas e dell'imperiumproconsulare maius, che gli guarentiscono lo ius agendi cumpopulo e il controllo totale delle milizie, il F. anticipa l'antimommsenismo di Ed. Meyer e colma la tremenda lacuna in cui precipitò appunto il Mommsen, incapace d'intendere e di narrare il trapasso dalla "perfezione" di Cesare alla modestia, o mediocrità, del suo erede.
È, inoltre, merito insigne del F., per i suoi tempi un'assoluta novità, l'aver costruito un'opera unitaria e integrale, non, come usava, una storia meramente, o prevalentemente, politico-militare, cui si affiancano distinti e quasi distaccati capitoli di storia della cultura, delle arti e delle lettere, dell'economia e della civiltà. Orazio e Virgilio, Lucrezio e Cicerone, invece, sono per il F. gli elementi e gl'interpreti della società in cui vivono e per cui scrivono (donde la splendida rivendicazione antimommseniana di Cicerone homme de plume e praeceptor Europae, ilprimo, forse, degli uomini che fanno storia con la propria attività letteraria: la storicizzazione del fatuo cedant arma togae...). Il F. ha rivendicato, altresì, per la conquista cesariana delle Gallie, l'occidentalismo, o l'occidentalizzazione, dell'impero di Roma, pur travagliato dalla duplice tendenza contraddittoria orientalistico-grecizzante e occidentalistico-senatoria, che riflette nella stessa domus Augusta e nella famiglia del Princeps le tensioni economico-sociali della metropoli, i nuovi gusti e i nuovi ricchi.
Nonostante le astiose critiche, quasi esclusivamente italiane (perché i maggiori dotti stranieri, Ed. Meyer, F. J. Haverfield, C. Jullian, ecc., sempre trattarono il F. col rispetto dovuto ad un pari), l'opera (che doveva giungere, né mai giunse, fino alla morte di Nerone, e alla quale il F. variamente contribui con articoli e discorsi monografici, per lo più in lingua straniera, tranne il tardo volumetto Le donne dei Cesari Milano 1925, del quale J. Carcopino ebbe a lodare la "rare pénétration" (Passion et politique chez les Césars,Paris 1958, p. 86) ebbe un successo fantastico: fu letta, fu venduta, fu tradotta nelle maggiori lingue europee, fu ristampata anche nell'editiominor d'un'anglo-germanica monografia cesariana; suggerì all'Italia e fuori d'Italia un nuovo linguaggio storiografico. Anche per il neomommsenismo e neorenanismo dei traits modernes,consciamente ripresi e raggiustati dal F., non soltanto ad attualizzare l'antico, ma, e soprattutto, per una continuità ed una sfida. Il F., infatti, come si era tolto a modello antitetico la Storia del Mommsen, rivendicandone l'efficacia quando i dotti d'Europa concordi preferivano al Mommsen storico il Momnisen epigrafista ed erudito, il fondatore del Corpus inscriptionum Latinarum e l'autore del Römisches Staatsrecht, cosìamò di contrapporsi al maestro germanico nel severo necrologio che ne dettò per l'Illustrazione italiana (8 nov. 1903, pp. 378 s.).
Un articolo assai meritevole di attenzione (e di ristampa), ove avvertiva i punti deboli del gigantesco edificio, massime la celebrazione del grand dessein cesariano e l'infiefice formula della "diarchia" augustea, non celava il prevalere progressivo, nel Mommsen postunitario, della filologia sulla storia e fermo ne ribadiva l'antiromanità od antitalianità, raccordando così se medesimo e l'opera sua al carduccianesimo, ad una significativa tradizione antigermanica della cultura classica nostrale.
Dal 1897, quando, rifiutata l'offertagli direzione del Corriere della sera, ilF. iniziò la sua collaborazione al quotidiano radicale milanese Il Secolo,destinata a protrarsi per oltre venticinque anni, con diramazioni e ramificazioni presso la stampa d'Europa e d'America, mentre le riviste "letterarie" di Francia, d'Inghilterra e degli Stati Uniti venivano più e più sovente pubblicando anticipazioni od estratti dei suoi volumi, in ispecie la storia di Roma, questo fu, coerentemente, costantemente, il metron e l'impegno del Ferrero. Desiderò di contribuire, e in larga misura vi riuscì, a indirizzare verso la Francia e l'Inghilterra e, successivamente, le Americhe l'interesse, l'attività culturale, la politica del nostro paese, pur evitando d'impegnarsi troppo scopertamente per l'irredentismo e contro la Triplice (o i suoi rinnovi).
Le amicizie oltremontane di Lombroso gli avevano aperto le porte della Francia; gli avevano, quanto meno, facilitato l'accesso alle grandi riviste e ai suoi rappresentanti maggiori.
La storia di Roma, si disse, ebbe accoglienze caldissime in terra di Francia per l'esaltazione che della Gallia romanizzata si legge in quel libro. Dove, in realtà, e nonostante una severa polemica col maggiore nazional-celtista, C. Jullian, il F. con alto intuito storico avvertiva che la terra scelta da Cesare unicamente quale campo di battaglia per farvi preda e allestirsi un esercito perfettamente agguerrito e a lui personalmente devoto, strumento rivoluzionario per l'instaurazione d'un regime assolutistico personale, era destinata a divenire, sarebbe in meno d'un secolo divenuta, l'"Egitto dell'Occidente", un paese non pur florido, ricco e civile, ma l'asse dell'occidentalizzazione europea, la premessa medesima del perdurare europeo, dell'impero di Roma.
Né furono meramente i letterati, "il così detto gran pubblico", ad acclamare in Francia il F.: se accanto ai Rod e ai Dournic si noverano i Reinach e i Sorel, seppur non mancarono nemmeno oltre l'Alpe i filologi avversi, compiaciutamente riecheggiati con elogio dai "colleghi" nostrali. La Société des confèrences l'invitò già nel 1905 a parlar di Nerone, sollecitata in primo luogo da A. Sorel. Il negoziato con la Société des confèrences durò a lungo, perché il F. volle tenere la conferenza solo dopo la pubblicazione (e il successo) della versione francese del suo volume cesariano e perché, nel frattempo, analogo invito gli era pervenuto dall'università di Ginevra. Qui il F. parlò, in aula magna, il 17 marzo 1906, e pochi giorni dopo, il 27, comunicava a E. Rod "una grande gioia": il Collège de France gli affidava, sui fondi della fondazione Michonnis, un corso di sei-otto lezioni per il novembre successivo, mentre l'Académie Franose gli assegnava il premio Langlois.
Il corso al Collège de France (novembre-dicembre 1906) non fu senza domani se, durante il suo soggiorno a Parigi, v'incontrò Emilio Mitre, il proprietario dell'argentina Nación (della quale il F. era, da anni, attivo collaboratore). Mitre invitò il F. (accompagnato nel viaggio dalla moglie e dal figlioletto) a visitar l'Argentina e a tenervi una serie di conferenze di storia, di sociologia e di politica, prendendo contatto e con l'inteligencija locale e con l'emigrazione italiana. I Ferrero salparono per Buenos Aires il 7 giugno 1907; e, durante il viaggio e la sosta a Rio, il F. ebbe analogo invito dal ministro brasiliano degli Esteri, il barone de Rio Branco. La visita del Brasile ebbe luogo sulla via del ritorno. A fine novembre il F. era di nuovo a Torino, dove, alla metà del febbraio 1908, l'ambasciatore d'Italia a Washington, il barone E. Mayor des Planches, gli trasmise l'invito del presidente T. Roosevelt alla Casa Bianca e a conoscere gli Stati Uniti in una serie di lectures nelle maggiori città e presso le maggiori università. Donde la genesi dei due volumi Characters and events of Roman history (1909) e Ancient Rome and modern America (1914).
Mentre il primo riassume Grandezza e decadenza e ne prolunga il racconto fino alle Donne dei Cesari e a Nerone, il secondo, se, per un verso, anticipa le idee e la trattazione di Fra i due mondi (e vi accompagna altresì la disamina di tre processi "politici" in Roma antica, il processo di Verre, il processo di Clodio e il processo di Pisone, supposto "avvelenatore" di Germanico), è, per altro verso, notabilissimo nel tentativo non pur di scorgere nell'America plutocratica e "quantitativa" le vestigia e il permanere del retaggio dell'antica civiltà "qualitativa", ma, e soprattutto, d'inserire in questo programma e proposito di "neoclassicismo" etico-civile gli Stati Uniti, di mostrarli per ciò assai più prossimi all'Europa, assai più interessanti o impegnati nelle cose d'Europa che gli Europei non credessero.Intorno al 1910 ancor nessuno, neppure (o tanto meno) nell'ambito degli antichisti, conosceva l'America e i suoi studiosi, o conosceva quelli soltanto, ed erano in genere i più mediocri e pedissequi, che avessero studiato in Europa, cioè prevalentemente in Germania, e ne avessero importato i metodi e le idee dell'Altertumswissenschaft postmommseniana. Solo, o quasi solo, il F. si fece così mediatore fra i due mondi, acquistandosi un merito che non va in nessun modo dimenticato.
Il 21 aprile 1910 il F. leggeva in Campidoglio il discorso Roma nella cultura moderna, "commemorandoil Municipio il Natale di Roma". Irrisero gli universitarii, provocati dall'ironia vittoriosa del F., "già di molti e gravi delitti reo in cospetto della critica moderna".
In questo discorso medesimo, però, quanto il F. aveva ragione a rivendicar l'avvantaggio etico-politico della conoscenza, della reviviscenza e attualità o attualizzazione della storia romana, e se poteva aver anche ragione a rilevarne il carattere pedagogico-paradigmatico di storia "completa e sintetica", altrettanto par probabile che avesse torto a rivendicare a se medesimo ed al suo libro non pur una storia, ma una "filosofia della storia" di Roma (la quale filosofia consisterebbe nell'interpretazione della "corruzione" lamentata dagli storici e dai poeti di età cesariano-augustea in termini di "progresso" e nella permanenza attuale di vitia deplorati dall'antico moralismo, avaritia, ambitio e luxuria). Atteggiandosi egli a "filosofo della storia", od altri credendo che tale fosse appunto il F., sorse allora nell'ambiente governativo, quasi a ricompensa od a premio delle benemerenze del F. promotore della cultura e della presenza italiana in Europa e nelle due Americhe, il progetto infelicissimo ed inconsulto di creargli una cattedra di filosofia della storia nella facoltà di lettere della Sapienza romana.
Si formò, contro il F., la più incredibilmente unanimistica delle coalizioni. Gli accademici tutti quanti, anche se ostilissimi fra di loro (Pais, De Sanctis, Festa, De Lollis, Pasquali, ecc.), Croce nemicissimo degli accademici (e viceversa...), i "crociani" della Voce con alla testa Prezzolini e con parecchie baruffe tra i collaboratori del periodico (Amendola, Borgese, ccc.), e i "letterati" che si divertivano alla baruffa (Serra, L. Ambrosini, ecc.). All'offensiva (cui con verità, ma senza autorità ed efficacia, osò rispondere il volumetto di C. Barbagallo) il F. diede una replica sola, eloquente e infelice: il discorso fiorentino del novembre 1910 in cui nemmen proponeva, quale materia dell'eventuale suo corso, la filosofia della sua storia di Roma (teorizzata ed esposta, comunque, nel discorso capitolino), ma uno strano miscuglio di fenomenologia sociologica, o di sociologia tout court.
La facoltà di Roma negò a maggioranza larghissima la convenienza d'istituire una cattedra di filosofia della storia, mentre il País e altri blateravano perché si bandisse il concorso a una cattedra di storia romana, il nazionalismo tripolino aidant, per bocciare il F. e intraprendere quell'offensiva contro K. J. Beloch, che portò alla destituzione del maestro germanico durante la guerra europea. La Camera si dimostrò sostanzialmente incompetente, nel fatto e nel merito, anche perché il F. non era uomo di partito e non amato, in sostanza, né dai socialisti né dai giolittiani né dai cattolici. Al Senato il dibattito fu alto e sereno, ma contro il relatore Carle prevalsero gli oratori d'opposizione, fra cui memorabili D. Comparetti e Croce.
Nel frattempo il F. ultimava e lanciava il più caro, e più discutibile, dei suoi libri: il "dialogo" Fra i duemondi. Uscì a Milano la primavera del 1913, e fu, dunque, scritto nel triennio del "vespaio" (il termine è del F. medesimo), in quei "tre anni che, sebbene io non abbia in quelli pubblicato un solo volume, sono stati certo i più operosi, e spero si potrà dire un giorno, i più fecondi della mia vita" (Lavecchia Europa e la nuova, Milano 1918, p. 20), perché in questo libro (disse ancora il suo autore: cfr. G. Ferrero - C. Barbagallo, Roma antica, 2 ed. Firenze 1933, I, p. VII) "è la chiave del mio pensiero".
Il libro teorizza l'antitesi di due tipi di civiltà, qualitativa l'una (ed è, in ultima analisi, il retaggio classico di cui l'Europa ha vissuto fino ed oltre il Rinascimento), quantitativa l'altra, cioè la civiltà industriàle che si è affermata vittoriosa nel secolo scorso ed è l'idolo, la religione, l'ideale astorico ed antistorico delle genti d'America. La civiltà qualitativa s'identifica, per il F., con la filosofia del limitato, la civiltà quantitativa con la filosofia dell'illimitato. E questo, essenzialmente, per la totale mancanza nel F. di dialettica storica, per l'avversione confessata e costante all'idealismo, vuoi perché germanico, vuoi perché vi spunta in controluce l'ombra nemica del Croce. Né senza che allo scarso bagaglio pragmatistico-bergsoniano, al primato della ragion pratica e della "Grande Volontà" si accompagni il pesante retaggio lombrosiano-post-lombrosiano, la tesi, ragionata più volte, e qui pure, dalla Gina Lombroso Ferrero, della non invenzione delle macchine nel mondo antico, non perché gli antichi non vi potessero pervenire nella dottrina tecnica e nella pratica effettuazione, ma per una sorta di generoso altruismo etico, per una presunta consapevolezza delle sciagure che avrebbero arrecato all'umanità con il superamento dei limiti, la stessa violazione delle Colonne d'Ercole, oltre le quali attendono le due Americhe i beneficii (se esistono...) dell'industrialismo europeo. Come se gli Europei avessero portato oltre Atlantico solamente le macchine, e non anche la civiltà qualitativa, il cristianesimo, la filosofia, le religioni.
Nel 1914 fu interventista. Fu l'errore universo dei "democratici", se di errore è pur lecito parlare, i quali, per fedeltà alla Francia rivoluzionaria, per avversione al germanesimo (e tanto più dopo che alla guerra del Kaiser avevano aderito i socialdemocratici tedeschi), per la difesa antiasburgica del principio di nazionalità, e il conseguente delenda Austria,credettero di poter dare alla guerra un'idealità e un indirizzo cui contrastavano, oltre ai cattivi compagni del nazionalismo destrorso e della cosiddetta sinistra soreliano-rivoluzionaria i trattati e i propositi degli uomini di governo, S. Sonnino anzi tutto. E solo nell'esilio elvetico, nelle rievocazioni autobiografiche di Pouvoir,non pure il F. confessò il proprio errore, ma vide il maggio radioso liquidare un governo "filippista"; perché (più semplicemente e più veramente) il re aveva personalmente avallato il patto di Londra, né poteva quindi violarlo senza abdicare.
A torto padre G. Semeria disse che anche il F. aveva subito, con la guerra e durante la guerra, una crisi di coscienza; e altrettanto a torto G. Gentile lo definì "clericale", per avere il F. apertamente riconosciuto la validità del messaggio profetico di Benedetto XV e intrattenuto segreti rapporti confidenziali col cardinale P. Gasparri. Più degli altri tutti vide giusto però nel negar l'ottimismo, a guerra per l'Italia appena o non ancora iniziata, della guerre fraîche et joyeuse,destinata a concludersi in breve arco di tempo; e nel dubitar altresì dei cosiddetti scopi di guerra, che divenivano sempre più lati e più vaghi, quanto più il conflitto si prolungava e l'intervento americano invalidava in radice le premesse, o le cupidigie, dei vincitori. Questi, peraltro, ebbero la meglio sul presidente Wilson e perciò appunto dimostrarono la loro incapacità di dettare la pace.
Donde un'intensa attività pubblicistica del F., in Italia e all'estero, documentata dai varii suoi libri del dopoguerra, massime La tragedia della pace (Milano 1923). Il presunto "francofilo" si battè contro la politica delle riparazioni e l'invasione della Ruhr, deprecò l'avvento d'una Società delle nazioni (vincitrici) da cui erano assenti la Russia, la Germania e l'America, sollecitò invano quest'ultima a non rinchiudersi nell'isolazionismo, avvertì la precarietà dei regimi repubblicani, o pseudorepubblicani, che il crollo delle monarchie austrotedesco-russe aveva instaurati nell'Europa centro-orientale, fomentando i risentimenti, le nostalgie, le ambizioni del revisionismo (da sinistra e da destra del pari): un vuoto cui si credette rimediare con l'avvento di regimi dittatoriali.
Fattosi fiorentino negli anni di guerra, per la condirezione con J. Luchaire della Rivista delle nazioni latine,dopo la breve fioritura prebellica, già con la condirezione del Luchaire, dell'ugualmente fiorentina France-Italie, ilF. si trovò sin dal primo dopoguerra a svolgere parallela un'attività storiografica ed una convergente attività pubblicistica, per insegnare ai contemporanei (e furono, com'egli intitolò uno dei volumi in cui raccolse i suoi articoli, Discorsi ai sordi).
L'Europa non voleva sentire, e poco voleva, o poteva, sentire l'Italia per la solitudine apartitica del F., avverso al massimalismo barricadiero, e meramente verbale, dei "rossi", temperatissimo nel giudizio su F. S. Nitti e G. Giolitti (pur acclamando alla politica estera del conte C. Sforza), e tendenzialmente favorevole al fatto nuovo del partito popolare, ma consapevole dell'intima avversione di Giolitti alla politica di don L. Sturzo.
Come un problema sostanzialmente analogo si affigurava frattanto al F. La rovina della civiltà antica,ragionata in una serie di articoli sulla Revue des deux mondes,tra la fine del 1919 e il primo semestre del 1920, quindi tradotti dal figlio per il volume del 1926 (l'unico dei libri del F. che si sia ristampato, Milano 1988, L'enigma democratico di G. F.,a cura di D. Settembrini, la cui premessa uscì anche su Mondo operaio, XLI[1988], pp. 94-99). È significativa la sintonia con l'esule M. Rostovcev e col pessimismo contraddittorio e deluso di Georges Sorel (del quale si veggano le lettere al F., a cura di M. Simonetti, in Il Pensiero politico,V [1972], pp. 102-151, spec. 147 ss.); l'uguale ripudio dell'ottimismo alla Gibbon, la consapevolezza che, com'era caduta la civiltà antica, parimenti poteva cadere, per analoga catastrofe, la moderna civiltà.
Il F. fu un avversario immediato e implacato del fascismo, risoluto a pagar di persona il diritto - dovere dell'opposizione. La dittatura, ogni dittatura, è governo illegittimo (e qui pure il F. vide subito giusto, di contro ai troppi che speravano e si aspettavano la "normalizzazione" d'un regime, dalla sua stessa logica progressivamente sospinto, invece, verso un radicale totalitarismo), in quanto nega appunto il requisito essenziale della legittimità democratica (unica valida, ormai, dopo l'universale tramonto della legittimità aristo-monarchica), il diritto dell'opposizione, il pluralismo, l'attività costituzionale e legale d'una minoranza che dal suffragio attende l'investitura a divenir maggioranza. Già l'estate del 1923 la fascistizzazione del Secolo estromise il F., con M. Borsa, L. Magrini, P. Schinetti e altri pochi. Dopo il delitto Matteotti si associò a tutte le ancora possibili attività antifasciste, soprattutto perché i sordi e i ciechi si affrancassero dall'errore. Donde la sua partecipazione all'Associazione proporzionalistica, sollecitato da F. Turati, all'Associazione per il controllo democratico, all'Unione nazionale di G. Amendola; e collaborò al volumetto celebrativo G. Matteotti nel I anniversario del suo martirio (Roma 1925), tosto sequestrato dalla polizia.
Ma è significativo del F. "storico", della verace "romanità" del F. storiografo, che il suo scritto fosse costruito su di una sorta di parallelo fra il processo e l'esilio di Rutilio Rufo e il più crudele destino del parlamentare socialista, a riprova d'un'uguale condanna e della medesima illegittimità e turpitudine del regime fascista come del regime della nobilitas. Né, quali si fossero gli antichi e i nuovi dissensil mancò di firmare (1º maggio 1925) il manifesto Croce, attestando quindi al Croce la propria solidarietà e simpatia, dopo l'assalto fascista a palazzo Filomarino (cfr. B. Croce, Epistolario, I,a cura di L. Herling Croce - P. Craveri, Napoli 1967, p. 133, n. 2).
Gli venne tolto, quindi, il passaporto, e fu minacciato d'invio al confino e sottoposto alla sorveglianza severissima e ininterrotta della polizia, che diede il pretesto al padron di casa, il musicista Alberto Franchetti, per sfrattare l'inquilino di viale Machiavelli.
Che in quella persecuzione, in quell'isolamento forzato (e più quando i Ferrero si ritirarono nella loro casa di campagna, l'Ulivello, presso Strada in Chianti), in quella paura di essergli amici, si diradassero e quasi vanificassero i critici e i recensori della nuova fatica letteraria del F., è ben comprensibile; e questo spiega perché l'opera del F. meno conosciuta, almeno in Italia, resti La terza Roma, il romanzo, in quattro volumi, l'ultimo dei quali uscì per le Nuove edizioni di Capolago il 1936 (il primo era uscito a Milano nel 1926; il secondo nel 1927; il terzo nel 1930), dopo che il governo fascista, a vendetta dell'atteggiamento pubblicamente assunto dal F. durante la crisi della guerra etiopica, l'ebbe sequestrato e distrutto.
Nonostante la censura, il silenzio in Italia e la sorveglianza, così generosamente e spiritosamente raccontata dal Diario del figlio Leo, il F. poté conservare e continuare la collaborazione, senza trattarvi però di cose italiane, alla stampa franco-inglese, in ispecie La Dépêche di Tolosa, L'Illustration e Illustrated London News, ecc. Parecchi amici stranieri non ebbero né ritegno né paura di accettar l'ospitalità del recluso dell'Ulivello, che al F. per la stessa vicinanza e somiglianza delle situazioni e dei luoghi ricordava il Machiavelli all'Albergaccio (Colloqui, p. 131). Gli amici stranieri del F., ed autorevoli amici italiani, cercarono per più vie di garantire la libertà in terra straniera all'intera famiglia: i figli anzi tutto, già dal 1928. Quindi, per un paziente, discreto lavoro degli universitarii ginevrini e l'intervento di Albert Thomas, direttore dell'Ufficio internazionale del lavoro, Mussolini, che in data 7 ott. 1929 aveva personalmente negato il passaporto al F., si ravvedeva il 28 ottobre successivo, riconfermando, però, la consueta politica degli ostaggi: "se Ferrero farà domanda di passaporto gli sia concesso, ma non a sua famiglia" (cfr. S. Stelling-Michaud, in G. F., Histoire et politique ..., pp. 115 s.).
L'università di Ginevra ne profittava subito per invitare il F. a una conferenza il 12 febbr. 1930, quando grazie all'intervento del re del Belgio anche Gina Ferrero poté espatriare. Nei giorni medesimi si concordava la nomina del F. a professore di storia contemporanea (non senza rammarico dei colleghi "classicisti" Victor Martin, A. Oltramare, ecc., per la rinunzia del F. ad assumersi anche l'insegnamento della storia antica) e analogo compito gli era contemporaneamente affidato dall'Institut universitaire de hautes études internationales, diretto da W. Rappard e da P. Mantoux. Iniziata la sua (prima) attività accademica il semestre invernale 1930-31, cui subito seguì un lungo giro di conferenze negli Stati Uniti, il F. intraprese una serie di dodici corsi, che, tenuti nell'aula maggiore dell'università ogni giovedì alle 17, divennero un avvenimento politico-letterario-mondano; relativamente pochi gli studenti e numerosissimo, invece, il pubblico internazionale e "societario" della città elvetica, mentre la casa del F. in rue de l'Hôtel de Ville, nel cuore della vecchia Ginevra calvinista, divenne un'oasi e un rifugio per l'antifascismo italiano.
L'atmosfera deferente, amichevole, rispettosa e grata consolò il F. dell'espatrio e della tragica morte del figlio Leo, perito nel Nuovo Messico (26 ag. 1933) in un incidente d'auto e sepolto, per omaggio della Municipalità, nel cimitero di Plainpalais, dove ne raggiunsero la spoglia, "per l'eterno ritrovo", quando fu l'ora loro, il padre (1942) e la madre (1944). Alla scomparsa del figlio il F. parlò più volte di "disperazione". Si riprese, tuttavia, col lavoro, anzi tutto con la raccolta e la stampa degli scritti di Leo, in primis la commedia-tragedia Angelica, inscenata e rappresentata a Parigi (ottobre 1936) dalla compagnia Pitoëff. Quindi tornò all'opera propria e compose la trilogia francese Aventure, Reconstruction e Pouvoir (Paris 1936, 1940; New York 1942), tutta lavorata sulla teoria della legittimità del potere: legittimità violata dal Bonaparte (e dal bonapartismo rivoluzionario-dittatoriale) e restaurata dal Talleyrand al congresso di Vienna.
Un'acquisizione storiografica della trilogia è la rivendicazione del carattere "totalitario", epperò illegittimo, della cosiddetta democrazia giacobina, figlia spuria della prima e figlia diretta della seconda rivoluzione francese (donde, compilato dal fedele amico e successore sulla cattedra Luc Monnier, di sui quaderni del F., il postumo volume Les deux révolutions françaises,Neuchâtel 1951); una tesi divenuta popolare con J. L. Talmon, l'Hanna Arendt e i varii politologi del secondo dopoguerra (oltre ai Koestler e agli Orwell converrebbe risalire, però, fonte probabile od ispirazione letteraria del F., a Les dieux ont soif di Anatole France, in anni immediatamente anteriori alla prima guerra mondiale).
Libri di memorie, di autobiografia, di obiter dicta,perciò, questi ultimi libri del F., che mal si valutano, o si rivalutano, oggidì, facendone dei testi di sociologia ed elogiandoli in odio all'idealismo crociano; che acquistano, invece, una valenza positiva quando si leggano appunto come la testimonianza d'un uomo ch'ebbe la coerenza e il coraggio di servire costantemente un ideale di libertà. Di fatto il F. rimase sempre ottimista, fiducioso, cioè, che pur a prezzo di sangue, d'infinite rovine, di rivolgimenti inimmaginabili (e non vide l'inizio dell'eta atomica), le democrazie avrebbero vinto. Ebbe un attimo di smarrimento alla caduta della Francia, anche perché temette la violazione hitleriana della neutralità elvetica e deliberò di non sopravvivere a siffatta sventura, di non consegnare ai nazisti se non il proprio cadavere. La resistenza inglese lo rincuorò e più impegnativi, per orario e tematica, furono i suoi due ultimi corsi (1940-41 e 1941-42): Histoire analytique de la Révolution Française. Mentre gli parve simbolo, a un tempo, ed auspicio che Pouvoir uscisse, nell'originale francese, negli Stati Uniti: perché, se l'Europa non era più in grado di stampare un libro non conformista, l'America interveniva a colmare quel vuoto, ad assicurare l'uffità e la continuità dell'Occidente. E in questa certezza repentinamente si spense a Mont-Pélerin (Vaud) il 3 ag. 1942.
Fonti e Bibl.: L'archivio del F. è conservato, e consultabile, a New York, presso la Biblioteca della Columbia University. Gli scritti autobiografici più importanti: La vecchia Europa e la nuova (Milano 1918), pp. 12 ss.; Colloqui (a cura di B. Raditza, Capolago-Lugano 1939); Potere (prima ed., a cura di U. Campagnolo, Milano 1947, quindi terza ed., a cura di L. Pellicani, ibid. 1981; l'originale francese in editio princeps, New York 1942), nonché l'autoritratto, quale anonima dramatis persona, presso il termine del romanzo Liberazione (Capolago-Lugano 1936), pp. 268 ss. Un meritevole abbozzo di bibliografia del F. diede M. Monnier, in G. F., Histoire et politique au XXème siècle, Genève 1966, pp. 139 ss., con le addizioni e correzioni di P. Treves, in Athenaeum,XLIV(1966), p. 410 n. 7 (a recensione, pp. 405 ss., del volume testé citato); e si vegga altresì la lettera del F. al quotidiano socialdemocratico milanese La Giustizia,28 ag. 1924, in polemica anticrociana col suo recensore Don Ferrante (pseudonimo di A. Gerbi). Cominciano a stamparsi lettere e carteggi: Carteggio Mosca-G. Ferrero, a cura di C. Mongardini, Milano 1980; G. Ferrero, Lettere inedite a W. Rappard, a cura di G. Busino, in Nuova Antologia, ottobre 1962, pp. 177 ss.; Carteggio ined. fra L. Salvatorelli e G. Ferrero (1925-1940), ibid., aprile-giugno 1984, a cura di V. Santato, pp. 5 ss. (editore altresì delle Lettere di Turati a F., ibid., aprile-giugno 1982, pp. 181 ss.); lettere a G. Ansaldo e ad E. Rod, a cura di R. Baldi - G. Busino, rispettivamente, in G. F. tra società e politica, Atti del Convegno, Genova ... 1982, a cura di R. Baldi, Genova 1986, pp. 451 ss., 467 ss. A prescindere dai due volumi miscellanei testé citati si veda, oltre alla polemica di B. Croce, in Conversazioni critiche e in Pagine sparse, con le chiose di G. Sorel nelle sue Lettere a Croce,a cura di S. Onofrio, Bari 1980, passim.;C.Barbagallo, L'opera storica di G. F. e i suoi critici,Milano 1911; F. Natale, Contributo alla storia d. storiografia ital. sul mondo antico,in Nuova Riv. stor., XLII (1958), pp. 257 ss.; P. Treves, L'idea di Roma e la cultura italiana del sec. XIX,Milano-Napoli 1962, pp. 261 ss.; L. Salvatorelli, Miti e storia, Torino 1964, pp. 63 ss., 305 ss.; Z. Yavetz, Julius Caesar and his public image,London 1983, pp. 23 ss.; L. Polverini, Cesare e Augusto nell'opera storica di G. F.,in Caesar und Augustus,a cura di K. Christ-E. Gabba, Como 1989, pp. 277 ss. Sulla "filosofia" del F. si veda A. Tilgher, Ricognizioni, Roma 1924, pp. 5 ss. Per la giovinezza torinese e radical-socialista del F., A. Cavaglion, Felice Momigliano,Bologna 1988, pp. 62 ss.; A. Casali, Claudio Treves, I,Milano 1989, del quale si veda, altresì, Storici italiani fra le due guerre,Napoli 1980. Sulla persecuzione fascista, L. Ferrero, Diario di un privilegiato sotto il fascismo,Torino 1946. Per il F. sociologo, G. Sorgi, Potere tra paura e legittimità,Milano 1983; G. Sasso, Tramonto di un mito, Bologna 1988, pp. 74 ss. Molto importanti anche gli scritti di H. Goetz, G. F., ein Exempel, totalitärer Verfolgung,in Quellen und Forschungen aus ital. Arch. u. Bibl.,LXI (1981), pp. 248-304, e Der Zwangseid an den italienischen Universitäten im Jahre 1931 und die schweizer Presse, ibid.,LVII (1977), pp. 261 ss., per la parte avuta dal F. nell'organizzare la protesta della stampa e degl'intellettuali europei contro il giuramento fascista. Resta, infine, elegantissima analisi delle virtù stilistiche del F., il (postumo) saggio polemico di R. Serra, Scritti, II,Firenze 1938, pp. 539 ss. Vedi ora, inoltre, Itempi e le opere di G. F.: saggio di bibliografia internazionale,a cura di L. Cedroni, Napoli 1993.