ZORZI, Guglielmo Franco
– Nacque a Bologna il 1° febbraio 1879, secondogenito (fra Luisa Vittoria, 1876, e Casimiro Francesco, 1880) di Albina Gavazzi e di Riccardo, discendente di nobile famiglia di possidenti, conti di origine veneziana; il padre, figlio di Iacopo, era di Castelfranco Veneto, Treviso. Si laureò in giurisprudenza, ma subito preferì dedicarsi a musica, pittura, teatro. Dopo un breve trasferimento con tutta la famiglia a Castello di Serravalle (1903), si ristabilì a Bologna per sposarsi (2 dicembre 1905) con la napoletana Pia Cuzzo Crea («ispiratrice quotidiana dell’artista»; Ruggi, 1966, p. X) e avere con lei tre figli; subito Riccardo (17 settembre 1906) e in seguito Antonino e Casimiro.
Si avvicinò al teatro dalla gavetta, iniziando dagli atti unici, e in particolare affidandosi alla compagnia veneta Baldanello, con cui diede Carta bianca (16 dicembre 1907) per debuttare nello sfavillante teatro Olimpia di Bologna, inaugurato l’aprile precedente, erede del vecchio tempio del vaudeville bolognese. Tre anni dopo portò al Verdi Ave Maria (1° aprile 1910; da cui negli anni Trenta Alberto Donini ricavò il libretto in due atti per un’opera con Salvatore Allegra), a cura di quella compagnia Sainati che, con Ninna nanna, nel giro di due mesi (teatro Diana, 20 giugno) gli aprì anche le porte di Milano.
Ma fu con la Talli-Melato-Giovannini che nello stesso anno arrivò il suo primo successo nei tre atti In fondo al cuore, forse sua prima opera, scritta nel 1906 e tenuta nel cassetto (una vedova è disposta a sposare per gratitudine un amico che la ospita e protegge, ma questi, quando si accorge che ella ama veramente un altro, si autoesilia in Africa): «commedia grigia [...] nella quale vengono dette tante cose tacendo» (Ruggi, 1966, p. VII), paragonata a Tignola di Sem Benelli, fece parlare di crepuscolarismo e di anticipazione dell’intimismo francese. La stessa compagnia lo riportò alla visibilità (se non al successo) nazionale con I tre amanti (1912: il giovane allievo di un pittore si innamora della moglie del maestro e questi, tradito dalle due persone a lui più care, si uccide), per le cui vite, così ‘speciali’ e retoriche, si parlò di enfasi dannunziana. Commedie minori furono le dialettali bolognesi Quell dagl’invenzion (1910, per Argia Magazzari) e Bepi ha quella mania (1914, per la compagnia Gandolfi) e l’atto unico L’opera pia (1911, compagnia Alfredo De Sanctis).
Cominciò intanto ad avvicinarsi al cinema, che per il resto della vita lo assorbì con una continuità forse pari a quella del teatro – senz’altro per tutto il tempo di guerra: nel 1914 fu ingaggiato da una declinante Milano Films come direttore artistico e regista (motivo per cui forse si trasferì a Milano nel 1916); quindi intensificò l’attività con le principali case cinematografiche del muto, la romana Cines, la Silentium, la torinese Fert, per le quali diresse circa una trentina di film, anche di cassetta, con dive alla moda come Lina Millefleurs e Diana Karenne, fra cui Ninna nanna (1914), L’agguato (1915), La patria redime (1915), Notte di tempesta (1916), L’illusione (1917), La cicala (1919), La preda (1921), La leggenda delle Dolomiti (1923); e scrisse una quarantina di soggetti e sceneggiature, in particolare dopo l’avvento del sonoro (in Italia dal 1930), molti anche da proprie opere teatrali come La dama bianca (1938), Il documento (1939), La donna perduta (1940), La resa di Titì (1945), Mi sono sposato (1954), La vita degli altri (1957), L’immagine (1963).
Dopo una pausa di sette anni, nel 1919 ritornò al teatro con il suo lavoro di maggior successo, La vena d’oro (Roma, 28 febbraio, con Irma Gramatica), storia di un figlio che accetta che la madre, abbandonata giovane dal marito, si faccia una nuova vita con un nuovo compagno: sebbene intessuta di «suggestioni intellettualistiche e preziosismi» (F.S., 1975), per il suo «realismo lirico» (Capasso, 1953, p. 42) venne anche portata in scena a Parigi al Théâtre Sarah Bernhardt, nella traduzione di Georgette Fray, moglie di Jean Jacques Bernard, l’autore francese del ‘teatro dell’inespresso’, corrente parallela al crepuscolarismo italiano, che lo aveva in stima fin dagli esordi; e fu più volte ripresa: nel 1947, con la regia dell’autore (Roma, teatro Eliseo, con Vivi Gioi, Carlo Ninchi, Aroldo Tieri) e in due versioni cinematografiche, nel 1928 (ancora con la regia di Zorzi) e nel 1955 (regia di Mauro Bolognini).
Ormai apprezzato dalle maggiori compagnie di giro, per quella di Dario Niccodemi scrisse Le due metà (Milano, teatro Filodrammatici, 24 marzo 1922; con Vera Vergani e Luigi Cimara; una donna moderna pretende dal marito pari dignità, ma si lascia riconquistare da lui solo quando lui si mostra ‘maschio’ come in effetti lei lo desidera); e il suo primo lavoro a quattro mani, con Gaetano Sclafani, La favola dei re Magi (1926). La Melato-Betrone gli portò in scena La vita degli altri (Bologna, 24 settembre 1926; una moglie abbandonata dal marito commediografo che va con l’amante a fondare un teatro stabile in Argentina lo riaccoglie fra le sue braccia indulgenti di angelo del focolare – stroncata da Emilio Praga come peggio che inutile; F.T., 1975) e con Antonio Conti L’immagine, commedia patetica sul tema della maternità (Roma, teatro Argentina, 15 aprile 1930).
Nel corso degli anni Venti meno fortuna gli portarono i toni della tragedia (Le furie, 1924); contribuì ai libretti di due operette, La donna perduta con Guglielmo Giannini, musica di Giuseppe Pietri (Roma, teatro degli Italiani, 26 settembre 1923) e Miss Italia con Carlo Lombardo, musica di Alfredo Cuscinà (1927); e si concesse di nuovo al teatro dialettale milanese di Dina Galli (Allegretto ma non troppo, Roma, teatro Valle, 28 marzo 1928).
Il decennio successivo iniziò con una proficua collaborazione con Aldo De Benedetti: nello stesso anno firmò con lui per la Merlini-Cimara-Tofano due commedie poi anche riprese al cinema: La dama bianca, garbati intrighi d’amore (Milano, teatro Olimpia, 12 giugno 1931), e La resa di Titì, commedia brillante molto attagliata al repertorio della compagnia (Torino, teatro Alfieri, novembre 1931). Per cui fu chiamato anche, seppur brevemente, a essere regista e direttore di compagnia: nel 1934-35 dalla Cimara-Adani-Melnati (con le regie di Olimpiadi di Alessandro De Stefani e La ragazza del porto, di Ferenc Molnár) e nel 1937-38 dalla compagnia del teatro Veneto. Prolifici furono gli ultimi anni prima della guerra: in È passato un angelo (o Gente della terra; Firenze, teatro Verdi, 7 gennaio 1938), dramma in tre atti di nuovo per la compagnia Melato, una vedova emiliana sposa un prestante fannullone che, per impossessarsi del patrimonio da lei accantonato per il figlio, getta questo nel fiume; la donna lo perdona a patto che lavori per quelle stesse proprietà che verranno donate alla parrocchia, ma non perdona a se stessa di essere stata causa della morte del figlio. Meno impegnate sono le trame di Mi sono sposato (Milano, teatro Nuovo, 16 febbraio 1939; compagnia De Sica-Rissone-Melnati), Il documento (Fiume, teatro Verdi, 26 ottobre 1939, compagnia Memo Benassi; accolta tiepidamente, forse per un certo moralismo); Lancio mio marito (San Remo, Casinò, 8 dicembre 1939, Ferrati-Besozzi).
Per la seconda volta un tempo di guerra diradò la sua attività teatrale, ma non di soggettista cinematografico: come tale firmò i testi di La donna perduta, di Domenico Gambino, 1940; La corona di ferro, di Alessandro Blasetti, 1941, Die kluge Marianne, di Hans Thimig, 1943 e La resa di Titì, di Giorgio Bianchi, 1945. Finché nel 1947 diede il suo contributo alla ricostruzione scrivendo e dirigendo in prima persona un dramma generazionale, Con loro (Roma, teatro delle Arti, 23 dicembre 1947; compagnia dell’Istituto del dramma italiano; con Carlo Ninchi, Giuditta Rissone, Roldano Lupi); dove loro sono i figli, le generazioni con le quali si deve in fondo condividere il rischio ragionato di un investimento nel futuro. Sue ultime opere teatrali furono Subaffitto, commedia in un atto (Roma, teatro Sperimentale del ministero della Difesa, marzo 1950); e Il suo palcoscenico (Firenze, teatro della Pergola, 10 novembre 1954; compagnia Calindri-Zoppelli-Volpi-Masiero), ostinatamente borghese, teneramente autobiografica.
La lunga esperienza di autore lo fece nominare presidente della Cassa nazionale di assistenza e previdenza fra gli autori drammatici; e nel 1952-53 guadagnare una medaglia d’oro al merito del teatro, con premio di un milione di lire dalla presidenza del Consiglio per la durata e importanza della sua attività come autore drammatico.
Trovò, appena un anno prima di morire, la lucidità di pubblicare il proprio Teatro (Bologna 1966) per il quale scelse Le due metà, La vita degli altri, La vena d’oro, In fondo al cuore, Ave Maria, L’opera pia, I tre amanti, Mi sono sposato, Con loro, Il suo palcoscenico.
Morì nella sua abitazione di via Aurelio Saffi 28 a Roma il 4 ottobre 1967.
Primo ‘intimista’ del teatro italiano, in reazione a un certo verismo ‘gridato’, mantenne questa sensibilità fino agli ultimi lavori. Bene lo ritraggono le parole di due amici, critici, autori e bolognesi come lui: per Lorenzo Ruggi fu «timido ed insieme talvolta aggressivo»; cominciava «ad essere al mondo soltanto il giorno in cui andava in scena una sua commedia» (Ruggi, 1950, pp. 11 s.); per Massimo Dursi fu un «ottimista malinconico» che «seguitava a dar credito al mondo pur dopo una così lunga vita passata attraverso ai più grossi guai cagionati dagli uomini che la storia abbia mai registrato»; per cui «l’eroismo senza gloria», «l’abnegazione» furono i temi principali dei suoi componimenti, dove «i personaggi soffrono in silenzio, il loro dovere è il sacrificio ma troveranno un giusto premio alle sofferenze» (Dursi, 1967).
Opere. L’edizione più comprensiva delle opere è Teatro, Bologna 1966. Singole opere teatrali si trovano per i tipi di G. Barbera (Firenze: La vita degli altri, 1926; Allegretto ma non troppo, 1928; L’immagine, 1930) e nelle riviste Comoedia (I ghiribizzi degli spiriti - Fra chiaro e scuro, 1922, n. 21, pp. 1009-1048; In fondo al cuore, 1922, n. 23, pp. 1129-1155; La dama bianca, 1931, n. 8, pp. 34-44; Mi sono sposato, 1939, n. 4); Il dramma (La resa di Titì, 1932, n. 129, pp. 4-34; La favola dei re Magi, 1932, n. 147, pp. 4-33; Con loro, 1948, n. 55); Teatro, poi Teatro scenario (Subaffitto, 1950, n. 19-20, pp. 21-38; Il suo palcoscenico, 1955, n. 1, pp. 45-62), Ridotto (Ninna nanna, 1958, n. 4, pp. 43-46), La petite illustration (La veine d’or, 1929, n. 245).
Fonti e Bibl.: S. D’Amico, Il teatro italiano, Milano 1933, pp. 174-178; C. Antona-Traversi, La verità sul teatro italiano dell’Ottocento, Udine 1940, pp. 35-336; B. Curato, Sessant’anni di teatro in Italia, Milano 1947, pp. 226-230; L. Ruggi, Autori italiani: G. Z., in Teatro, rassegna quindicinale degli spettacoli, II (1950), 19-20, pp. 11-13; A. Capasso, Il realismo intimista di G. Z.: una poesia semplice al servizio di un ideale di dedizione, in Teatro scenario, V (1953), 19, pp. 41-44; G. Vaccaro, Z., G., in Panorama biografico degli italiani d’oggi, II, Roma 1956, s.v.; R. Simoni, Trent’anni di cronaca drammatica, I-V, Torino 1951-1960, ad ind.; L. Ruggi, Prefazione a G. Zorzi, Teatro, Bologna 1966, pp. V-XI; M. Dursi, È morto G. Z. il commediografo dei buoni sentimenti, in Il Resto del Carlino, 5 ottobre 1967; S. D’Amico, Storia del teatro drammatico, IV, Milano 1968, passim; F.S. [Francesco Savio], Z., G., in Enciclopedia dello spettacolo, Roma 1975, coll. 2153-2155; A. Stäuble, Il teatro intimista: contributo alla storia del teatro italiano del Novecento, Roma 1975; F. Cervari, Il teatro di G. Z., tesi di laurea, Università degli studi di Torino, 1993.