GIANNINI, Guglielmo
Nacque a Pozzuoli il 14 ott. 1891 da Federico, giornalista napoletano d'origine pugliese, e dall'inglese Mary Jackson. Fondamentale, nella formazione del G., fu la figura del padre il quale, coerente con la propria fede anarchica, volle limitare la frequenza scolastica del figlio alla quinta elementare, provvedendo personalmente alla sua ulteriore istruzione, che basò su ideali libertari (Parlato, p. 1136). Fu il comunismo la passione giovanile del Giannini.
"È orribile pensare che, da ragazzi - ricordava nel 1946 - c'entusiasmava il comunismo, di cui avevamo un'idea idilliaca. Poi, un po' più avanti negli anni, leggemmo il Capitale di quel fregnone di Carlo Marx, e ne rimanemmo affascinati per anni: fino a che la ragione, soccorrendo la naturale intelligenza, non ci provò che la biblica fesseria di Marx era la biblica fesseria che è" (Setta, 1975, p. 293).
Dopo svariati mestieri, da commesso in un negozio di tessuti a muratore, iniziò a farsi strada, introdottovi dal padre, nel mondo del giornalismo, collaborando, a diciannove anni (1910), al giornale umoristico Monsignor Perrelli e al Giornale del mattino e occupandosi con successo, su Il Domani, della rubrica mondana "Le Vespe" (1909). Combattente nella guerra di Libia (1911-12) e, da volontario, nella prima guerra mondiale, tornò al giornalismo come redattore capo del Contropelo, direttore del Monocolo, fondatore e direttore della rivista cinematografica Kines. Col passare degli anni la sua estrosa personalità (con lo pseudonimo di Zorro fu anche autore di canzonette di successo) fu attratta soprattutto dal teatro, oltre che dalla nuova attività di regista cinematografico. Le sue commedie, spesso rappresentate da proprie compagnie teatrali, gli procurarono, negli anni Trenta, un certo successo e benessere.
Appartenenti al genere giallo-comico e rosa, furono attaccate dalla critica fascista - a detta del G. - perché non esprimevano il "teatro del nostro tempo". In effetti titoli come La bambola parlante (1932), Mimosa (1934), La casa stregata (1934), Mani in alto (1935), Supergiallo (1936), Maschio e femmina (1937), Eva in vetrina (1939) esprimevano soltanto il "tipico teatro borghese, il tipico teatro da cucina, il tipico teatro d'adulterio dell'Italia 1932-1935" (Grassi, p. 342; per un elenco dei suoi lavori cinematografici e teatrali cfr. Enc. dello spettacolo).
Il G. ammise poi di aver scritto due commedie fasciste, L'angelo nero (1935) e Il miliardo (ed. Napoli 1942), e qualche articolo conformista, come Il granello di pepe - contro il monopolio inglese di tale spezia - apparso sul Corriere di Napoli del 21 luglio 1940. Nel procedimento d'epurazione avviato contro di lui nel 1945, inoltre, venne fuori una sua lettera del 10 ag. 1940 al ministro della Cultura popolare, A. Pavolini, nella quale paragonava il fascismo a un nuovo rinascimento e B. Mussolini a Lorenzo il Magnifico. Le compromissioni col fascismo del G. non andavano oltre questi episodi. Non costituivano certo gravi colpe l'aver ottenuto dal ministero della Cultura popolare, come altri autori, contributi per le proprie compagnie teatrali, né l'iscrizione al Partito nazionale fascista nel 1941, indispensabile, evidentemente, per poter proseguire in tranquillità l'attività professionale.
Come molti italiani, il G., che aveva rinnegato le iniziali simpatie per il comunismo professando ideali liberali, accettò passivamente, anche se benevolmente, il fascismo, durante il quale la sua vita fu caratterizzata da un sostanziale disimpegno politico: fu "una vita - ricordava nel 1946 - che mi piaceva trascorrere giocondamente, poco curandomi delle sciocchezze che udivo o leggevo" (in Setta, 1975, p. 39).
Questo atteggiamento fu mutato radicalmente dall'esperienza della seconda guerra mondiale. Profondamente segnato dalla perdita, oltre che del padre, dell'unico figlio maschio, Mario (morto in un incidente aereo nell'aprile 1942, a 22 anni, mentre si trovava sotto le armi), il G. maturò avversione per il fascismo e un impellente desiderio di impegno politico.
"Fra cinematografia e teatro - scrisse nel 1946 - giunsi al 25 luglio 1943, con 25 anni di più, lo strazio dei miei lutti nel cuore, la tessera fascista del 10 luglio 1941 in tasca. Mi resi conto che con quella mia assenza dalla politica, durata un quarto di secolo, avevo contribuito a rovinare la mia Patria, poiché solo a causa dell'assenza mia e d'altri milioni d'italiani che, come me, avevano egoisticamente badato solo ai propri affari, Mussolini aveva potuto diventare padrone d'Italia. Decisi di riparare al mio errore e d'entrare in un partito politico" (ibid.).
Divenne urgente, nell'animo semplice del G., tentare di realizzare una grande riforma del potere, capace di impedire l'eterno susseguirsi, nella storia, di guerre, lutti e distruzioni. Espresse le sue idee in proposito nel libro La folla. Seimila anni di lotta contro la tirannide, scritto durante l'occupazione tedesca di Roma e lì pubblicato nel luglio 1945.
"Capi" e "folla" sono, in questo testo, gli elementi antagonisti della storia dell'umanità. I primi si identificano negli "uomini politici professionali" in eterna lotta tra di loro per la conquista dei vantaggi personali conferiti dal potere; la folla è invece costituita dai "galantuomini", cioè dalla gente di "buon senso, buon cuore e buona fede […] onesta laboriosa e pacifica che forma l'enorme maggioranza della popolazione in tutti i paesi del mondo". Una maggioranza accomunata dal desiderio di "essere libera di esser buona, pacifica, amante del proprio lavoro e del proprio benessere", ma invece costretta a subire guerre, lutti, privazioni, a causa della lotta per il potere della minoranza degli uomini politici professionali, che si servono, per costringere la folla a immolarsi per loro, di fraudolenti miti come quello della patria, dell'onore, dell'eroismo, della gloria ecc. In tale contesto, pervaso da evidenti suggestioni anarcoidi, il G. proponeva, come soluzione all'eterno dramma dell'umanità, il passaggio dallo "Stato etico" allo "Stato amministrativo", che significava il trasferimento dell'effettivo governo dai politici alla burocrazia, composta "di persone che sanno governare, e che di fatto governano, illuminandoci le strade di notte, provvedendo a che le fognature funzionino, e che le derrate arrivino sui mercati e a tutti gli altri bisogni pubblici". Il disprezzo per la politica e gli uomini politici avidi e corrotti, insieme con lo scetticismo nei confronti delle ideologie da loro ostentate, rappresenta un male antico, come noto, della storia italiana, caratterizzata da una continua, reciproca sfiducia tra governati e governanti.
Nella teorizzazione che volle darne il G. negli anni 1944-45 tale disprezzo, che si impose con un neologismo (qualunquismo) da allora assai diffuso nel linguaggio comune, interpretò innanzitutto la stanchezza morale e il desiderio dell'Italia sconfitta e distrutta di quegli anni di tornare a vivere e sorridere. Ma il qualunquismo ebbe, nell'immediato secondo dopoguerra, un significato ben più preciso dell'occasionale riemergere di un antico stato d'animo.
Il G. tentò di farsi accogliere, con le sue "rivoluzionarie" idee, in qualcuno dei ricostituiti partiti, ma fu respinto da tutti. Vani risultarono anche i suoi contatti per entrare nella redazione di un giornale, sicché decise di presentare alle autorità alleate domanda per poterne stampare uno proprio. Il 27 dic. 1944 usciva il primo numero de L'Uomo qualunque. Nell'articolo di fondo, il G. ribadiva il suo disprezzo per gli uomini politici e la politica, da sostituire con la buona amministrazione. La sua era soprattutto una pesante contestazione dell'antifascismo, equiparato al fascismo nella sua avidità di potere.
"Libertà, giustizia, prosperità, sono generosamente promesse da tutti; e, in teoria, non c'è che l'imbarazzo della scelta del più virtuoso tra tanti partiti tutti egualmente perfetti. In pratica assistiamo all'ignobile spettacolo di un arrivismo spudorato, al brulicare d'una verminaia d'ambizioni, ad una rissa feroce per conquistare i posti di comando dai quali poter fare il proprio comodo ed i propri affari […]. Il fascismo, che ci ha oppresso per ventidue anni, era una minoranza. Lo abbiamo combattuto con la resistenza passiva e lo abbiamo logorato, tanto che è andato in frantumi al primo colpo serio che gli anglo-americani gli hanno vibrato. L'antifascismo e il fuoruscitismo hanno fatto enormemente meno. Salvo la modesta aliquota di illusi e di sinceri che non manca mai in nessun movimento politico […] antifascisti e fuorusciti erano e sono costituiti da "uomini politici professionali" avversari e nemici degli "uomini politici professionali" che costituivano il fascismo […]. Ritornati alla vita pubblica d'Italia con la vittoria militare anglo-americana come le mosche tornano alla stalla sulle corna dei buoi, antifascismo e fuoruscitismo pretendono, come il fascismo, il diritto di fare una epurazione ossia di sopprimere gli u.p.p. "uomini politici professionali" concorrenti e chiunque altro sia d'impaccio o fastidio. Contestiamo rivendicazione e pretesa: il fascismo ha offeso e ferito tutta la massa degli italiani, non soltanto gli antifascisti e i fuorusciti […]. Noi non abbiamo bisogno che d'essere amministrati: e quindi ci occorrono degli amministratori, non dei politici. Ci vogliono strade, mezzi di trasporto, viveri, una moneta modesta ma seria, una politica rispettabile […]. Per far questo basta un buon ragioniere […] che entri in carica il primo di gennaio, che se ne vada al 31 di dicembre, che non sia rieleggibile per nessuna ragione. Siamo disposti a chiamarlo anche re e imperatore: a patto che cambi ogni anno e che, una volta scaduto dalla carica, non possa ritornarvi almeno per altri cinque" (in Setta, 1975, pp. 4 ss.).
Il successo del nuovo settimanale (80.000 copie vendute in due giorni) venne accresciuto dal procedimento d'epurazione contro il G. iniziato il 5 febbr. 1945 e conclusosi, il 16 maggio, con una sentenza della Commissione d'epurazione per i giornalisti che si limitò a infliggergli la "sospensione di un mese, col significato di censura solenne". L'episodio, che confermava l'inconsistenza dei trascorsi fascisti del G., venne da quest'ultimo abilmente sfruttato per porsi come simbolo degli italiani "oppressi" dalle ingiustizie dell'epurazione, dal comportamento dittatoriale dei Comitati di liberazione, dai presunti progetti rivoluzionari delle Sinistre. Fattore importante della diffusione de L'Uomo qualunque, che nell'autunno del 1945 toccò le 850.000 copie, era lo stile del G. che, nella sua martellante polemica, oscillava tra ironia, sberleffi e insulti volgari.
Al fondo delle sue ingiuste generalizzazioni esisteva una verità di cui erano consapevoli anche gli esponenti dei partiti antifascisti: che lungi dal punire i veri responsabili e complici della dittatura, l'epurazione stava colpendo soltanto i "pesci piccoli", in una generale situazione di trasformismo che vedeva il pieno reinserimento della classe dirigente del periodo fascista nella nuova realtà politica. Nel contempo, nell'Italia del 1945 il qualunquismo divenne, con sempre maggiore evidenza, espressione della paura del nuovo diffusa in larghi settori dell'opinione pubblica moderata, poco sensibile, se non ostile, ai messaggi dei partiti antifascisti, che parlavano della necessità di un rinnovamento, più o meno radicale, delle strutture della società da ricostruire sulle rovine della guerra. Grande era in questi settori, specie nel Meridione che non aveva vissuto la stagione della Resistenza, la diffidenza nei confronti del governo Parri, presentatosi, dopo la Liberazione, come espressione del "vento del nord", che il G. volle ribattezzare sul suo settimanale "rutto del nord".
La caduta del governo Parri, avvenuta nel dicembre 1945 per iniziativa del Partito liberale italiano, fu considerata dal G., non senza qualche ragione, conseguenza delle sue battaglie di dura opposizione a mezzo stampa, il cui enorme successo aveva convinto i liberali a rendersi anch'essi interpreti del malumore dei moderati. Impressionato dall'impetuosa crescita dei consensi attorno alla sua azione giornalistica, il G. aveva scritto con enfasi, in un articolo dell'8 ag. 1945, di non poter rimanere insensibile di fronte al "grido di dolore" che si levava verso di lui da ogni parte d'Italia, e aveva quindi intensificato gli sforzi per convincere il partito liberale ad accettare la confluenza in esso del suo movimento d'opinione. Il secco rifiuto dello stesso B. Croce, avvenuto in un colloquio a Roma dell'ottobre 1945, cui era seguito il rifiuto, da parte di F.S. Nitti, I. Bonomi e V.E. Orlando, di presiedere la preannunziata nuova formazione politica, avevano indotto il G. a scendere in prima persona nell'agone politico, con la pubblicazione, nel novembre, del programma politico dell'Uomoqualunque e la celebrazione a Roma, nel febbraio 1946, del primo congresso nazionale del Fronte dell'Uomo qualunque. Il Fronte ottenne un significativo successo nelle elezioni per l'Assemblea costituente del 2 giugno 1946, rivelandosi, con oltre 1.200.000 voti (5,3% e 30 seggi, ottenuti quasi esclusivamente a Roma e nel Meridione) il quinto partito a livello nazionale. La sua affermazione era tuttavia destinata a rivelarsi strepitosa nei mesi successivi.
Dopo le elezioni del 2 giugno, che avevano conferito alla Democrazia cristiana (DC), con più di 8 milioni di voti (35,2% e 207 seggi), il ruolo di partito di maggioranza relativa, A. De Gasperi aveva confermato la sua strategia politica, varando un governo fondato essenzialmente sulla collaborazione con comunisti e socialisti.
Fu questa scelta del leader cattolico a divenire l'obbiettivo polemico centrale dell'opposizione qualunquista. Intuendo le grandi potenzialità di espansione nell'area moderata, il G. velò l'indifferentismo ideologico che era alla base del suo messaggio, e identificò nell'anticomunismo il carattere più qualificante della sua opposizione, di cui s'impegnò a offrire all'opinione pubblica un'immagine di assoluto rispetto dei principî democratici. Di qui la sua decisa azione di allontanamento dal Fronte dei neofascisti e la netta riconferma della sua ispirazione liberale. Soprattutto, il G. volle presentare il suo partito come il "vero" partito dei cattolici in contrapposizione alla DC di De Gasperi, accusata, in quanto alleata dei comunisti, di tradimento della religione e di "bolscevismo nero".
"C'è un partito - proclamò il G. in un discorso del 7 nov. 1946 alla basilica di Massenzio di Roma - che dovrebbe essere un partito di ordine e che invece è il partito del disordine e dell'equivoco, il quale ha monopolizzato quella che è la Cattolicità, ossia quello che è il sentimento religioso del 999 per mille degli italiani […]. Questa grande percentuale di qualunquisti, di monarchici, di repubblicani, di gente amante dell'ordine, ha votato per la Democrazia cristiana nella sicurezza che la Democrazia cristiana costituisse un argine a pericolose inondazioni […]. Che cosa ha fatto la Democrazia cristiana di quest'arma, di questa direzione, di questa forza che 8 e più milioni di italiani hanno messo in mano ai suoi capi? Non ha fatto altro che compromessi, trattative, svicolando, facendo quella politica che io definii politica della biscia, e non quello che avrebbe dovuto fare, quello per cui era stata eletta a fare: cioè a dire assumere la direzione del Paese, assicurare l'ordine del Paese, difenderlo contro tutti e non soltanto contro i deboli, lasciando che i forti spadroneggiassero, per non aver fastidi […]. La Democrazia cristiana ha completamente mancato all'obbligo suo […]. Se De Gasperi ascoltasse un po' più i consigli del Vaticano e un po' meno quelli dei bolscevichi neri del suo partito farebbe meglio le cose e tutto andrebbe molto meglio per lui e per il Paese" (in Setta, 1975, pp. 183-188).
I risultati delle elezioni amministrative del novembre 1946 rivoluzionarono il quadro politico italiano. Il Fronte dell'Uomo qualunque si rivelò, a Roma e nell'Italia meridionale, il partito più votato, e la maggior parte del suo incremento elettorale avvenne ai danni della Democrazia cristiana, che uscì da quelle elezioni letteralmente sconfitta. Lo strepitoso successo qualunquista assunse l'evidente significato di una protesta di massa della piccola e media borghesia moderata contro la continuazione della collaborazione con comunisti e socialisti perseguita dal governo De Gasperi: conferma di quanto lontani fossero dai disegni di rinnovamento del leader cattolico buona parte degli elettori della DC, più che mai dominati dall'antica paura del comunismo.
Iniziò nel partito di De Gasperi, dopo quelle elezioni, un'ampia riflessione autocritica sui motivi di quella preoccupante sconfitta elettorale, che minacciava, con una conferma alle imminenti politiche, di ridurre drasticamente il ruolo della DC come partito guida dello schieramento politico italiano. La riconquista dei consensi dei moderati divenne l'obbiettivo principale della DC che spiega, insieme con i condizionamenti di un clima internazionale dominato dalla guerra fredda, l'allontanamento dei due partiti di sinistra dal governo nel maggio 1947.
Con il trionfo elettorale del novembre 1946 ebbe, tuttavia, inizio il declino delle fortune politiche del Giannini. Egli si rivolse alla DC in termini ricattatori, cercando di imporre a essa un'alleanza con il suo Fronte. Il netto, orgoglioso rifiuto del partito di De Gasperi indusse il G. a un'iniziativa spregiudicata, cioè a prospettare, in un'intervista all'ANSA (Associazione nazionale stampa associata) del 19 dic. 1946, l'ipotesi di un'intesa con il Partito comunista italiano (PCI), che P. Togliatti accettò volentieri di discutere. Si svolse così, sulle pagine dell'Uomo qualunque e dell'Unità un dialogo tra i due leader, il cui unico risultato fu un coro crescente di proteste contro il Giannini. Accusato di filocomunismo dai partiti di destra e dalla DC, egli dovette subire dimissioni e scissioni, cui reagì con una lunga serie di espulsioni. La crisi del Fronte dell'Uomo qualunque si aggravò ulteriormente nel corso del 1947. Sebbene i voti qualunquisti fossero determinanti, De Gasperi, presidente del Consiglio per la quarta volta, continuò a rifiutare le pressanti richieste del G. perché una rappresentanza del suo gruppo entrasse direttamente al governo. Esasperato, il G., nell'ottobre, decise di votare a favore delle mozioni di sfiducia contro il governo presentate dalle Sinistre, ma si trovò di fronte la ribellione della maggior parte dei suoi deputati, oltre che la netta ostilità della Confederazione generale dell'industria, che lo privò di ogni finanziamento.
Nelle elezioni del 18 apr. 1948 il Fronte dell'Uomo qualunque, dilaniato dalle polemiche interne, si presentò, insieme con i liberali, nel Blocco nazionale, che ottenne soltanto il 3,8% dei voti e 17 seggi alla Camera dei deputati (7 seggi al Senato). I qualunquisti, in particolare, ottennero cinque deputati e un senatore e il G., non eletto, fu proclamato deputato, in seguito a ricorso alla giunta delle elezioni, soltanto l'11 ott. 1949.
La sconfitta del Blocco nazionale fu dovuta principalmente al clima di estrema contrapposizione ideologica che caratterizzò quelle elezioni, facendo rifluire da destra verso la DC le masse dei ceti medi moderati, convinte che il partito di De Gasperi rappresentasse l'unica diga sicura contro il comunismo. Il G., d'altro canto, aveva condotto una campagna elettorale impostata sulle tesi più scettiche del suo qualunquismo, definendo "false e bugiarde" le ideologie che si affrontavano e semplici "fesserie […] la sinistra e la destra, il fascismo, l'antifascismo, il comunismo, l'anticomunismo". L'Italia, a suo avviso, non avrebbe dovuto aderire a nessuno dei due blocchi, ma impegnarsi nella costruzione degli Stati Uniti d'Europa, i quali avrebbero dovuto "dire all'Oriente e all'Occidente: fate i vostri affari all'infuori di noi e tenetevi lontani dai nostri territori e dai nostri interessi" (in Setta, 1975, p. 279).
Tornato al teatro, il G. non volle rinunziare all'idea di un personale rilancio politico. Nelle elezioni del 7 giugno 1953, rifiutato l'invito di Togliatti a candidarsi con il PCI, si presentò come indipendente nelle liste della DC e nelle successive, del 25 maggio 1958, in quelle del Partito nazionale monarchico: in entrambe le occasioni subì una cocente delusione.
Il G. morì a Roma il 13 ott. 1960.
Egli lasciò un volume di memorie: La grande avventura dell'Uomo qualunque raccontata da G. Giannini, in Enciclopedia del Centenario. Contributo alla storia politica, economica, letteraria e artistica dell'Italia meridionale nei primi cento anni di vita nazionale, a cura di G. Scognamiglio, II, Napoli 1960.
Fonti e Bibl.: P. Grassi, Il teatro e il fascismo, in Fascismo e antifascismo. Lezioni e testimonianze, I, Milano 1963, p. 342; M. Del Bosco, G. G. e L'Uomo qualunque. Storia e politica incredibile e vera (quattro puntate), in Il Mondo, n.s., 18 aprile - 9 maggio 1971; G. Pallotta, Il qualunquismo e l'avventura di G. G., Milano 1972; S. Setta, L'Uomo qualunque 1944-1948, Roma-Bari 1975; A. Gambino, Storia del dopoguerra. Dalla Liberazione al potere DC, Roma-Bari 1975, ad indicem; P. Scoppola, La Repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia (1945-1990), Bologna 1991, pp. 142 s.; S. Lanaro, Storia dell'Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni Novanta, Venezia 1992, ad indicem; A. Lepre, Storia della prima Repubblica. L'Italia dal 1942 al 1992, Bologna 1993, pp. 63 s.; S. Colarizi, Storia dei partiti nell'Italia repubblicana, Roma-Bari 1994, pp. 96-99; G. Parlato, La Nazione qualunque. Riformismo amministrativo ed europeismo in G. G., in Storia contemporanea, XXV (1994), 6, pp. 1129-1166; S. Setta, La Destra nell'Italia del dopoguerra, Roma-Bari 1995, ad indicem; A.M. Imbriani, Vento del Sud. Moderati, reazionari, qualunquisti (1943-1948), Bologna 1996, ad indicem; Enc. dello spettacolo, V, coll. 125 s.