GUGLIELMO I d'Altavilla, re di Sicilia
Nacque tra il maggio 1120 e il maggio 1121, se si accetta la notizia di Romualdo Guarna, arcivescovo di Salerno, secondo la quale (p. 253) G. era nel suo quarantaseiesimo anno quando morì il 7 maggio 1166.
G. era il quartogenito di Ruggero II, re di Sicilia dal 1130, ed Elvira di Castiglia-León, figlia di Alfonso VI; lo precedevano Ruggero (duca di Puglia), Tancredi (principe di Bari) e Alfonso o Anfuso (principe di Capua), mentre lo seguivano Enrico e almeno una sorella di nome Adelisa; dal successivo matrimonio di Ruggero II con Beatrice di Rethel nacque Costanza.
Nel 1140, dopo la morte di Tancredi, G. venne creato principe di Taranto. Dopo la morte di Alfonso, avvenuta il 10 ott. 1144, ricevette ancora l'investitura del Principato di Capua e del Ducato di Napoli; infine, dopo la scomparsa di Ruggero (2 maggio 1149) anche quella del Ducato di Puglia. Intorno al 1150 sposò Margherita, figlia di García V Ramírez re di Navarra. Da questo matrimonio ebbe almeno quattro figli maschi: Ruggero, Roberto, Guglielmo ed Enrico.
Nella Pasqua del 1151 G. fu unto re di Sicilia, come coreggente, dall'arcivescovo di Palermo, mentre venne personalmente incoronato dal padre; prima della cerimonia, però, come ricorda Giovanni di Salisbury, Ruggero II fece giurare in pubblica assemblea al figlio che avrebbe conservato pace e giustizia, avrebbe onorato la Chiesa e avrebbe ancora servito suo padre come signore feudale. La convocazione dell'assemblea fu comunque funzionale alla pubblicità della consacrazione regia e non a una elezione del successore da parte dei convocati, cosa che non è nelle fonti.
Per quanto esista sin dalla fine del XIX secolo una linea storiografica tesa a rivalutare il suo regno (Siragusa), sulla fortuna di G., "il più ambiguo sovrano degli Altavilla" (Tramontana, p. 628), pesa il quadro in tutto ostile che di lui ha consegnato alla posterità lo Pseudo Falcando (Ugo Falcando); l'autore era visceralmente avverso al sovrano e soprattutto al suo ammiraglio Maione e non perde occasione per mettere in rilievo le trame e le manchevolezze della loro azione, soprattutto nella politica interna. La Historia o Liber de Regno Sicilie si apre proprio con la morte di Ruggero II, che costituisce l'ineguagliata pietra di paragone per i suoi due successori: stabilito in apertura che G. fu erede "solum potestatis, non etiam virtutis" del padre, ne discende l'implacabile descrizione di un regno fallimentare. Non a caso la sua penna si sofferma soprattutto sugli anni 1155-56 e 1160-61, cioè sui momenti critici per il re, mentre sorvola sugli anni 1163-66, che rappresentarono un periodo di relativa tranquillità. Sicuramente Falcando era contrario alle innovazioni tendenti a centralizzare tutto il potere nella sola persona di Maione, in modo da svuotare di contenuti l'azione di tutti gli altri familiares, privati dell'accesso diretto al sovrano; ma allo stesso tempo non aveva simpatie per i moti di rivolta del baronaggio, specie di Terraferma, che avrebbe voluto prescindere dall'esistenza stessa della monarchia. Per Falcando, invece, la monarchia resta un punto fermo, anche se a essa deve associarsi un eletto gruppo di familiares, meglio se nobili. Molti episodi e particolari sono tramandati comunque solo dal Liber e, per quanto intaccati dalla certezza della sua partigianeria, non perdono il loro fascino. Ampie conferme del quadro del Liber si trovano nella cronachistica e pubblicistica di parte papale, imperiale e bizantina. Un parziale correttivo è nel Chronicon di Romualdo Guarna, personaggio di primo piano nella corte degli Altavilla; per quanto la critica tenda ormai a ridurre la parte dell'opera redatta personalmente da Romualdo a quella riguardante il regno di G. e di suo figlio Guglielmo II, la sua paternità almeno di ispirazione non può essere messa in discussione: Romualdo fu infatti tra i protagonisti del trattato del 1156 con Adriano IV, fu al capezzale del morente G., fu delegato per le trattative di Venezia nel 1177. La sua versione - benché talvolta scialba - risulta dunque attenta a presentare sotto una luce quantomeno non negativa l'operato dei sovrani, proprio in virtù del suo costante coinvolgimento personale. È stato invece ripetutamente chiarito dalla critica come l'appellativo di G. come G. il Malo sia nato solo oltre un secolo dopo e in contrapposizione all'appellativo del figlio, Guglielmo II il Buono.
Romualdo precisa che G. successe al padre dopo due anni e dieci mesi di coreggenza, mentre nei diplomi egli continuò a datare la sua ascesa al trono dalla prima incoronazione. La nuova cerimonia ebbe luogo solennemente a Pasqua (4 aprile) del 1154. Subito dopo prese una serie di rilevanti provvedimenti: privò dell'investitura del Principato di Taranto Simone d'Altavilla, suo fratellastro, con la giustificazione che i figli illegittimi potevano aspirare al massimo a un titolo comitale; provvide invece a investire il cugino Roberto (II) Basunvilla, figlio di Giuditta (sorella di Ruggero II) e di Roberto (I), conte di Conversano, anche della contea di Loretello, seguendo in questo il consiglio paterno. Ne risultò l'elevazione di un conte in una condizione di indubbia superiorità rispetto agli altri. Ne è testimonianza anche la diceria riportata da Falcando secondo cui Ruggero II avrebbe designato in un misterioso testamento proprio il nipote Roberto come suo successore. Certamente si trattava di un conte di sangue reale, possibile antagonista del re, la cui ascesa venne controbilanciata dalla parallela promozione del cancelliere Maione, già uomo di fiducia di Ruggero II, al ruolo di grande ammiraglio, cioè di fatto di primo ministro. Era il segno della precisa volontà del sovrano di elevarlo al di sopra degli altri componenti della Curia regis, il più importante organismo consultivo sul quale si era fondata l'azione politica di Ruggero II.
Le fonti sembrano comunque concordemente indicare uno svecchiamento subito operato da G. tra le file dei consiglieri ereditati dal padre, forse anche funzionale all'ascesa di Maione. Una delle partenze meglio note e più pesanti fu quella dell'inglese Thomas Brown, che preferì accettare l'invito di Enrico II d'Inghilterra. Non bisogna però dimenticare che negli ultimi anni di Ruggero erano scomparsi anche i suoi più importanti collaboratori, come Giorgio d'Antiochia, Filippo di al Mahdia, il cancelliere Roberto di Selby; lo stesso Maione era peraltro diventato cancelliere già sotto Ruggero II.
Maione, stretta un'alleanza con Ugo, arcivescovo di Palermo, si circondò ben presto di fidati familiari, come il fratello Stefano, ammiraglio della flotta, o il figlio Stefano, anch'egli capitano, il cognato Simone, siniscalco e magister capitaneus di Apulia e Terra di Lavoro. Falcando insiste però sulla capacità di Maione di fare il vuoto intorno al sovrano, il quale dopo il suo ritorno da Salerno nel 1155 avrebbe dato udienza solo a Maione e all'arcivescovo di Palermo Ugo.
Su diversi fronti la situazione di G. si rivelò subito irta di difficoltà. In primo luogo la successione sancita nel 1151 non aveva il riconoscimento del pontefice, dominus feudale del Regno. Anche i due Imperi cospiravano contro di lui: Federico I Barbarossa non nascondeva l'intenzione di condurre una campagna nel Mezzogiorno, mentre Manuele I Comneno si alleava con lui e respingeva le offerte di pace da parte normanna. Solo Venezia, delusa nei suoi rapporti con i Comneni, si mostrò favorevole a Guglielmo. Anche sul fronte interno vi erano malumori nella nobiltà, alla cui testa si pose Roberto Basunvilla. I cronisti attribuiscono alla ostilità di Maione il distacco di Roberto dal sovrano; fatto sta che entro il 1154 a lui si rivolsero i due imperatori alla ricerca di un referente interno nella campagna contro il sovrano. Conscio della gravità della situazione, questi si trasferì nella quaresima del 1155 per un breve periodo a Salerno; qui il neoeletto Adriano IV, che aveva già sbrigativamente liquidato un'ambasceria sicula, giunse a rivolgersi a G. con il semplice appellativo di "dominus" invece di "rex", scatenando la reazione di G., che rifiutò di accogliere i legati pontifici. Dopo Pasqua comunque rientrò in Sicilia e lasciò temporaneamente la guida delle attività militari contro Benevento al cancelliere Asclettino, mentre i rivoltosi si compattavano intorno al Basunvilla. A suggello dell'allineamento con gli orientamenti pontifici, Adriano IV il 29 settembre ricevette a San Germano i giuramenti di fedeltà dei rivoltosi Roberto (II) di Capua e Andrea di Rupecanina, recuperando l'antica politica pontificia di frantumazione dei giuramenti di fedeltà da parte dei dominatori normanni.
Il rifiuto dei vassalli tedeschi di seguire il Barbarossa nel Mezzogiorno lasciò al solo Comneno l'onere di inviare truppe e danaro ai rivoltosi. La situazione precipitò però ulteriormente con la diffusione della falsa notizia della morte di G. alla fine del 1155, legata a una grave malattia da cui il re venne effettivamente colpito: non solo gran parte del dominio continentale sfuggiva ormai al controllo regio (Roberto di Capua e Andrea di Rupecanina in Campania, Roberto Basunvilla in Abruzzo e Molise, i Bizantini a Bari e sulla costa pugliese), ma anche in Sicilia, con epicentro a Butera, si scatenò una rivolta, in cui ebbe ruolo preminente Goffredo conte di Montescaglioso.
Una volta guarito, nel dicembre del 1155, G. riportò la pace nella tumultuante Palermo e scese a patti con i ribelli siciliani in Butera, anche se poi fece arrestare, contro gli stessi accordi, Goffredo di Montescaglioso e punire il cancelliere Asclettino; quindi partì nella primavera del 1156 da Messina con un fresco contingente, riprendendo rapidamente Brindisi e condannando la città di Bari a una distruzione esemplare, da cui fu risparmiata solo la basilica di S. Nicola. La disfatta bizantina venne favorita dalla defezione di Roberto Basunvilla, che preferì accodarsi col pontefice in Benevento, mentre molti rivoltosi, proprio perché turbati dalla punizione inflitta a Bari, preferirono abbandonare il Regno. Spostandosi verso Ovest G., grazie al tradimento di Riccardo Dell'Aquila, imprigionò a Palermo, e forse accecò, Roberto di Capua, mentre Roberto Basunvilla venne condannato all'esilio. Durante l'assedio di Benevento anche papa Adriano IV addivenne a più miti consigli, e una commissione capeggiata da Maione e da Rolando Bandinelli, il futuro papa Alessandro III, giunse il 18 giugno 1156 alla stipula di un trattato, che non solo riprendeva i termini dei rapporti esistenti sotto Ruggero II, ma aggiungeva anche nuovi riconoscimenti: furono inclusi i territori di Abruzzo e Marsica, sia pure con l'aggiunta di un censo separato; il controllo su sinodi e legazioni pontificie fu esplicitamente riconosciuto in Sicilia e stemperato sul continente, mentre la sede palermitana vedeva riconosciuto il proprio rango arcivescovile con la sottomissione delle diocesi di Mazara e Agrigento; G. prestò giuramento e ricevette tre distinte investiture per il Regno di Sicilia, il Ducato di Puglia e il Principato di Capua. Fondamentale era comunque il riconoscimento della rinnovata alleanza tra Roma e Palermo, che implicava inesorabilmente la rottura dell'asse sempre precario tra Roma e l'Impero: Federico I non poteva che trovare molto molesta la notizia dell'accordo.
Rientrato in Sicilia G. proseguì nella parziale pacificazione interna con la soppressione fisica di alcuni ribelli, la reclusione di altri rivoltosi (i fratelli Tancredi e Guglielmo d'Altavilla, figli illegittimi del defunto duca Ruggero, Guglielmo di Lesina, Boemondo di Tarsia), mentre per altri egli seguì la linea della pacificazione e della grazia. Quest'ultima linea risulta meno evidente, perché la storiografia ha prestato più volentieri attenzione alle descrizioni dei supplizi inflitti dal re ai rivoltosi descritti con perfidia da Falcando, il quale è comunque costretto poi a riconoscere che sul finire del 1156 "regnum aliquandiu visum est quievisse" (p. 24).
Nello stesso 1156 G. giunse a un accordo con Genova che anche "per la Sicilia […] presentava inequivocabili vantaggi politici" (Abulafia, p. 144) a suggello dell'abilità diplomatica di Maione, dopo quello saldissimo già riconfermato con Venezia nel 1154. Sotto la spinta degli Almohadi andarono invece perdute tra il 1156 e il 1158 le basi che Ruggero II aveva conquistato in Africa: l'ultimo presidio normanno, quello di Mahdia, fu perso nel 1160. A bilanciare la perdita di controllo sull'Africa contribuì una fortunata spedizione contro Negroponte e le sue coste guidata dall'ammiraglio Simone, che costrinse nel 1158 l'imperatore di Bisanzio a riconoscere con un trattato di pace trentennale per la prima volta l'ufficiale esistenza di un regno nel Mezzogiorno d'Italia. L'accordo contribuì a placare la rivolta dei baroni, che ancora continuava - foraggiata dall'oro greco - nel Capuano sotto la guida di Andrea di Rupecanina e sul versante adriatico sotto quella di Roberto Basunvilla; ma nel 1158 i due capi si ritirarono in Lombardia al seguito di Federico I, rimasto unico referente per i rivoltosi, dopo gli accomodamenti di G. con il papa e con Bisanzio. La contestata elezione alla fine del 1159 di Alessandro III, con l'opposizione di un papa di nomina imperiale nella persona di Ottaviano de' Monticelli, eletto con il nome di Vittore IV, rese inevitabile l'alleanza di Alessandro III con il sovrano normanno.
Eppure i fattori di malcontento nei confronti della gestione del potere del duo rappresentato da G. e da Maione erano sul continente radicati, tanto che ancora nel 1158 la nuova scintilla - a dire di Falcando - venne questa volta da Melfi, i cui abitanti rifiutarono di accogliere qualsiasi funzionario inviato da Maione. Ben presto insorsero Napoli e Salerno, nonché nuovi feudatari: Gionata di Conza, Riccardo Dell'Aquila, Riccardo di Acerra, Ruggero di Tricarico, Filippo di Sangro, Boemondo di Manoppello, Gilberto di Gravina.
I due cronisti principali supportano la tesi di una rivolta contro Maione, in difesa dello stesso re: soprattutto Falcando insiste nel sostenere che l'ammiraglio avrebbe avuto in mente di sostituirsi direttamente al re, approfittando anche di una presunta sua relazione con la regina. Non è del tutto da escludere che questo fosse uno degli obiettivi dei rivoltosi; seppure così fosse stato, gli eventi successivi li avrebbero però fatti ricredere.
Per la Corona la situazione si stava facendo ancor più pericolosa a causa della simpatia che cominciavano a manifestare verso i rivoltosi città e feudatari di Calabria. In missione diplomatica in questa regione venne inviato Matteo Bonello, giovane nobile, nel quale lo stesso Maione riponeva molte speranze, al punto da volergli dare in sposa la figlia. Bonello si lasciò invece convincere dagli oppositori dell'ammiraglio; il discorso suasorio che Falcando mette sulla bocca di Ruggero di Marturano rappresenta il manifesto dei nobili oppositori di Maione: per Bonello si propone il ruolo di "nobilitatis, quam idem [Maio] atrocissime persequitur, vindex", perché "regis quidem ipsius incolumitas regnique salus ac libertas in manibus tuis est" (pp. 33 s.).
I mesi tra l'ottobre del 1160 e il marzo del 1161 furono i più difficili per la giovane monarchia degli Altavilla. Falcando sostiene che, inizialmente, Maione e l'arcivescovo di Palermo Ugo fossero complici nel piano di destituzione di G.: solo contrasti circa l'assegnazione della tutela dei figli - o futuri orfani regali - ruppe l'accordo e spinse i due a tentare di uccidersi a vicenda. Quasi certamente, comunque, Ugo ebbe un ruolo nella congiura, in quanto nella fatale notte del 10 novembre Maione usciva proprio dalla sua casa, e Matteo Bonello conosceva bene i suoi spostamenti. G., pur convinto che "interfecto Maione, manu se dextera mutilatum" (p. 47), dovette prendere atto della momentanea supremazia dei rivoltosi, dimostrando un buon fiuto politico, e attendere per cogliere la sua vendetta. Preferì infatti ricostruire intorno a sé prima un nucleo di fedelissimi, a cominciare da Enrico Aristippo, arcidiacono di Catania e dotto in latino e greco, che in parte prese il posto di Maione.
In breve ai rivoltosi fu chiaro che G. non intendeva mutare la sua politica, perciò trasferirono le loro mire sulla persona stessa del re e si disposero a compiere essi stessi quello per cui avevano giustificato l'uccisione di Maione: deporre G. e innalzare al trono il figlio di nove anni Ruggero, divenendone tutori. Il 9 marzo 1161 (giovedì di quaresima), con leggero anticipo, i rivoltosi irruppero a palazzo, liberarono i baroni ribelli e aggredirono il sovrano: G. ebbe salva la vita dichiarandosi disposto ad abdicare.
Una volta avuti in mano il re e la sua famiglia, i rivoltosi si diedero al saccheggio del palazzo, distribuendo danari dalle finestre alla massa di curiosi che si accalcava fuori del palazzo e allo stesso tempo preoccupandosi di distruggere i "defetari", i registri fiscali della Corona.
L'irruenza della rivolta si rivelò deleteria, in quanto, prima dell'arrivo in città dei contingenti guidati da Matteo Bonello, il gruppo degli ecclesiastici (Romualdo di Salerno, Roberto arcivescovo di Messina, Riccardo Palmer, vescovo eletto di Siracusa, Tustino di Mazara) si coalizzò e, con il sostegno della plebe indignata per il trattamento riservato a G., riuscì a ottenere la liberazione del sovrano, pur concedendo libera uscita ai capi rivoltosi.
In questi scontri perse la vita il primogenito di G., Ruggero, secondo Romualdo colpito da una freccia vagante, o ucciso con un potente calcio dal padre (Ruggero aveva cavalcato per due giorni come erede al trono per le strade di Palermo, prestandosi involontariamente al gioco dei rivoltosi), secondo la sempre perfida versione di Falcando. Imprigionato, destituito, privato del figlio maggiore, costretto ad affacciarsi dalla torre Pisana per ringraziare "universo populo" della avvenuta liberazione, G. "abiecta veste regia, sueque dignitatis immemor, humi sedebat flens inconsolabiliter" ricevendo direttamente chiunque passasse per la sala regia (p. 62). Finalmente gli ecclesiastici lo scossero dal torpore e convocarono una grande assemblea nell'aula regia, nel corso della quale il re parlò per il tramite dell'eletto siracusano, ristabilendo quindi un diaframma tra sé e i sudditi.
Rapidamente, comunque, entro la fine dell'estate del 1161, il sovrano riprese le redini della situazione, riuscendo a sfaldare il gruppo dei rivoltosi: Guglielmo di Principato e i cugini Simone e Tancredi ottennero l'esilio, Matteo Bonello fu accolto ancora una volta a corte, mentre Riccardo de Mandra riceveva addirittura incarichi di fiducia. La stessa tecnica venne utilizzata nei confronti degli assediati di Butera, guidati da Ruggero Sclavo: trascorsa l'intera estate, G. garantì loro la salvezza, riservandosi poi di distruggere Butera.
Contestualmente si ricomponeva il quadro della Curia regis, con la prima formalizzazione dell'esistenza di un esclusivo consiglio a tre, composto da Riccardo Palmer eletto di Siracusa, Silvestro di Marsica ed Enrico Aristippo, quest'ultimo in fase di declino politico. Appena ebbe ristabilita una parte della sua autorità il pensiero del re fu di vendicare Maione - e se stesso - facendo mutilare Matteo Bonello, che poco dopo morì. La città di Palermo restò affidata alle mani di un eunuco, il gaito Martino che, secondo il Liber, fu più interessato a vendicare i musulmani caduti nella sommossa che a far giustizia. Dall'isola l'azione proseguì in Calabria, dove, con la conquista della sua piazzaforte di Taverna, venne imprigionata la contessa di Catanzaro, Clemenza, a suo tempo promessa in sposa allo stesso Bonello. Proprio la durezza delle pene inflitte ai parenti e collegati della contessa, catturati insieme con lei, spianò la strada a G. nella sua campagna di riconquista: i baroni ribelli, che temporaneamente si erano ancora risolti a unirsi sotto la guida di Roberto Basunvilla, preferirono in gran parte ritirarsi senza combattere. Infatti Romualdo sostiene che Roberto "metuens ne barones Apulie ipsum solito more relinquerent, in Abrutium est reversus"; lo stesso progetto politico dei ribelli non aveva un solido fondamento limitandosi essi in sostanza a chiedere che il re "eas restituat consuetudines, quas avus eius Rogerius comes a Roberto Guischardo prius introductas observaverit et observari preceperit" (p. 64). L'unica vera vittima della campagna di Puglia fu Enrico Aristippo, che, esaurita la sua funzione di garante, pagò alcuni errori precedenti con l'imprigionamento e la morte.
Giunta così a sistemazione la rivolta di Terraferma, G. poté rientrare con più tranquillità in Sicilia, nei suoi palazzi palermitani; ma qui, di fronte all'ennesimo tentativo di rivolta - sedato in un bagno di sangue - da parte dei detenuti nelle prigioni del castello, decise che fosse utile per la sua sicurezza trasferire i prigionieri distribuendoli in altri castelli e comunque fuori della reggia. Considerandosi ormai libero dal peso del governo, G. avrebbe delegato l'ordinaria amministrazione, concentrando le sue energie nella committenza delle fastose decorazioni musive della cappella Palatina e nella costruzione di una nuova residenza in grado di superare quella della Favara, edificata dal padre, e che viene identificata con la Zisa: "il fastoso palazzo […] a poca distanza da Palermo, il cui stile non solo suggerisce l'artificiosa atmosfera islamica di cui amava circondarsi il figlio di Ruggero II, ma conferma in termini almeno di schemi mentali il progressivo distacco della sua corte dal resto del paese" (Tramontana, p. 628).
Nel corso del 1162 si esaurì l'ennesimo tentativo di Federico I di organizzare una spedizione contro il Regno, nella quale venne coinvolta Pisa, dietro promessa di spropositate ricompense, ma anche Genova, che pur era legata a Palermo dal trattato del 1156; la tremenda epidemia che colse l'armata imperiale alle porte di Roma rese inutili i trattati con le due città marinare.
Il ruolo svolto da Maione nella politica di G. costituisce il momento chiave per l'interpretazione della stesso regno di Guglielmo. Un riscontro dell'importanza raggiunta da Maione si può rinvenire dall'attività della Cancelleria regia: per l'intero regno di G. si conservano soltanto 35 diplomi, affiancati da 59 deperdita. Questo basso grado di produzione di testi deve essere valutato tenendo conto del fatto che ci sono giunti solo 2 diplomi autentici posteriori alla morte di Maione, insieme con la notizia di sette deperdita. È uno dei segnali più evidenti di quale fosse il peso complessivo dell'attività dell'ammiraglio e di quanto fosse scarsa la domanda e ricezione da parte di baroni, città e istituzioni ecclesiastiche di diplomi emanati dalla Cancelleria regia dopo la morte dell'ammiraglio. Larga era comunque l'attività amministrativa della Cancelleria, anche se dell'archivio, dei libri catastali e delle platee non ci è giunto nulla. Con la morte violenta di Enrico Aristippo e quella naturale di Silvestro di Marsico G. inserì nel terzetto dei "familiares regis", accanto a Riccardo Palmer, prima il notaio Matteo d'Aiello (divenuto indispensabile per l'opera di ricostruzione dei perduti registri regi), poi il gaito Pietro. Ma tra loro nessuno ottenne il titolo e la posizione di Maione; anzi, sino al 1177 la stessa carica di emiro sembra essere stata vacante (Ménager, p. 71). Poco sappiamo dell'attività legislativa; una parte delle leggi di G. potrebbero essere confluite all'interno del Liber Augustalis, dove però si trova l'assegnazione di paternità a "Rex Willelmus", senza che sia possibile stabilire con certezza se si tratti di G. o del figlio Guglielmo II. Pare invece infondata l'accusa a G. di aver introdotto con corso forzoso monete di cuoio (Travaini, p. 69).
Anche l'attività culturale non fu assente alla sua corte. La Sicilia di G. come centro di studi filosofici e naturalistici viene celebrata da Enrico Aristippo nella sua traduzione in latino del Fedone: qui la corte di G. è paragonata a una scuola, la sua stessa compagnia a quella di un ginnasio, le sue parole sono considerate aforismi filosofici. Alla sua corte si ferma ancora al-Idrīsī, componendo tra l'altro una nuova versione della Geografia, un testo sulle piante medicinali e un perduto Giardini della gioia e piaceri dell'anima; si tratta della conferma di un buon legame con la componente musulmana della corte e della società sicula.
Nella quaresima del 1166 G. fu colpito da una nuova malattia, dissenteria con febbri; per tentare una cura venne convocato ancora una volta lo stesso Romualdo Guarna, famoso anche per le sue conoscenze mediche, ma il re - nell'interessata versione dello stesso Romualdo - fidando nella sua intelligenza "sibi nonnisi que ei oportuna videbantur medicamina adhibebat" (p. 252) e vanificò gli sforzi di Romualdo. Questi dovette accontentarsi di raccogliere insieme con il collega reggino e "magnatibus curie convocatis" (ibid.) le ultime volontà del moribondo. G. assegnava la successione al figlio Guglielmo, mentre a Enrico confermava il Principato di Capua; affidava la reggenza alla moglie Margherita di Navarra, la quale doveva essere affiancata dai tre familiares (Riccardo Palmer, Matteo d'Aiello e il gaito Pietro; quest'ultimo espunto però da Romualdo). La morte colse G. nel pomeriggio del 7 maggio 1166 a Palermo, all'età di 46 anni.
La prudenza con la quale G. agì sul letto di morte fu sopravanzata dalla reggente e dai suoi consiglieri. Per contenere le forze avverse che potevano scatenarsi al momento delicato della successione, Margherita fece subito aprire le carceri e sopprimere i tributi imposti dal marito a terre e città ribelli, iniziativa che Romualdo assegna già allo stesso sovrano ormai moribondo. I reggenti attesero qualche giorno prima di divulgare la notizia della morte del sovrano sia temendo colpi di mano tra la plebe, sia per presentare come un fatto già acquisito l'incoronazione del successore Guglielmo II. Si deve a questa preoccupazione il fatto che in alcune fonti tanto commemorative (Necrologi cassinesi, Necrologio del Liber confratrum…), quanto narrative (Annales Casinenses), la morte di G. venga ricordata al 15 maggio, giorno in cui probabilmente ebbero luogo le esequie ufficiali, seguite dalla sepoltura nella cappella Palatina e poi nel chiostro di Monreale.
Fonti e Bibl.: Romualdo Guarna (Salernitano), Chronicon, a cura di C.A. Garufi, in Rer. Ital. Script., 2a ed., VII, 1, ad ind.; Annales Palidenses, a cura di G.H. Pertz, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, XVI, Hannoverae 1859, pp. 48-98; Annales Casinenses, a cura di G.H. Pertz, ibid., XIX, ibid. 1866, p. 312; Ottonis et Rahewini Gesta Friderici I imperatoris, a cura di G. Waitz, ibid., Scriptores rer. Germ. in usum scholarum, XLVI, ibid. 1912, ad ind.; Iohannes Cinnamus, Epitome rerum ab Ioanne et Alexio Comnenis gestarum, a cura di A. Meineke, Bonn 1836, ad ind.; U. Falcando, La Historia o Liber de Regno Sicilie, a cura di G.B. Siragusa, in Fonti per la storia d'Italia [Medio Evo], XXII, Roma 1897, ad ind.; Necrologio del "Liber confratrum" di S. Matteo di Salerno, a cura di C.A. Garufi, ibid., LVI, ibid. 1922, p. 70; I necrologi cassinesi, a cura di M. Inguanez, I, ibid., LXXXIII, ibid. 1941, c. 290v; Henricus Aristippus, Phaedo, in Plato Latinus, a cura di L. Minio Paluello, II, Londinii 1950, p. 89; Bosone, Vitae Adriani IV et Alexandri III, in Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, II, Paris 1955, p. 393; Iohannes Saresberiensis, Historia pontificalis, a cura di M. Chibnall, London 1956, p. 68; Catalogus baronum, a cura di E. Jamison, in Fonti per la storia d'Italia [Medio Evo], CI, t. 1, Roma 1972; Commentario, a cura di E. Cuozzo, ibid., CI, t. 2, ibid. 1984, ad ind.; Guillelmi I regis diplomata, a cura di H. Enzensberger, Köln-Weimar-Wien 1996; O. Hartwig, Re G. I e il suo grande ammiraglio Majone di Bari. Contributo alla critica della Historia del creduto Hugo Falcandus, in Arch. stor. per le provincie napoletane, VIII (1883), pp. 397-485; F. Chalandon, Histoire de la domination normande en Italie et en Sicile, II, Paris 1912, pp. 167-304; E. Jamison, The Norman administration of Apulia and Capua more especially under Roger II and William I, in Papers of the British School at Rome, VI (1913), pp. 11-481; G.B. Siragusa, Il regno di G. I in Sicilia illustrato con nuovi documenti, Palermo 1929; P. Lamma, Comneni e Staufer, I, Roma 1955, pp. 149-311; L.-R. Ménager, Amiratus-ΆμηϱᾶϚ. L'émirat et les origines de l'amirauté (XIe-XIIIe siècles), Paris 1960, pp. 55 s., 67-72; M. Caravale, Il Regno normanno di Sicilia, Milano 1966, ad ind.; H. Hoffmann, Hugo Falcandus und Romuald von Salerno, in Deutsches Archiv, XXIII (1967), pp. 116-170; A. Ancora, Alcuni aspetti della politica di Maione di Bari, in Studi storici in onore di Gabriele Pepe, Bari 1969, pp. 303-316; J. Deér, Papsttum und Normannen. Untersuchungen zu ihren lehnsrechtilichen und kirchenpolitischen Beziehungen, Köln 1972, pp. 246-255; N. Kamp, Kirche und Monarchie im staufischen Königreich Sizilien, I, Prosopographische Grundlegung, I-IV, München 1973-82; V. D'Alessandro, Storiografia e politica nell'Italia normanna, Napoli 1978, pp. 206-214; H. Enzensberger, Der "BÖse" und der "Gute" Wilhelm. Zur Kirchenpolitik der normannischen Könige von Sizilien nach dem Vertrag von Benevento (1156), in Deutsches Archiv, XXXVI (1980), pp. 385-432; F. Giunta, Il Regno tra realtà europea e vocazione mediterranea, in Potere società e popolo nell'età dei due Guglielmi. Atti delle IV Giornate normanno-sveve, Bari-Gioia del Colle… 1979, Bari 1981, pp. 9-29; V. D'Alessandro, Corona e nobiltà nell'età dei due Guglielmi, ibid., pp. 63-79; H. Enzensberger, Il documento regio come strumento di potere, ibid., pp. 103-138; Id., Utilitas regia. Note di storia amministrativa e giuridica e di propaganda politica nell'età dei due Guglielmi, in Atti dell'Accademia di scienze, lettere e arti di Palermo, s. 5, I (1982), pp. 23-61; S. Tramontana, La monarchia normanna e sveva, in Storia d'Italia (UTET), III, Torino 1983, pp. 615-629; E. Cuozzo, L'unificazione normanna e il Regno normanno-svevo, in Storia del Mezzogiorno, II, 2, Napoli 1989, pp. 656-667; E. Borsook, Messages in mosaics. The royal programmes of Norman Sicily (1130-1187), Oxford 1990, ad ind.; G. Cantarella, Scene di folla in Sicilia nell'età dei due Guglielmi, in A Ovidio Capitani. Scritti degli allievi bolognesi, Bologna 1990, pp. 9-37; D. Abulafia, Le due Italie, Napoli 1991, pp. 137-201; H. Houben, Barbarossa und die Normannen. Traditionelle Züge und neue Perspektiven imperialer Süditalienpolitik, in Friedrich Barbarossa…, a cura di A. Haverkamp, Sigmaringen 1992, pp. 109-128; H. Takayama, The administration of the Norman Kingdom of Sicily, Leiden-New York-Köln 1993, ad ind.; G.M. Cantarella, Falcando, Ugo, in Diz. biogr. degli Italiani, XLIV, Roma 1994, pp. 240-247; L. Travaini, La monetazione nell'Italia normanna, Roma 1995, ad ind.; T. Reuter, Vom Parvenü zum Bündnispartner: das Königreich Sizilien in der abendländischen Politik des 12. Jahrhunderts, in Die Staufer im Süden. Sizilien und das Reich, a cura di T. Kölzer, Sigmaringen 1996, pp. 43-56; B. Pio, G. I d'A. Gestione del potere e lotta politica nell'Italia normanna (1154-1169), Bologna 1996; G.A. Loud, William the Bad or William the Unlucky? Kingship in Sicily, 1154-1166, in The Haskins Society Journal, VIII (1996), pp. 99-113; G.M. Cantarella, Principi e corti. L'Europa del XII secolo, Torino 1997, ad ind.; D.J.A. Matthew, I Normanni in Italia, Roma-Bari 1997, ad ind.; H. Houben, Ruggero II di Sicilia. Un sovrano tra Oriente e Occidente, Bari-Roma 1999, pp. 124-129, 196-217; Lexikon des Mittelalters, IX, coll. 131 s.