GUGLIELMO II d'Altavilla, re di Sicilia
Terzo figlio maschio di Guglielmo I, re di Sicilia, e di Margherita di Navarra; la data di nascita può essere verosimilmente fissata al mese di dicembre del 1153 in quanto al momento della morte del padre (maggio 1166) era nel dodicesimo anno di età, e incominciò a governare da solo nel dicembre 1171.
Suoi fratelli furono Ruggero (m. 1161), Roberto (m. prima del 1166) ed Enrico. L'educazione dei figli era stata a suo tempo affidata da Guglielmo I a Gualtiero, all'epoca arcidiacono di Cefalù e poi destinato a una brillante carriera di corte, mentre per un anno - nel 1167-68 - gli si affiancò anche Pietro di Blois, chierico giunto al seguito di Stefano di Perche e fuggito rapidamente di fronte alle trame ostili della corte palermitana.
La successione del dodicenne G. venne sancita dal padre, gravemente ammalato, nella primavera del 1166 alla presenza di Romualdo Guarna, arcivescovo di Salerno - nella sua duplice veste di medico e di consigliere del re -, di Ruggero, arcivescovo di Reggio, e "magnatibus curie convocatis" (Falcando, p. 88). Guglielmo I assegnava la successione a G., mentre all'altro figlio, Enrico, confermava il Principato di Capua; affidava la reggenza e la tutela del minore alla moglie Margherita, la quale doveva essere a sua volta affiancata da tre familiares (il vescovo eletto di Siracusa, Riccardo Palmer, il notaio Matteo d'Aiello e il gaito Pietro; quest'ultimo non citato da Romualdo).
Per il periodo della minorità di G. la fonte più interessante e ricca di particolari è l'Historia o Liber de Regno Sicilie, cronaca attribuita a Ugo Falcando, ma di cui non si conosce l'autore. Questi conferma il suo giudizio negativo sulla condotta della monarchia siciliana dopo la morte di Ruggero II e anzi, sin dall'esordio del nuovo regno, ricordando la morte del primogenito di Guglielmo I, Ruggero, avvenuta nel corso della rivolta baronale del 1161, sostiene che era questo il tributo pagato alla tradizione tirannica della Sicilia, dove gli eredi validi muoiono presto e sopravvivono solo i peggiori (p. 61), coinvolgendo in questo giudizio negativo il piccolo Guglielmo. Non è forse neppure casuale che il Liber si chiuda con il fosco quadro del grande terremoto che devastò Catania nel febbraio 1169, quasi a funesto presagio degli sviluppi del regno autonomo di G., che non viene però trattato. Più ampio cronologicamente è il periodo trattato nel Chronicon di Romualdo Guarna (Romualdo Salernitano), fidato consigliere tanto di G. quanto di suo padre. La sua narrazione, di testimone e protagonista, si perde però in scenari ampi e giustapposti e si arresta al 1178, dopo la chiusura della pace di Venezia; oltre questo anno non esistono altre testimonianze narrative il cui fulcro sia costituito dalle vicende della monarchia siciliana e bisogna quindi ricorrere esclusivamente a informazioni riccamente sparse in altre fonti.
Il Consiglio di reggenza tardò a rendere pubblica la notizia della morte del re, avvenuta il 7 maggio, per garantirsi il tempo di organizzare l'incoronazione del successore; questa venne compiuta in tutta fretta proprio per mano dell'arcivescovo di Salerno, non senza però venire meno alla pubblicità e solennità connesse con il rito stesso. Il 17 maggio si procedette alla cerimonia di incoronazione del giovane Guglielmo.
Le prime decisioni della reggente furono all'insegna della riconciliazione: Margherita liberò dalle carceri quanti erano detenuti in seguito alle rivolte del decennio precedente e soppresse i pagamenti per la redemptio imposti dal marito a terre e città ribelli; Romualdo ritiene, peraltro, che l'avvio di questi condoni sarebbe da attribuire al moribondo Guglielmo I, stabilendo quindi una continuità d'azione tra i coniugi. La stessa sovrana, per favorire l'opera di riavvicinamento con il baronaggio, accettò di infeudare gran parte delle contee che, dopo le sommosse contro il marito, erano rimaste vacanti (Molise, Andria, Fondi, Albe, Loreto, Sangro, Montescaglioso) e accettò che rientrassero nel Regno anche esiliati di rilievo, che vennero in seguito del tutto recuperati nelle strutture del Regno di G. (in primo luogo Tancredi di Lecce, ma anche Ruggero Dell'Aquila, de Medania e di Sanseverino, nonché Roberto di Loritello). Negli stessi anni di reggenza (1167-68) venne effettuata l'ultima revisione in età normanna del Catalogus baronum, che testimonia (almeno per le due grandi province di Apulia e Principato di Capua) della capacità della monarchia di esigere e controllare la prestazione del servizio militare.
Il quinquennio di reggenza di Margherita non ha goduto molta fortuna nella critica storica, fuorviata anche dal quadro negativo che di esso fornisce Falcando. Secondo il cronista la regina avrebbe in questi anni duplicato l'esperienza già vissuta con l'ammiraglio Maione prima del 1160. Ella infatti fece giungere in Sicilia un suo energico parente, Stefano di Perche, con il quale (come Falcando sostiene essere avvenuto anche con Maione) avrebbe avviato una relazione. Come per Maione anche per Stefano di Perche la colpa più grave sembra quella di essere esterno alla nobiltà feudale del Regno e anche a quella che si andava consolidando negli uffici di corte; l'errore ulteriore commesso fu quello di aver preteso una rigida applicazione di principî di giustizia, senza tener conto delle consuetudini e delle connivenze che ormai si erano radicate nella corte.
Gli anni della reggenza non furono tranquilli, furono anzi segnati dai ripetuti tentativi di elementi del baronaggio di rafforzare la loro posizione all'interno del Consiglio regio. Così, rapidamente, il gaito Pietro, che vi aveva un ruolo preminente, decise di fuggire dalla Sicilia con un buon bottino, giocando d'anticipo su chi tramava attentati contro di lui. Il suo posto venne preso - dopo una fugace comparsa di Gilberto di Gravina - da Riccardo de Mandra, creato conte di Molise, estraneo ai rapporti parentali che tenevano legati tutti i conti con la famiglia reale e per ciò stesso rappresentante ambiguo del ceto baronale. Falcando registra anche la presenza nel Consiglio dei due gaiti, Martino (maestro della dogana) e Riccardo (maestro camerario). Ma l'adeguamento di questo organismo alle aspirazioni baronali venne vanificato dall'arrivo in Sicilia di Stefano di Perche, cugino della madre della regina, il quale fu nominato rapidamente cancelliere e addirittura, nel novembre del 1167, in una volta sola, sacerdote e arcivescovo di Palermo. Le capacità di governo di Stefano, la sua inflessibilità e il desiderio di controllare il corretto funzionamento dell'amministrazione ampliarono ben presto il dissenso nei confronti di lui e della regina. A capo degli oppositori finì per collocarsi proprio il fratello della regina, e zio di G., Enrico (Roderico) conte di Montescaglioso, mentre crescevano pure le mire di Gilberto di Gravina, anch'egli consanguineo della regina. Per far fronte alla crescente opposizione Stefano si spostò nel dicembre del 1167 da Palermo, che era da poco diventata la sua sede vescovile, nella greca Messina, portando con sé la regina e il giovane G.; ma anche qui la popolazione cittadina si mostrò alla fine non molto favorevole al cancelliere e alla regina e più soggetta alle suggestioni provenienti dalla nobiltà. Una prima congiura guidata da Enrico di Montescaglioso e fiancheggiata da Riccardo di Molise venne sventata (ma anche il notaio Matteo e il gaito Riccardo finirono in prigione), mentre a marzo il giovane re rientrava già a Palermo. Nel corso del 1168 dalla città di Messina partì un ampio moto di rivolta, indirizzato prima contro alcuni collaboratori francesi di Stefano e poi in maniera più esplicita contro la sua stessa persona. La plebe palermitana sembra aver a lungo oscillato e alla fine decise di attaccare il Perche contando di trarre maggior bottino dal saccheggio delle sue case. Nello scoppio del tumulto compare nuovamente G., che con il suo affacciarsi dalle finestre del palazzo riuscì a impedire il linciaggio del conte Ruggero di Avellino, mentre venne dissuaso dall'intervenire in aiuto dell'assediato Stefano, sino a che nell'estate del 1168 quest'ultimo non si decise a rinunciare a tutte le sue cariche - compresa quella arcivescovile - per avere salva la vita e partire per la Terrasanta.
Conseguentemente la reggente fu costretta ad accettare un inusitato ampliamento del Consiglio di reggenza, che tradisce la mancanza di un preciso piano nella sua costituzione e la temporanea preponderanza degli elementi ecclesiastico e baronale.
Vi entrarono a far parte Riccardo Palmer, Gentile vescovo di Agrigento, Romualdo Guarna, Giovanni vescovo di Malta, Gualtiero canonico, Ruggero conte di Geraci, Riccardo de Mandra, Enrico conte di Montescaglioso, Matteo d'Aiello e il gaito Riccardo. La prima decisione del nuovo Consiglio fu quella di liberarsi dell'altro ingombrante parente della regina, Gilberto di Gravina, che venne costretto ad abbandonare il Regno. In compenso proprio l'ampiezza del numero dei componenti costituì un elemento di debolezza del Consiglio, al cui interno emerse in tempi rapidi il canonico Gualtiero che si fregiava del titolo di protofamiliaris (che per decenni è stato malamente letto e interpretato dalla storiografia come "Offamil", facendo di Gualtiero un inglese), grazie alla decisione del papa Alessandro III di affidare a lui la contrastata sede arcivescovile di Palermo (28 sett. 1169). Poco dopo la sua elezione, Gualtiero riuscì a restringere nuovamente il Consiglio, nel quale associò soltanto il notaio Matteo e Gentile di Agrigento. Nel Consiglio si intrecciavano e venivano rappresentate con alterni equilibri le diverse componenti: quella baronale, quella ecclesiastica, quella dei notai e della Cancelleria, quella dei gaiti musulmani e quella araba in generale, anche se quest'ultima appare in regresso.
I primissimi anni della minorità di G. furono caratterizzati dalla minaccia di una concretizzazione delle aspirazioni di Federico I Barbarossa a sottomettere il Regno; le ambizioni dell'imperatore vennero però frustrate da un'epidemia diffusasi a Roma nell'estate del 1167. Contemporaneamente la nascita del primo nucleo della Lega lombarda e la fondazione della città simbolo della alleanza tra Comuni e Papato, Alessandria, giovarono indubbiamente anche alla reggente, liberata da un pericoloso avversario in politica estera, e fornirono a G. un solido punto di riferimento contro le future macchinazioni imperiali. Nel 1167 i Pisani presero atto dello scarso frutto che avevano tratto dall'alleanza con l'imperatore contro la Sicilia e cercarono, ottenendolo, un accordo di pace con la reggente. Anche i rapporti con Manuele I Comneno subirono una netta evoluzione. Inizialmente i piani orientali puntavano a un'alleanza con la Sicilia e il papa, oltre che con Venezia, che portasse al ripristino della autorità bizantina su una parte della penisola. Ma dopo il 1167 i rapporti di Bisanzio con la Repubblica lagunare si deteriorarono, mentre si strinsero quelli tra Siculi e Veneti. Il patto del 1175 con Venezia segnò il tornante nelle alleanze, con il distacco di questa dal Comneno, anche se i rapporti con Venezia non furono subito tranquilli, e strascichi dei reciproci sospetti furono palpabili durante le trattative di pace del 1177. Genova soltanto, nonostante il suo maggior coinvolgimento nei commerci siciliani, tardò a trovare un accordo. A ogni modo la soluzione della crisi con il Barbarossa dopo il 1177 aprì anche per la Sicilia e il Regno un decennio di pacifica interazione e collaborazione tra i mercanti genovesi, pisani, lucchesi e i Regnicoli (Abulafia, 1991).
In definitiva la reggenza di Margherita appare, come sostiene Cuozzo (1989), innanzitutto caratterizzata dallo sforzo, riuscito, di garantire continuità e normalità alla monarchia; si trattò quindi tutt'altro che di una parentesi di crisi tra i due Guglielmi.
Nel dicembre del 1171 finalmente G. usciva dalla minore età.
Di lui i cronisti mettono in risalto l'accattivante bellezza fisica, di cui fece già sfoggio durante la cavalcata nel giorno della incoronazione ("erat autem eius puer pulcritudinis que facilius quidem parem excludere videretur, quam superiorem amictere": Falcando, p. 90) e che costituisce uno dei punti caratterizzanti la figura di G., sino a contribuire alla costruzione del mito del "buon" Guglielmo: è la forza irresistibile dell'associazione delle virtù (in questo caso anche di governo) con la bellezza.
La storiografia continua peraltro a sottolineare l'ambiguità della personalità di G., sfuggente e poco definita, capace di dotare riccamente monasteri e diocesi e allo stesso tempo insinuare l'immagine di un sovrano profondamente influenzato da modelli di vita provenienti dalla cultura musulmana, più ancora che i suoi avi. Non a caso Chalandon riteneva che in lui erano scomparse le "fortes qualités" della stirpe di Ruggero II. È oggettivamente difficile valutare l'impatto diretto della sua azione nel governo del Regno, in quanto egli lasciò indubbiamente ampio spazio di azione e manovra ai suoi funzionari.
I primi organismi ai quali G. fece riferimento nella sua politica di governo furono il Consiglio ristretto dei familiares regis e la più larga Curia regis, che a partire proprio dai primi anni di governo di G. perdette quei caratteri di vaghezza nella definizione dei suoi compiti e ruoli, per divenire uno stabile strumento di governo, alla quale facevano capo, insieme con il logoteta, i vertici degli organismi amministrativi esistenti.
La riduzione del numero dei membri del Consiglio ristretto dei familiares regis restò invece costante. Nel dicembre del 1171, alla morte di Gentile, fu il fratello di Gualtiero ed eletto di Agrigento, Bartolomeo, a subentrare nel Consiglio. Nel 1177 si registra il ritorno di Riccardo Palmer, che dopo l'ascesa al seggio di Messina (1182) lasciò nuovamente il suo posto a Bartolomeo (1184). Nel 1184 si assiste all'ultimo cambiamento che, con l'introduzione del primo arcivescovo di Monreale, Guglielmo (che aveva ricevuto la bolla di nomina nel febbraio 1183 da Lucio III), portò stabilmente il numero dei consiglieri da tre a quattro.
All'interno del Consiglio spiccavano Gualtiero e Matteo d'Aiello. Quest'ultimo ricopriva solo la carica di vicecancelliere e non di cancelliere. Tale carica, dopo la fuga di Stefano di Perche, non venne più attivata, così come quella di amiratus amiratum non venne più rivestita dopo l'uccisione di Maione; anche il più semplice titolo di amiratus ricomparve solo nel 1177, con Riccardo di Fondi e Gualtieri di Moac, per divenire dal 1180 una carica non più amministrativa ma prettamente militare; con questa valenza la ricoprirono Tancredi di Lecce e Margarito di Brindisi.
Più complessa e discussa nella critica è la vicenda della duana de secretis e della duana baronum, con i corrispettivi arabi (dīwān al-ma'mūr e dīwān at-taḥqīqal-ma'mūr), nonché greci; dalla incertezza lessicale delle fonti discendono in buona misura le oscillazioni della storiografia.
Mentre la duana de secretis era già attiva in età ruggeriana, con alla testa musulmani convertiti (il magister camerarius regii palatii) e finalità essenzialmente fiscali relative alla Sicilia e parte della Calabria, la duana baronum fu probabilmente attivata solo durante la reggenza di Margherita, intorno al 1168, con sede a Salerno e giurisdizione fiscale sul continente, nonché di controllo sui feudi quaternati. L'efficacia di questo nuovo organismo può essere confermata anche dalla scomparsa dopo il 1168 di vere rivolte baronali sul continente. Secondo le tesi ultime di Takayama la duana de secretis e il dīwān al-ma'mūr andrebbero tenuti distinti, in quanto erano organismi che avevano entrambi sede a Palermo, ma che si occupavano di branche distinte dell'amministrazione regia. Vi era anche un'apertura bilanciata alla presenza della componente - mai assente - musulmana a corte; anzi, nella persona del gaito Riccardo, gran camerario e maestro della duana de secretis, essa ascende ancora ai massimi livelli della burocrazia.
Nonostante tali innovazioni, così puntualmente descritte da Falcando, nelle fila della burocrazia i mutamenti sembrano essere stati molto più lievi. Per esempio, non vi è alcuna rottura nel passaggio dall'uno all'altro Guglielmo per quanto riguarda i notai attivi presso la Cancelleria; il caso dello stesso Matteo d'Aiello, sempre riemerso dalle accuse e condanne, è emblematico dell'importanza che l'esperienza amministrativa aveva ormai per il funzionamento dell'intera macchina del potere regio.
All'età di G. si può in sostanza anche riferire la celebre raffigurazione nel Liber ad honorem Augusti (o De rebus Siculis) di Pietro da Eboli, dove sono effigiate tre coppie di notai che lavorano per le tre differenti lingue usate nel Regno: latino, greco e arabo. Sotto G. l'incremento e il perfezionamenti dell'apparato burocratico sono testimoniati anche dall'aumento del numero conservato o menzionato di mandati, che afferiscono tanto a casi di giurisdizione delegata quanto a provvedimenti di natura fiscale; particolare rilievo avevano quelli per la pubblicazione nel Regno dei provvedimenti legislativi del re e che in parte sono confluiti nel Liber Augustalis federiciano. D'altronde proprio con l'inizio del regno autonomo di G. si registra l'assegnazione più diffusa e ormai ordinaria di gran parte delle cause trattate sino ad allora nella Magna Curia in Palermo ai maestri giustiziari e ai connestabili attivi nelle diverse province del Regno; si trattava di un innegabile vantaggio per i sudditi, che vedevano amministrata la giustizia senza dover necessariamente ricorrere (se non in ultima istanza) a Palermo. Contestualmente anche i distretti dei maestri giustiziari cominciano a meglio delinearsi, ad acquisire anche un profilo territorialmente autonomo e definito, che prescinde dalla persona stessa di colui che temporaneamente riveste una carica: solo sotto G. il nome dell'ufficiale prende a essere stabilmente seguito dal genitivo del distretto di pertinenza. Attraverso ufficiali sovraprovinciali come il magister iusticiarius Apulie etTerre Laboris, che praticamente copriva quasi tutta la Terraferma, il re aveva anche la possibilità di controllare l'operato dei giustiziari provinciali. Parallelamente venne ricucito anche il rapporto con i centri urbani; per un verso G. provvide al riconoscimento delle consuetudini cittadine con una serie di statuti; in bilanciamento si rafforzarono i ruoli dei funzionari regi nelle città (giudici, catapani, strateghi), attivi non in contrasto ma in collaborazione con le Comunità locali.
Per quanto riguarda il comportamento nei confronti della Curia e degli ambienti ecclesiastici, da parte di G. non esiste una vera frattura rispetto alla politica perseguita dal padre, il Guglielmo poi condannato all'epiteto di "Malo": entrambi furono ben attenti a mantenere il controllo, solo in parte riconosciuto dai trattati con il pontefice, su tutte le elezioni ecclesiastiche all'interno del Regno (D'Alessandro, Enzensberger). Nel 1174 G. fondò e dotò riccamente il monastero di S. Maria la Nuova a Monreale, edificato con grande rapidità e insignito del titolo arcivescovile nel 1183, benché si collocasse alle porte di Palermo; era anche una diminuzione di prerogative per il prelato palermitano, che vedeva così ridursi il suo raggio di azione e crescere i pericoli di un confronto con un pari grado la cui elezione veniva direttamente approvata dal re. In compenso Gualtiero poté iniziare le operazioni per la costruzione del nuovo duomo palermitano.
La fondazione di Monreale aveva comunque molteplici significati, in quanto andava a fondere in un unico disegno il modello della "cappella palatina", del monastero dinastico (qui dovevano essere sepolti i membri della famiglia Altavilla, prendendo definitivamente il posto della Ss. Trinità di Venosa), della sede arcivescovile. Il modello iconografico che qui venne enfatizzato con il trono e l'incoronazione di G. per tramite dello stesso Cristo riprendeva e amplificava quanto già realizzato sotto il nonno Ruggero II. Attraverso l'esaltazione nei temi figurativi e nelle arenghe dei diplomi, G. e i suoi familiares contribuiscono ad abbandonare la giustificazione ministeriale del potere regio, per accentuarne il rapporto diretto con Cristo e l'assenza di altri condizionamenti. Le virtù che più frequentemente vengono ascritte al sovrano sono clemenza, liberalità, benevolenza, ma anche pietas e misericordia, che rendevano più evidente una cesura rispetto ai due predecessori che avevano invece istillato timor nei sudditi.
Nel 1177 G. si sposò con Giovanna d'Inghilterra, figlia di Enrico II.
Già durante la minorità vi erano state ambascerie tra Bisanzio e Palermo e proposte bizantine, allo scopo di tenere occupata la diplomazia sicula. Solo nel corso del 1172 le trattative divennero più concrete e G. accettò la proposta dell'imperatore Manuele I Comneno di impalmare sua figlia Maria; ma G. attese invano l'arrivo della promessa sposa, perché nel frattempo Manuele aveva cambiato idea, forse in seguito a trattative con lo stesso Barbarossa. Romualdo ritenne comunque la successiva disfatta di Manuele a Miriokephalon come una giusta punizione per non aver mantenuto i patti. Fallito il progetto di matrimonio con la principessa bizantina, papa Alessandro III si oppose nel 1173 al matrimonio tra G. e Sofia, figlia di Federico I. Si tratta della prima ed evidente prova di un mutamento nella politica di Federico, ormai pronto, dopo il disastro romano del 1167, a cercare un accomodamento con il re di Sicilia. In alternativa il papa riuscì a imporre proprio il fidanzamento con Giovanna, riprendendo un disegno che era stato già ventilato durante la crisi di Thomas Becket; si trattava comunque di un'unione di alto profilo. Dopo un lungo viaggio, che in parte venne condotto per via di terra, finalmente nel febbraio del 1177 vennero solennemente celebrate le nozze a Palermo, precedute dall'incoronazione della nuova coppia regale; alla regina venne anche assegnata una consistente dote (l'Honor Montis S. Angeli e i monasteri di S. Maria di Pulsano e di S. Giovanni in Lamis), che diverrà appannaggio tradizionale delle consorti regie.
Nell'inverno tra il 1176 e il 1177 Alessandro III si recò da Anagni a Vieste sul Gargano per imbarcarsi, in una stagione non felice, alla volta delle coste venete, da dove avrebbe poi dovuto proseguire per Bologna e incontrare i delegati imperiali per concludere una tregua nel conflitto che coinvolgeva pressoché tutta la penisola e che con la battaglia di Legnano era giunto a una svolta. In realtà la trattativa si protrasse per tutta l'estate ed ebbe luogo tra Ferrara, Chioggia e Venezia. In quell'occasione G. fu rappresentato ufficialmente da Romualdo Guarna e da Ruggero di Andria.
Importante per comprendere gli orientamenti di G. è il discorso che Romualdo avrebbe tenuto ai convenuti in quella circostanza. Il fatto che esso sia inserito dallo stesso Romualdo nel suo Chronicon lo rende verosimile, così come il suo ruolo ufficiale legittima una sostanziale coincidenza tra le sue opinioni e quelle del sovrano, fatto salvo ovviamente l'intento propagandistico che il discorso e la sua inserzione nell'opera non potevano non avere. Qui il Guarna insiste sul ruolo che G. intendeva svolgere quale difensore dei cristiani, in particolare dei pellegrini diretti in Terrasanta; anzi G. sarebbe stato l'unico sovrano a cercare di contrastare l'avanzata saracena contro il Santo Sepolcro e avrebbe dovuto guardarsi anche dagli attacchi degli altri sovrani cristiani; l'imperatore, dunque, non poteva non prediligere su tutti proprio il principe di Sicilia. Sempre Romualdo, che conclude con espressioni quasi profetiche in merito a un'unione fra Impero e Regno di Sicilia, aggiunge nel Chronicon il testo completo dell'accordo raggiunto.
I due rappresentanti rientrarono nel Regno per relazionare al sovrano nell'agosto del 1177: il successo diplomatico per G. fu innegabile in quanto con l'accordo veniva riconosciuto dall'imperatore il diritto del sovrano a sedere al tavolo delle trattative. Lo stesso pontefice sia nel viaggio di andata sia in quello di ritorno preferì, per la sua sicurezza, viaggiare nei territori sottomessi a G.: era anche questa un'ulteriore prova di fiducia nei confronti del re di Sicilia.
In realtà, negli anni successivi, a fronte del moltiplicarsi delle notizie sui rapporti con l'imperatore svevo, diminuiscono quelle relative alla corte pontificia. La situazione fu ulteriormente mutata con l'avvento al pontificato di Lucio III, succeduto ad Alessandro III nel 1181 e con la sottoscrizione della pace di Costanza che contribuì a rendere non più indispensabile l'alleanza tra Regno e Papato contro il comune nemico, nonché dagli insospettabili sviluppi che conobbero le relazioni con Federico I.
Questo non impedì comunque che, nel corso degli anni successivi, G. intervenisse in Oriente, presentandosi sempre come protettore dei cristiani. Già nel 1174 - meno probabilmente sin dal 1169 - G. aveva inviato una flotta in aiuto di Amalrico, re cristiano di Gerusalemme, con un'azione dimostrativa contro Alessandria d'Egitto della flotta guidata dal conte di Lecce Tancredi. Negli anni successivi non mancarono nuove comparse della flotta normanna sulle coste egizie, senza però una particolare strategia di conquista. Altri obiettivi distraevano le forze disponibili. Con gli Almohadi G. preferì, intorno al 1180, concludere una tregua decennale, con la probabile fissazione di un tributo da parte musulmana, e lasciarsi così campo libero nei confronti degli Ayyubiti di Saladino. Nel 1182 ebbe scarsa fortuna una spedizione contro le Baleari, che non venne ripetuta - come previsto - nel 1185 solo a causa dell'evoluzione della situazione a Bisanzio.
Dopo la morte, nel settembre del 1180, di Manuele I Comneno l'erede designato, Alessio II, venne assassinato e il trono usurpato dallo zio Andronico. Alla corte di G. comparve allora un individuo che pretendeva di essere Alessio II: il re normanno colse l'occasione per attaccare Bisanzio e intronizzare il presunto Alessio. La spedizione, dopo accurati preparativi, venne avviata nel giugno del 1185, sotto il comando di Tancredi e la copertura del presunto Alessio; la prima tappa fu Durazzo, da dove partì anche un corpo di spedizione per via di terra, lungo la via Egnazia. Nella notte tra il 23 e il 24 agosto Tessalonica fu presa dai Normanni e anche Bisanzio sembrava finalmente a portata di mano; ma nella città imperiale si fece barbara e violenta giustizia dell'incapace Andronico, sostituito da Isacco Angelo, e si diede nuovo impulso alla difesa contro l'attacco normanno. Dopo i gravi insuccessi iniziali l'esercito bizantino si riorganizzò e sul finire dell'estate la grande flotta normanna rientrò in Sicilia senza colpire direttamente la capitale e abbandonando anche Tessalonica.
Negli anni successivi, sotto la guida di Margarito da Brindisi, la flotta normanna fu comunque in grado di ben figurare negli scontri con quella bizantina, schierandosi a fianco di Isacco Comneno che si era autoproclamato imperatore a Cipro. Fu solo la presa di Gerusalemme (1187) a dirottare definitivamente gli interessi di G. da Bisanzio verso la Terrasanta. Secondo Pietro di Blois (epistola n. 207), G. alla notizia della caduta della città santa avrebbe addirittura deciso di indossare il cilicio e, dopo quattro giorni di lamenti, di fare voto di aiutare i Regni cristiani in Terrasanta. Ovviamente egli aderì alla crociata voluta da Gregorio VIII nel corso del suo breve pontificato (21 ottobre - 17 dic. 1187) e dalla primavera del 1188 cominciò a inviare parte della flotta a scopo dimostrativo in aiuto di Tripoli e Tiro; solo la morte improvvisa gli impedì probabilmente di partecipare direttamente alla terza crociata.
Negli stessi anni l'altro fronte in politica estera, quello con l'imperatore svevo, conobbe insospettabili sviluppi. Furono infatti avviate trattative segrete - di cui pressoché nulla sappiamo - volte a una unione tra Costanza, ultima figlia in vita di Ruggero II, e quindi zia dello stesso G., nonché migliore candidata alla successione al trono, e il figlio maggiore di Federico, Enrico VI, anch'egli espressamente designato a succedere al padre. L'annuncio ufficiale del fidanzamento di Enrico VI con Costanza venne dato il 29 ott. 1184 ad Augusta, mentre il matrimonio venne celebrato a Milano il 27 genn. 1186.
Il contratto matrimoniale, nonostante la giovane età di G. e della moglie Giovanna, nonché l'età più avanzata di Costanza, prevedeva già espressamente il caso di mancata successione diretta per il re. È anche noto che, contro i piani di Gualtiero di Palermo, una parte della Curia, con alla testa il veterano Matteo d'Aiello e altri esponenti della nobiltà, era contraria a questa alleanza matrimoniale, mentre il Papato, l'altra istituzione danneggiata dall'accordo, era in quegli anni rappresentato da Lucio III (1181-85) e non fu in grado di opporsi ai piani dei due sovrani. Non bisogna in tutto questo neanche sottovalutare una precisa scelta da parte del sovrano che, sebbene non compaia nelle fonti, è comunque colui che in ultima analisi decise l'orientamento per la successione.
Alle spalle della scelta dello "sconsiderato matrimonio" (Tramontana, p. 645) vi erano mutate prospettive nella politica estera: l'alleanza matrimoniale garantiva G. da attacchi del Barbarossa e gli lasciava invece mano libera in Oriente. Resta invece non verificabile l'ipotesi che proprio la conquista di Bisanzio costituisse parte integrante degli accordi matrimoniali. Per contro - se pure G. sperasse ancora di avere eredi diretti - è certo che sin dall'inizio si contemplò la concreta possibilità che la successione andasse a Costanza; già nell'estate del 1185 - prima che avvenissero le nozze - G. riunì una Curia solenne a Troia, presenti anche i futuri protagonisti della rivolta contro Costanza: Tancredi di Lecce, Ruggero di Andria e il vicecancelliere Matteo d'Aiello, nel corso della quale egli ebbe cura di far giurare ai convenuti obbedienza a Costanza nel caso fosse morto senza eredi.
È in questo contesto di riavvicinamento con l'imperatore che nell'estate del 1188 il successore di Gregorio VIII, papa Clemente III, provvide finalmente a rinnovare il legame vassallatico con il Regno, così come in teoria prevedeva l'accordo di Benevento del 1156; il testo del nuovo accordo non è stato tramandato, ma sembra che contenesse clausole positive per il sovrano, che vedeva esentati i suoi successori dall'obbligo della prestazione dell'omaggio. In compenso G. prestò il debito omaggio e si garantì il rispetto del patto siglato nel 1156.
La morte giunta a Palermo il 18 nov. 1189, ad appena 36 anni, avrebbe impedito a G. di dare ulteriore e definitiva sistemazione alle questioni relative alla sua pericolante successione.
Esemplare per la fortuna del regno di G. è il giudizio che in età sveva ne dava Riccardo di San Germano: "tempore quo rex ille christianissimus, cui nullus in orbe secundus, regni huius moderabatur habenas, qui inter omnes principes sublimis et habundans in omnibus opibus erat, stirpe clarus, fortuna elegans, virtute potens, sensu pollens, divitiis opulentus. Erat flos regum, corona principum. Quiritum cultus tempore suo vigebat, in regno sua erat quilibet sorte contentus; ubique pax, ubique securitas, nec latronum metuebat viator insidias, nec maris nauta offendicula pyratarum" (p. 4). Sulla stessa linea si pongono anche la Cronaca di S. Maria di Ferraria e Pietro da Eboli, sino a giungere alla celebrazione dantesca (Par., XX, 61-66). Né va sottovalutato anche il ruolo giocato in questa direzione dai provvedimenti federiciani volti al ripristino delle consuetudini in vigore nell'età di G.; fu questo il caso del provvedimento de resignandis privilegiis, o quello ancora dello Statutum de reparacione castrorum, nel quale una commissione si preoccupò di recuperare e fissare gli elenchi delle Comunità che sotto G. erano incaricate della manutenzione dei singoli castelli curiali. Quella di G. diventava quindi l'età aurea in cui le giuste consuetudini avevano avuto vigore.
Fonti e Bibl.: Romualdo Guarna (Salernitano), Chronicon, a cura di C.A. Garufi, in Rer. Ital. Script., 2a ed., VII, 1, ad ind.; Ryccardus de S. Germano, Chronica, a cura di C.A. Garufi, ibid., VII, 2, ad ind.; A. Dandulus, Chronica per extensum descripta…, a cura di E. Pastorello, ibid., XII, 1, ad ind.; Annales Ceccanenses, a cura di G.H. Pertz, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, XIX, Hannoverae 1866, pp. 275-302; Annales Casinenses, a cura di G.H. Pertz, ibid., pp. 303-320; Rogerius de Hoveden, Gesta Heinrici II et Richardi I, a cura di F. Liebermann, ibid., XXVII, ibid. 1885, pp. 88, 91 s.; Die Konstitutionen Friedrichs II. für das Königreich Sizilien, ibid., Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, II, Supplementum, ibid. 1996; Thomas Cantauriensis, Epistolae, in J.-P. Migne, Patr. Lat., CXC, coll. 508, 624 s., 666 s.; Iohannes Saresberiensis, Epistolae, ibid., CIC, n. 145; Petrus Blesensis, Epistolae, ibid., CCVII, nn. 90, 93, 134, 207; Iohannes Cinnamus, Epitome rerum ab Ioanne et Manuele Comnenis gestarum, a cura di A. Meineke, Bonn 1836, ad ind.; Ibn Giubair, Riḥla (Itinerario), a cura di M. Amari, in Biblioteca arabo-sicula, I, Torino-Roma 1880, pp. 137-180; Ibn al-Aṯīr, Kāmil fê-l-tawarīkh (Il libro perfetto di storia), a cura di M. Amari, ibid., pp. 353-507; Ibn Khaldūn, Kitāb al-'Ibar (Il libro degli esempi storici), a cura di M. Amari, ibid., II, Torino 1881, pp. 163-243; Ignoti monachi cisterciensis S. Mariae de Ferraria Chronica, a cura di A. Gaudenzi, Napoli 1888, p. 31; U. Falcando, La Historia o Liber de Regno Sicilie, a cura di G.B. Siragusa, in Fonti per la storia d'Italia [Medio Evo], XXII, Roma 1897, ad ind.; Petrus de Ebulo, Liber ad honorem Augusti, a cura di G.B. Siragusa, ibid., XXXIX, ibid. 1906, pp. 8 s.; Bosone, Vitae Adriani IV et Alexandri III, in Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, II, Paris 1955, pp. 388-421; Iohannes Saresberiensis, Historia pontificalis, a cura di M. Chibnall, London 1956, ad ind.; Eustazio di Tessalonica, L'espugnazione di Tessalonica, a cura di S. Kyriakidis, Palermo 1961, ad ind.; Catalogus baronum, a cura di E. Jamison, in Fonti per la storia d'Italia [Medio Evo], CI, t. 1, Roma 1971, ad ind.; Commentario, a cura di E. Cuozzo, ibid., CI, t. 2, ibid. 1984, ad ind.; Nicetas Choniata, Historia, a cura di J.A. van Dieten, Berlin-New York 1975, ad ind.; I. La Lumia, Storia della Sicilia sotto G. il Buono, Firenze 1867; F. Chalandon, Histoire de la domination normande en Italie et en Sicile, II, Paris 1912, pp. 305-418; E. Jamison, Admiral Eugenius, London 1957, ad ind.; L.R. Ménager, Amiratus-ΆμηϱᾶϚ. L'émirat et les origines de l'amirauté (XIe-XIIIe siècles), Paris 1960, pp. 72-78; M. Caravale, Il Regno normanno di Sicilia, Milano 1966, ad ind.; E. Mazzarese Fardella, Aspetti della organizzazione amministrativa nello Stato normanno e svevo, Milano 1966, ad ind.; H. Hoffmann, Hugo Falcandus und Romuald von Salerno, in Deutsches Archiv, XXIII (1967), pp. 116-170; H. Enzensberger, Beiträge zum Kanzlei- und Urkundenwesen der normannischen Herrscher Unteritaliens und Siziliens, Kallmünz 1971 (per le indicazioni sullo stato e i singoli luoghi di edizione dei diplomi di G., cfr. anche i successivi contributi dello stesso autore cit. infra); G. Baaken, Unio Regni ad Imperium. Die Verhandlungen von Verona 1184 und die Eheabredung zwischen König Heinrich VI. und Konstanze von Sizilien, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, LII (1972), pp. 219-297; J. Deér, Papsttum und Normannen. Untersuchungen zu ihren lehnsrechtilichen und kirchenpolitischen Beziehungen, Köln 1972, pp. 246-255; M. Scarlata, Sul declino del Regno normanno e l'assunzione al trono di Tancredi, in Atti del Congresso internaz. di studi sulla Sicilia normanna… 1972, Palermo 1973, pp. 480-499; C. Colafemmina, L'itinerario pugliese di Beniamino da Tudela, in Arch. stor. pugliese, XXVIII (1975), pp. 81-100; B. Lavagnini, I Normanni di Sicilia a Cipro e a Patmo (1186), in Byzantino-Sicula, II, Miscellanea inmemoria di Giuseppe Rossi Taibbi, Palermo 1975, pp. 321-334; E.L. Vranoussi, à propos des opérations des Normands dans la mer égée et à Chypre après la prise de Thessalonique (1185-86)…, in Byzantina, VIII (1976), pp. 203-211; V. D'Alessandro, Storiografia e politica nell'Italia normanna, Napoli 1978, pp. 214-220; H. Enzensberger, Der "böse" und der "gute" Wilhelm. Zur Kirchenpolitik der normannischen Könige von Sizilien nach dem Vertrag von Benevento (1156), in Deutsches Archiv, XXXVI (1980), pp. 385-432; V. D'Alessandro, Corona e nobiltà nell'età dei due Guglielmi, in Potere società e popolo nell'età dei due Guglielmi. Atti delle IV Giornate normanno-sveve, Bari-Gioia del Colle… 1979, Bari 1981, pp. 63-79; H. Enzensberger, Il documento regio come strumento di potere, ibid., pp. 103-138; G. Pistarino, Commercio e comunicazioni tra Genova ed il Regno normanno-svevo all'epoca dei due Guglielmi, ibid., pp. 231-290; D.J.A. Matthew, The Chronicle of Romuald of Salerno, in The Writing of history in the Middle Ages. Essays presented to R.W. Southern, Oxford 1981, pp. 239-274; E. Cuozzo, Ruggiero conte d'Andria. Ricerche sulla nozione di regalità al tramonto della monarchia normanna, in Arch. stor. per le provincie napoletane, XX (1981) pp. 129-168; H. Enzensberger, Utilitas regia. Note di storia amministrativa e giuridica e di propaganda politica nell'età dei due Guglielmi, in Atti dell'Accademia di scienze, lettere e arti di Palermo, s. 5, I (1982), pp. 23-61; J.M. Powell, Crusading by royal command: monarchy and crusade in the Kingdom of Sicily (1187-1230), in Potere società e popolo tra età normanna ed età sveva (1189-1210). Atti delle V Giornate normanno-sveve, Bari-Conversano… 1981, Bari 1983, pp. 131-146; P. Delogu, Idee sulla regalità: l'eredità normanna, ibid., pp. 185-214; S. Tramontana, La monarchia normanna e sveva, in Storia d'Italia (UTET), III, Torino 1983, pp. 629-646; Th. Kölzer, Costanza d'Altavilla, imperatrice e regina di Sicilia, in Diz. biogr. degli Italiani, XXX, Roma 1984, pp. 346 s.; D. Abulafia, The Norman Kingdom of Africa and the Norman expeditions to Majorca and the Muslim Mediterranean, in Id., Italy, Sicily and the Mediterranean, 1100-1400, London 1987, pp. 26-49; E. Cuozzo, L'unificazione normanna e il Regno normanno-svevo, in Storia del Mezzogiorno, II, 2, Napoli 1989, pp. 668-683; Id., "Quei maledetti normanni". Cavalieri e organizzazione militare nel Mezzogiorno normanno, Napoli 1989, ad ind.; H. Houben, Il Barbarossa e i Normanni: elementi tradizionali e prospettive nuove nella politica meridionale dell'Impero d'Occidente, in Id., Tra Roma e Palermo, Galatina 1989, pp. 177-198; G.M. Cantarella, La Sicilia e i Normanni. Le fonti del mito, Bologna 1989, ad ind.; Id., Scene di folla in Sicilia nell'età dei due Guglielmi, in A Ovidio Capitani. Scritti degli allievi bolognesi, Bologna 1990, pp. 9-37; E. Borsook, Messages in mosaics. The royal programmes of Norman Sicily (1130-1187), Oxford 1990, ad ind.; D. Abulafia, Le due Italie, Napoli 1991, pp. 181-237; E. Jamison, Iudex Tarentinus, in Id., Studies on the history of Medieval Sicily and South Italy, Aalen 1992, pp. 467-522; Id., Additional work on the "Catalogus Baronum", ibid., pp. 523-585; H. Takayama, The administration of the Norman Kingdom of Sicily, Leiden-New York-Köln 1993, pp. 114-161; L. Travaini, La monetazione nell'Italia normanna, Roma 1995, ad ind.; Id., The monetary reforms of William II (1166-1189): Oriental and Western patterns in Norman Sicilian coinage, in Schweizer Münzblätter, XLVI (1996), pp. 109-123; H. Houben, Tra vocazione mediterranea e destino europeo: la politica estera di re G. II di Sicilia, in Id., Mezzogiorno normanno-svevo. Monasteri e castelli, ebrei e musulmani, Napoli 1996, pp. 145-157; Id., Possibilità e limiti della tolleranza religiosa nel Mezzogiorno normanno-svevo, ibid., pp. 213-242; T. Reuter, Vom Parvenü zum Bündnispartner: das Königreich Sizilien in der Abendländischen Politik des 12. Jahrhunderts, in Die Staufer im Süden. Sizilien und das Reich, a cura di T. Kölzer, Sigmaringen 1996, pp. 43-56; D.J.A. Matthew, I Normanni in Italia, Roma-Bari 1997, ad ind.; G.M. Cantarella, Principi e corti. L'Europa del XII secolo, Torino 1997, ad ind.; H. Enzensberger, La Cancelleria normanna, in Mezzogiorno - Federico II - Mezzogiorno. Atti del Convegno…, Potenza-Avigliano-Lagopesole-Melfi… 1994, a cura di C.D. Fonseca, Roma 1999, pp. 79-98; Lexikon des Mittelalters, IX, coll. 132-134.