MASSAJA, Guglielmo
(al secolo Lorenzo Antonio). – Nacque l’8 giugno 1809 nella frazione Braja del comune di Piovà d’Asti, settimo degli otto figli di Giovanni Domenico e di Maria Lucrezia Bertorello, contadini di profondi sentimenti cattolici e di discrete condizioni economiche.
Nel 1821, manifestata l’intenzione di farsi sacerdote, raggiunse il fratello Guglielmo, parroco nel comune di Pralormo, e trascorse con lui circa un biennio, durante il quale ebbe modo di consolidare la propria scelta religiosa. Nel gennaio 1824 entrò nel seminario di Asti, dove il suo direttore spirituale A. Longhi – constatato il suo desiderio di dedicarsi alle missioni – gli consigliò di entrare nell’Ordine dei frati minori cappuccini, che vantava una lunga tradizione missionaria e una notevole diffusione nel Regno sardo.
Preso l’abito il 6 sett. 1826 alla Madonna di Campagna di Torino, assunse il nome di Guglielmo. Concluso il noviziato l’11 sett. 1827, iniziò a Cigliano gli studi teologici e filosofici. Il 16 giugno 1832 fu ordinato sacerdote a Vercelli.
Una formazione attenta soprattutto agli aspetti ascetico-contemplativi – spiccatamente cristocentrica, ispirata a uno stile di vita austero – e una tradizione familiare di modesto spessore culturale fecero del M. un uomo di non grande cultura o erudizione, sostanzialmente estraneo ai grandi dibattiti politici, teologici e filosofici del suo tempo. Di accese tendenze ultramontane e legittimistiche, alieno dalle discussioni retoriche e dalle dispute dottrinali, egli auspicava soprattutto il ritorno della Chiesa al suo genuino messaggio. Proprio in questo suo particolare approccio agli studi biblici e teologici si espresse il suo antirigorismo, la sua predilezione per un cattolicesimo tradizionale e per forme popolari di obbedienza e di devozione.
Si trattava di caratteristiche che, unitamente al suo legame mistico con il S. Cuore, a una forte inclinazione per la prospettiva missionaria, a una particolare attenzione alla promozione della stampa non «inquinata», lo avvicinavano al mondo intransigente dell’Amicizia cattolica di un P.B. Lanteri e di un C. Taparelli d’Azeglio.
Certo il M. non trascurò – e anzi in qualche maniera dimostrò di apprezzare – alcune figure del cattolicesimo liberale e della tendenza neoguelfa italiana, come A. Manzoni e V. Gioberti. Ma si trattò di timidi segnali: sebbene nella sua visione spiccatamente anticuriale non sia impossibile individuare qualche assonanza con il pensiero giobertiano, anche per una certa insofferenza verso i gesuiti, appare indubbio che egli condividesse con questi ultimi l’esigenza di un ampio processo di restaurazione religiosa.
Portatore di una visione controrivoluzionaria piuttosto povera sotto il profilo teorico, legato a una dimensione prevalentemente temporalistica e restauratrice, il M., come molti cattolici intransigenti del suo tempo, finì per individuare proprio nell’apostolato in terre incontaminate una via capace di dare alla Chiesa nuova forza di attrazione.
Ai primi di febbraio del 1833 il M. si recò al convento di Testona, presso Moncalieri, per ultimare la sua formazione religiosa. Conseguì la patente di predicatore e, nel 1834, ottenne la nomina a cappellano dell’ospedale Mauriziano di Torino. Ricoprì questo ruolo fino al 1836, quando gli fu affidata la cattedra di filosofia e teologia, prima presso il convento di Testona, poi al Monte dei cappuccini. Frequentò anche abbastanza assiduamente il castello reale di Moncalieri, residenza estiva di casa Savoia, dove strinse legami con vari personaggi di corte e dove rivestì un certo ruolo nell’educazione dei due principi, Ferdinando duca di Genova e Vittorio Emanuele.
Una decisa svolta nella vita del M. si ebbe il 12 maggio 1846, quando, con il breve apostolico Apostolatus officium, Gregorio XVI lo nominò vescovo di Casius in partibus infidelium e, con il breve Quum de populis Gallas, vicario apostolico dei popoli Oromo, precedentemente noti come Galla, nell’Alta Etiopia.
La notizia giunse piuttosto inaspettata al M., ormai legato al suo ruolo di educatore dei chierici e bene integrato negli ambienti di casa Savoia e tra i vertici del suo Ordine. Voci insistenti lo indicavano anche come probabile candidato a una sede vescovile del Regno di Sardegna. Ma alla fine il M., forse anche timoroso di vedersi coinvolto in patria in pericolosi fermenti politico-religiosi, decise di onorare il voto giovanile e di accogliere la prospettiva missionaria.
L’apostolato africano del M. iniziò il 4 giugno 1846, quando partì dal porto di Civitavecchia con destinazione Alessandria d’Egitto.
La missione tra gli Oromo propriamente detta andò dal 1852 al 1863 e venne preceduta da una parentesi di sei anni in cui, oltre a un periodo di permanenza nella prefettura d’Abissinia dovuta a esigenze di ministero, si consumarono vani tentativi di aprirsi una via per i territori a lui assegnati e un lungo soggiorno nelle capitali europee. A partire dal 1852 il M. fondò le missioni di Assandabo (1852), dell’Ennerea (1854), del Kaffa (1855), di Lagamara (1855) e di Ghera (1859).
Sotto il profilo religioso, una serie di condizioni peculiari facevano dell’Etiopia, che vantava un’antichissima tradizione cristiana, un paese soggetto a ricorrenti crisi politico-religiose e lacerato dai conflitti. Il M. vi giunse in un momento in cui la locale Chiesa – dipendente da quella copta monofisita d’Egitto – si trovava in una fase di dibattito dottrinale particolarmente acceso e sotto la guida di un giovane vescovo, Salama II, che, nell’ottobre 1847, venne fortuitamente a conoscenza della presenza in Africa di un presule cattolico nominato dalla S. Sede. Visto che un antico editto, ispirandosi alla tradizione di «un solo vescovo per tutta l’Etiopia», proibiva sotto pena di morte ai vescovi stranieri di entrare nel Paese, da quel momento Salama scatenò una durissima offensiva contro il M., poi sfociata, nell’ottobre 1847, in un decreto di espulsione seguito, il 30 nov. 1847, da uno di scomunica.
Si trattò della prima di una lunga serie di intimidazioni subite dal M., il quale, a causa di una cattiva pronuncia probabilmente ascrivibile allo stesso Salama, era stato ormai identificato come Abuna Messias (associazione tra il termine abuna – in lingua ge‛èz «nostro padre» – e messia, deformazione di Massaja).
Particolare peso nella missione africana del M. assunse sin dall’inizio il «problema musulmano». In quegli anni, la religione di Maometto stava infatti conoscendo in Etiopia una nuova fase di espansione, circostanza di cui, appena giunto nell’area del Mar Rosso, il M. ebbe immediata percezione. Di qui la decisione di impegnarsi, peraltro con scarsi risultati, per assegnare all’Etiopia una funzione di sbarramento cristiano a difesa del continente. Nello specifico, il M. riteneva necessario garantire in loco la presenza di una grande potenza, meglio se cattolica, attraverso una piccola postazione alle «porte» dell’Africa Orientale, sulle coste del Mar Rosso, da cui poter esercitare un’azione di controllo e di dissuasione rispetto a possibili mire musulmane su una fetta essenziale e strategica del continente. In questo modo il M. tentava insomma di legare i destini della sua missione a quelli dell’Africa intera, con una certa sopravvalutazione del ruolo che la prima avrebbe potuto esercitare sulla seconda.
Tra il 1850 e il 1851, durante il suo primo rientro in Europa, il M. ebbe colloqui con l’esploratore A. d’Abbadie e con Ch. de Montalembert. Grazie ai buoni uffici del nunzio apostolico a Parigi R. Fornari, venne ricevuto dal barone J. Crépin du Havelt ed ebbe modo di trattare con il presidente della Repubblica francese Luigi Napoleone Bonaparte, con il ministro degli Esteri J.-E. Ducos de La Hitte e con A.P. Faugère, all’epoca capo di gabinetto del ministero per l’Oriente.
In un primo tempo il governo francese – soprattutto nelle componenti che, a partire dalla forte maggioranza conservatrice presente nell’Assemblea legislativa, si rifacevano al cosiddetto «partito dell’ordine» – attribuì un certo credito alle informazioni fornite dal Massaja. Il ministro de La Hitte, ad esempio, gli chiese di predisporre una serie di note politiche da depositare «secretate» presso il ministero e di preparare un fascicolo sul «pericolo musulmano» in Africa Orientale (uno scritto da cui nacque poi un opuscolo, dal titolo De la propagande musulmane en Afrique et dans les Indes, pubblicato anonimo nel 1851 a Parigi).
Nel febbraio 1851 il M. partì per Londra, dove si incontrò con l’arcivescovo di Westminster, il cardinale N. Wiseman. Grazie a lui, riuscì ad avere due colloqui con il ministro degli Affari esteri e futuro primo ministro H. Palmerston e con il segretario particolare della regina Vittoria. Anche a loro espose le esigenze già manifestate al governo francese.
Alle resa dei conti, questa prima missione diplomatica ottenne risultati piuttosto deludenti. Il M. giunse infatti in Francia, la nazione da cui si attendeva i maggiori risultati in termini politici, nel bel mezzo della breve esperienza della seconda Repubblica, vale a dire nel momento in cui – pur in una fase di rafforzamento del partito dell’ordine, con il consistente allineamento dei cattolici e della Chiesa alla causa conservatrice – lo Stato stava attraversando una stagione di inevitabile incertezza, specie negli equilibri politici, con frequenti avvicendamenti dell’esecutivo. Egli lasciò inoltre il paese prima – seppur di pochi mesi – del colpo di Stato di Luigi Napoleone (2 dic. 1851), che avrebbe restaurato una certa alleanza tra trono e altare ridando fiato alla reazione conservatrice e clericale.
Deluso e amareggiato, il M. si gettò a capofitto nella sua prima vera esperienza sul campo, che lo segnò profondamente, anche sul piano del rapporto con la gerarchia. Da essa emersero, in particolare, nuove aspirazioni – come quella del ritorno a una Chiesa povera e indipendente – sino ad allora in parte soggiogate dalla pressante esigenza, in Europa, di opporre ogni resistenza possibile ai processi di secolarizzazione in atto.
Col procedere dell’esperienza in Africa (terra vergine e quindi, a suo parere, meno refrattaria a un cristianesimo non contaminato da fremiti riformistici), in lui si rafforzò insomma la nostalgia per lo spirito della Chiesa delle origini, aliena dal calcolo politico e dal potere. Si trattava di aspetti che, sotto un certo profilo, lo differenziavano sensibilmente da chi, nel fronte intransigente, tendeva a individuare nei processi di secolarizzazione in Europa il frutto di un’opera satanica, esonerando di fatto la Chiesa da qualsiasi indagine autocritica. Ma si trattava anche di uno sbocco abbastanza naturale per quella parte di clero che, auspicando una rinascita cristiana e un ritorno della Chiesa all’originario vigore evangelico, individuava nelle terre ancora inesplorate luoghi ideali per la sua espressione.
Con l’approdo, l’11 marzo 1868, alla corte di Menelik II iniziò la fase «scioana» della missione del M. in Africa Orientale. Il principe africano decise infatti di trattenerlo nei propri territori, concedendogli di stabilire alcune stazioni missionarie, consapevole del fatto che la presenza di un europeo di prestigio e valore come il M. potesse offrirgli ottime prospettive per instaurare rapporti e alleanze con le potenze occidentali, presupposto indispensabile per assecondare le sue mire imperiali. Il vescovo cappuccino divenne in poco tempo il primo consigliere del principe africano, soprattutto per quanto riguardava la politica internazionale.
A livello politico l’Etiopia aveva nel frattempo visto, dopo la morte nel 1868 dell’imperatore Teodoro, il prevalere dell’ambizioso Kassa, il quale, godendo dell’appoggio inglese, il 21 genn. 1872 assunse il titolo di «negus neghesti» (re dei re), con il nome di Giovanni IV. All’inizio del 1872 Menelik, a sua volta ansioso di scalare il trono imperiale, decise di servirsi del M. per organizzare un’ambasceria da inviare al re Vittorio Emanuele II.
Molte pagine sono state scritte sui risvolti politici di questa missione. Va subito specificato che il primo approccio italiano alla realtà etiopica si era avuto alcuni anni prima, con un’iniziativa del capo della direzione per i consolati e per il commercio del ministero degli Affari esteri del Regno di Sardegna, C. Negri. Questi, avvalendosi dell’approvazione di C. Cavour, aveva scritto il 15 genn. 1857 una lettera al M. il cui intento – piuttosto esplicito – era quello di patrocinare un aumento della presenza commerciale piemontese nell’area. Proprio nella lettera di Negri alcuni studiosi hanno teso a individuare, ben oltre le intenzioni degli interlocutori, il germe di un interesse coloniale italiano nell’area. In realtà, il 1° febbr. 1858 il M. aveva risposto alla proposta di Negri in maniera molto prudente, sia per la consapevolezza della modesta rilevanza, sul piano politico, di quella operazione, sia per la lucida constatazione del debole affidamento da riporre nei ras etiopi, sia per uno scarso desiderio a interessarsi di questioni che non avevano risvolti acclarati sulla sua opera missionaria.
Ma il 20 giugno 1872, su pressione di Menelik, il M. si convinse a inviare una lettera al ministro degli Esteri E. Visconti Venosta e al re Vittorio Emanuele, raccomandando benevolenza per un’ambasceria affidata ad Abba Michael, un giovane e intrigante commerciante etiopico. L’iniziativa era tale da creare al M. un certo imbarazzo – anche per via dei difficili rapporti in quel momento esistenti tra lo Stato italiano e la Chiesa – e provocò in patria una ridda di reazioni. Essa sollevò, inoltre, l’interesse della Società geografica italiana, sodalizio fondato a Firenze nel 1867 in ambienti strettamente legati al governo, con obiettivi umanitari e scientifici, ma anche politici e velatamente coloniali.
Nel 1876 Menelik, sempre impegnato a cercare alleati e armi in Europa, decise di promuovere una nuova missione presso il governo italiano. Guidata dal commerciante cattolico nizzardo P. Arnoux, questa si propose di portare una serie di omaggi al re d’Italia e alcune lettere del M. al ministro degli Esteri L.A. Melegari e allo stesso Vittorio Emanuele. Ancora una volta il vescovo cappuccino si trovò dunque coinvolto in un’iniziativa da cui avrebbe voluto stare ben lontano.
Nel frattempo, nel marzo 1876, era partito da Napoli il primo scaglione della spedizione organizzata dalla Società geografica italiana, che era giunto nello Scioa verso la fine di agosto. Menelik ricevette a corte i membri della spedizione il 7 ott. 1876, fornendo da quel momento tutto il supporto logistico necessario. Ma gli Italiani commisero l’errore di non rendersi conto che in quei frangenti Menelik desiderava soprattutto aiuti materiali (armi, munizioni) e non certo gli inutili doni portati dalla spedizione al suo seguito. Da parte sua, il M. sapeva invece che la presenza in loco di cittadini italiani rischiava di complicare l’esistenza e il futuro della sua missione.
Nell’autunno del 1877 queste fosche previsioni trovarono i primi riscontri. L’imperatore Giovanni, nel tentativo si stroncare le aspirazioni del rivale Menelik, decise di eliminare qualsiasi influenza missionaria nello Scioa. L’avanzata, nel gennaio 1878, delle truppe imperiali indusse in un primo momento il principe scioano a prendere tempo, poi a trattare, mentre il M. si offrì come ostaggio per evitare lo scontro. Il 20 marzo 1878 Menelik sottoscrisse un atto di obbedienza dalle condizioni durissime, che prevedeva anche l’allontanamento dai suoi territori di tutti i missionari cattolici.
Dopo essere riuscito a ritardare di oltre un anno la sua partenza, il 24 giugno 1879 il M. dovette quindi muovere con la sua carovana verso la residenza imperiale di Debra-Tabor, dove giunse il 5 agosto. Qui, dopo un’anticamera durata diversi giorni e un breve colloquio con l’imperatore, gli venne comunicata l’irrevocabile decisione della sua espulsione.
Dopo un viaggio estenuante, il M. riuscì a raggiungere Il Cairo nel febbraio 1880. Dopo il quarto pellegrinaggio in Terrasanta e un breve soggiorno a Beirut, egli fu ospitato dai suoi confratelli a Smirne, dove il 23 maggio sottoscrisse la rinuncia ufficiale al suo vicariato, che Leone XIII eletto il 20 febbr. 1878, accolse il 3 giugno.
Finì in questo modo una delle esperienze di maggiore interesse di un missionario cattolico in terra africana. I numeri del suo apostolato appaiono oggi sorprendenti: non meno di otto traversate del mare Mediterraneo e dodici del Mar Rosso (lungo rotte spesso disagevoli e su imbarcazioni di fortuna); oltre 7000 chilometri percorsi a piedi o sul dorso di animali; 36.000 persone battezzate, circa 40.000 vaccinate contro il vaiolo.
Il 2 ag. 1881, il M. fu promosso alla sede arcivescovile di Stauropolis; poi, il 10 nov. 1884, ottenne il titolo cardinalizio.
Tali promozioni si inquadravano nel disegno di Leone XIII di introdurre nei palazzi della Curia romana gli uomini che meglio si prestavano ad assecondare il suo desiderio di ricavare dei frutti tangibili da una congiuntura internazionale ormai proiettata verso la colonizzazione dell’Africa. In occasione dei frequenti incontri in Vaticano, il M. espose minuziosamente al pontefice le vicende spinose e gli aspetti qualificanti della sua lunga missione. Probabilmente proprio nel corso di questi colloqui il papa si convinse dei vantaggi che la Chiesa avrebbe potuto ricavare anche dalla divulgazione dell’avventurosa esperienza del Massaja. Per questo, lo obbligò a una grande fatica, tenuto conto delle sue precarie condizioni di salute: documentare, in un’opera monumentale, la sua epopea missionaria.
Tra il 1880 e il 1886, pur consapevole degli scarsi strumenti letterari di cui poteva disporre, abituato per oltre un trentennio a esprimersi in forme idiomatiche filologicamente estranee ai modelli occidentali, senza il supporto di documentazione scritta, il M. compose un’opera complessa, sotto molti aspetti frammentaria e di difficile lettura, ma capace di tratteggiare un affresco esemplare della vita culturale, religiosa, politica e sociale dell’Etiopia ottocentesca; un’opera che avrebbe conosciuto una straordinaria fortuna in Italia e in Europa (I miei trentacinque anni di missione nell’alta Etiopia, I-XII, Roma-Milano 1885-95, poi ristampata con il titolo Memorie storiche del vicariato apostolico dei Galla, 1845-1880, a cura di A. Rosso, I-VI, Padova 1984).
Nel maggio 1889 il M. lasciò Roma per trasferirsi a Frascati e quindi, nel giugno successivo, a San Giorgio a Cremano, presso Napoli, ove morì il 6 ag. 1889.
Nel 1914 venne avviata la causa di beatificazione del M., poi sospesa da Benedetto XV il 19 genn. 1916, senza addurre motivazioni scritte. Essa riprese solo il 22 maggio 1993, quando il prefetto della congregazione delle Cause dei santi rese pubblica la determinazione espressa in tal senso da Giovanni Paolo II.
Fonti e Bibl.: Lettere e documenti relativi alla vita del M. sono oggi conservati in numerosi archivi italiani ed europei. Una parte significativa di essi è consultabile – in originale o in copia fotostatica e fotografica – a Torino, presso l’Archivio stor. della Provincia cappuccina del Piemonte. Oltre un migliaio di lettere sono raccolte in G. Massaja, Lettere e scritti minori (1827-1889), I-V, a cura di A. Rosso, Roma, 1978. Di A. Rosso si v. altresì: Lorenzo Antonio M.: p. G. da Piovà inedito (1809-1846). Risultati archivistici, Torino 1965. Per un’ampia rassegna bibliogr. sul M.: A. Dalbesio, G. M. Bibliografia-iconografia. 1846-1967, Torino 1973 (con 2170 segnalazioni). Se la produzione relativa all’opera massajana appare rilevante, il maggiore problema riguarda il suo mediocre livello scientifico. Non privi di inclinazioni all’agiografia, ma meritevoli di segnalazione, risultano: G. M. vicario apostolico dei Galla (Etiopia). Atti del Convegno…, Roma 1990, e il saggio di C. Durante, G. M. O.F.M. - vicario apostolico dei Galla, cardinale…. Saggio storico-critico secondo documenti inediti, Sessano del Molise 1998 (riprod. di una tesi di laurea discussa in Roma, nel 1946, presso la Pontificia Università Gregoriana). Non del tutto disprezzabile, sebbene condizionata dalla retorica fascista dell’impero, è anche l’opera di E. Cozzani, Vita di G. M., I-II, Firenze 1943-44, mentre di taglio molto divulgativo risulta E. Picucci, Abuna Messias. Epopea etiopica del cardinale G. M., Pinerolo 1988.