GUIDI DI BAGNO, Niccolò
Nacque a Rimini nel 1584, secondogenito di Fabrizio, marchese di Montebello, e di Laura Colonna, figlia di Pompeo, duca di Zagarolo. Su consiglio del prozio, il cardinale Marcantonio Colonna, intraprese studi umanistici, che abbandonò presto per abbracciare la carriera delle armi. Esordì nel 1607, durante i preparativi militari condotti nello Stato della Chiesa contro Venezia. Gli attriti fra la S. Sede e la Repubblica, originati dal grande conflitto giurisdizionale che aveva portato all'interdetto del 1606, sembravano infatti degenerare in uno scontro armato. Il G. fu arruolato come comandante di una compagnia di lancieri insieme con altri nobili romagnoli, ma non ebbe modo di provare le sue attitudini: dopo poche settimane la controversia fu risolta per le vie diplomatiche e da Roma fu ordinata la smobilitazione. Per sostenere la prova delle armi il G. dovette attendere la guerra per il Monferrato, nel 1616, quando militava nell'esercito spagnolo impegnato contro le truppe del duca di Savoia. Come molti altri giovani nobili italiani volle raffermarsi al servizio di Filippo III e nel 1618 si recò alla corte di Madrid accompagnato dal conestabile Filippo Colonna, suo parente e patrono; successivamente prese la via delle Fiandre nell'esercito comandato da Ambrogio Spinola, per combattere i ribelli. Ritornò in Italia probabilmente nei primi anni Venti, onorato del titolo di colonnello e remunerato con la conferma del vitalizio già concesso dai re di Spagna ai marchesi di Montebello. Il G., che nel frattempo aveva sposato Teodora Gonzaga, continuò la carriera militare nell'esercito dello Stato della Chiesa.
Si profilava un impegno delle forze armate pontificie nella Valtellina: in questo complesso teatro, dopo l'insurrezione contro i Grigioni dei cattolici locali sostenuti dagli Spagnoli, tra Francesi e Veneziani da un lato e Asburgo dall'altro si erano accesi contrasti che il trattato per il ritorno allo status quo ante (concluso a Madrid nell'aprile 1621) non era riuscito a risolvere. Così, la S. Sede aveva proposto che una missione di pace composta dalle sue truppe tenesse in consegna i forti edificati dagli Spagnoli nella valle, fino a un nuovo accordo, più efficace e duraturo. L'iniziativa prese forma nella primavera del 1623, con la spedizione di un contingente al comando di Orazio Ludovisi, fratello del papa Gregorio XV, e il 10 maggio 1623 il G. ebbe l'incarico di luogotenente generale, cioè di secondo in comando. Raggiunta la Valtellina le truppe pontificie presero possesso dei presidi contesi e il G., che inizialmente si occupò soprattutto di questioni logistiche, assunse il comando della spedizione dopo il rientro in Italia di Orazio Ludovisi.
Il G. fu confermato nel suo incarico anche dal nuovo pontefice, Urbano VIII Barberini, succeduto a Gregorio XV nell'agosto 1623: per tutta la seconda metà di quell'anno, il G. fu impegnato a completare la presa dei forti contesi. Si occupava nel frattempo del governo delle truppe pontificie, impegnandosi affinché fossero regolarmente pagate da Roma. A poco a poco assunse anche compiti politici di rilievo: nei centri occupati fece amministrare la giustizia dal proprio uditore e contrastò decisamente la presenza di predicatori protestanti. Nell'estate 1624 comparvero i primi segnali di una rapida evoluzione dello scenario: dapprima il G. dovette far fronte all'apprensione dei cattolici valtellinesi per le voci di un rapido ritorno sotto il governo dei Grigioni protestanti. Poi, dalla fine di agosto, egli apprese e fece conoscere a Roma le manovre di François-Annibal d'Estrées, marchese di Coeuvres, per una mossa d'armi dei protestanti svizzeri. Nel successivo autunno prese provvedimenti preventivi: accettò armi dal governatore di Milano, Gomez Suarez de Figuera, duca di Feria, rafforzò la vigilanza nei presidi, si tenne pronto addirittura a far entrare segretamente soldati spagnoli nei forti occupati dalle proprie truppe. Lamentò inoltre di non avere in quella congiuntura d'emergenza chiari ordini da Roma. Le istruzioni del pontefice arrivarono dopo qualche settimana: ribadivano la consegna di non ammettere nei presidi "altre genti che le pagate di Nostro Signore" (Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat., 5256, c. 109r: Instruttione per gli sospetti…) e, nello stesso tempo, gli ordinavano di tenersi pronto a chiedere soccorso agli Spagnoli. Le ipotesi peggiori trovarono conferma con l'invasione della Valtellina da parte di forti contingenti di truppe francesi al comando dello stesso marchese di Coeuvres e il G. si trovò obbligato a contrastare l'avanzata di truppe più numerose e meglio armate. La resistenza che riuscì a opporre fu minima: fra il novembre 1624 e il marzo 1625 i Francesi si impadronirono di tutti i forti presidiati dalle truppe pontificie.
Il G. aveva chiesto aiuti militari al governatore di Milano alla fine di novembre e, non essendo ascoltato, con lettere del 18 e 20 dic. 1624 gli aveva addirittura indirizzato una protesta. Gli Spagnoli si erano infatti limitati a mandare poche decine di uomini in qualche piazza, preoccupandosi soprattutto di presidiare i confini dello Stato di Milano. Tuttavia sin dai primi resoconti sugli eventi il G. fu imputato di gravi responsabilità e di un sostanziale favoreggiamento del nemico. Convocato a Roma, riuscì a dare giustificazioni su quanto operato ma subì lo scacco di non essere compreso nel comando del contingente che Urbano VIII aveva deciso di arruolare per riconquistare le posizioni perdute e che aveva affidato al comando del duca di Guadagnolo Torquato Conti.
La crisi per la Valtellina fu risolta autonomamente da Francia e Spagna per via di accordo e la carriera del G. non fu troppo compromessa dall'incidente: il servizio prestato nella diplomazia pontificia dal fratello Giovan Francesco, i legami tra la sua famiglia e quella di papa Barberini (contratti con il matrimonio Barberini - Colonna del 1627) lo ponevano al riparo dai pericoli di un'effettiva perdita del favore di Urbano VIII. Si susseguirono così importanti incarichi negli ordinamenti militari pontifici: nell'ottobre 1628 fu nominato luogotenente generale nella Legazione della Romagna, con l'incarico particolare di fare sorvegliare i confini settentrionali dello Stato, presso i quali continuamente si vedevano movimenti di truppe causati dalla crisi per Mantova. A questo fine, il G. curò l'esecuzione dei consistenti arruolamenti decisi da Roma per il rafforzamento del presidio di Ferrara e lo schieramento di truppe intorno a Bologna e ai confini. Quindi, nel gennaio 1629, assunse il comando generale delle truppe pontificie stanziate nella Marca.
Anche questo compito era particolarmente delicato: la devoluzione del Ducato di Urbino alla S. Sede alla morte del vecchio duca Francesco Maria II Della Rovere era stata già decisa; nonostante ciò appariva necessaria la massima vigilanza affinché tutto procedesse secondo gli accordi, senza interferenze di altri governi italiani. Il G. sorvegliò gli eventi della corte feltresca (e soprattutto lo stato di salute del duca) servendosi anche di informatori; quindi approntò un piano per prendere possesso militarmente del Ducato di Urbino, di cui nel marzo 1631 sottopose i dettagli al cardinale Francesco Barberini. Conclusa con successo la devoluzione di Urbino, zona di maggior interesse divenne il confine meridionale fra lo Stato della Chiesa e il Regno di Napoli. I rapporti tra Spagna e Papato, nei primi anni Trenta del Seicento, erano piuttosto tesi e obbligavano il G. a tenersi costantemente informato sui movimenti di truppe spagnole e napoletane.
La morte della moglie Teodora, nel luglio 1633, richiamò il G. nei suoi feudi romagnoli. La licenza tuttavia non durò molto e nel 1636 fu nominato "luogotenente generale dell'armi" di Ferrara, Bologna e Romagna, considerata la terza carica militare dello Stato della Chiesa. Con questa posizione di comando si trovò allo scoppio della guerra di Castro, che oppose l'esercito pontificio al duca di Parma e a un'alleanza di Stati italiani (il Granducato di Toscana, Venezia, il Ducato di Modena). Il suo ruolo non appare però di grande rilievo: mentre i nipoti del papa dirigevano le operazioni, egli si limitava alla cura delle retrovie e a rassicurare la corte di Roma circa "l'affetto dei sudditi" e la ferma decisione di tutti "di esporsi ad ogni danno e pericolo" (il G. al cardinale F. Barberini, Rimini, 4 nov. 1642, Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat., 9654, c. 28r). Erano encomi infondati: il difficile andamento del conflitto, che si concluse nel 1644 ed ebbe una coda nel 1649, mostrò quanto fosse scarso il consenso dell'articolata società dello Stato all'operazione.
A questa data il G. si era allontanato dalla vita militare. Dopo la morte del fratello Giovanni Francesco, con il quale pure non aveva dimostrato "conformità di genii" (in Lutz, p. 34 n. 115), aveva ripreso gli studi; ne discese in breve tempo la scelta per la carriera ecclesiastica: presi gli ordini sacri, il 14 marzo 1644 il G. fu creato arcivescovo titolare di Atene. Nell'aprile successivo fu nominato nunzio a Parigi, carica che Giovanni Francesco aveva ricoperto dal 1627 al 1630. Non fu sollecito nel raggiungere la nuova destinazione: in giugno era ancora a Mantova e arrivò a Parigi solo il 26 luglio 1644. Sarebbe rimasto in carica fino al 1656; in quei dodici anni si preoccupò di trasmettere continuamente alla segreteria di Stato notizie sulla guerra in corso in Europa e fu impegnato su varie questioni, prima fra tutte il dissidio con la Francia intorno alla famiglia Barberini. Dopo la morte di Urbano VIII e l'elezione di Innocenzo X Pamphili, considerato filospagnolo, il cardinale Antonio Barberini aveva subito pesanti critiche da parte della Francia (governata da un Consiglio di reggenza in cui grande influenza aveva il cardinale G. Mazzarino). Lo stesso cardinale Barberini, però, alla fine di settembre 1645, temendo un processo per la trascorsa gestione delle finanze pontificie, era riparato in Francia e aveva guadagnato di nuovo la protezione della Corona a vantaggio suo e dei fratelli, il cardinale Francesco e il prefetto Taddeo, che lo raggiunsero nel gennaio 1646. Toccò al G., la cui carriera pure molto doveva al defunto pontefice, il compito di fronteggiare le accuse di persecuzione mosse dal Consiglio: il 16 nov. 1645 il cancelliere P. Séguier gli indirizzò una Esposizione che condannava l'operato di Innocenzo X contro i Barberini e che ebbe larga diffusione pubblica. Il G., dal canto suo, tentò di non farsi troppo coinvolgere, ma tenne costantemente informata Roma sulle mosse del cardinale Antonio.
Altrettanto aspri si rivelarono i negoziati per una pace tra Francia e Spagna, che le trattative in Vestfalia lasciavano sperare vicina: mentre progressivamente a Münster e Osnabrück si delineava uno scenario di pace per l'Europa settentrionale e centrale, la Francia era ancora impegnata in guerra nei Paesi Bassi spagnoli. Il G. sollecitò ininterrottamente l'avvio di più efficaci negoziati di pace, lamentando l'attenzione solo formale del cardinale Mazzarino e della regina Anna d'Austria: a questa giunse a prospettare l'ipotesi di presentarsi di fronte al re e al Consiglio "con una corda al collo per domandarle la pace per l'amor di Dio" (11 gen. 1647, Arch. segr. Vaticano, Segreteria di Stato, Francia, 96, c. 9). Ma la politica francese perseguiva un consolidamento dei successi militari ottenuti durante l'ultima fase della guerra dei Trent'anni e insidiava anche i possedimenti spagnoli della penisola: i tentativi del G., protagonista di un'accesa udienza presso la regina e il Consiglio nel gennaio 1648 culminata in uno scontro verbale con il cardinale Mazzarino, non ebbero alcun esito. Egli tentò così di prendere contatti con altri uomini di punta della Reggenza: innanzi tutto Gaston d'Orléans, principe del sangue, quindi il duca di Longueville, Henri d'Orléans. Nemmeno questi canali risultarono fruttuosi: quando nell'ottobre 1648 si conclusero le paci della Vestfalia, la Francia siglò un accordo con l'imperatore ma non con gli Asburgo di Spagna e il G. lamentò con il nunzio apostolico Fabio Chigi che all'autorità di Roma fossero recati "tanti pregiudizij" (6 nov. 1648, Biblioteca apost. Vaticana, Chigiani, A.III.67, c. 400r).
Il G. non aveva dunque motivi di soddisfazione circa i risultati ottenuti e quando si acuirono i contrasti fra la Reggenza e il Parlamento di Parigi, contrario ad avallare le continue imposizioni fiscali, egli si preoccupò innanzitutto di verificare se nel nuovo, movimentato quadro politico fosse possibile aumentare la pressione diplomatica per pacificare i due principali Regni cattolici. Contando su qualche "amico del Parlamento", tentò di convincere i dissidenti "di operare alla Pace, come più efficace rimedio per sollevar quel Regno" (17 luglio 1648, Arch. segr. Vaticano, Segreteria di Stato, Francia, 96, c. 279). Ancora più esplicitamente, mentre il contrasto sfociava in una dura lotta politica accompagnata da rivolte popolari e da scontri armati nelle province (la Fronda parlamentare), il G. denunciò la responsabilità di Mazzarino nell'inasprimento delle tasse allo scopo di "imprese inutili, e dispendiose, et aliene dalla Pace" (17 luglio 1648, ibid., c. 317r). Il G. rimase dunque piuttosto freddo di fronte ai rovesci delle fortune di Mazzarino, dichiarato dal Parlamento nemico del Regno nel gennaio 1649 e fatto oggetto di una violenta campagna di stampa: ne ricavò accuse di essere complice del movimento ostile al Mazzarino.
La pace di Saint-Germain, che chiuse la Fronda parlamentare nell'aprile 1649, diede modo al G. di ripetere gli sforzi per aprire trattative di pace tra Francia e Spagna, ma la nuova fase delle lotte civili francesi, la Fronda dei principi, di nuovo obbligò il G. alla cautela affinché non si potesse accusare il papa di "fomentare un partito contrario al Re, e la divisione in Francia" (10 febbr. 1651, ibid., 103, c. 29v). Piuttosto, il G. tentò di approfittare del momento di difficoltà di Mazzarino (allontanatosi da Parigi nel febbraio 1651) per porre rimedio ad alcune questioni pendenti fra Parigi e Roma, come la rimozione richiesta dal papa dell'ambasciatore presso la S. Sede, Henri d'Estampes de Valençay, colpevole di avere tenuto più volte un comportamento indegno del suo ufficio. Non riuscì però nell'intento e il Valançay, per parte sua convinto della connivenza del G. con i "Frondeurs", fu richiamato solo alla fine del 1653.
Parimenti fallimentare fu il tentativo del G. di ottenere la scarcerazione di Jean-François-Paul de Gondi, il cardinale di Retz, uno dei protagonisti della Fronda, nominato cardinale nel febbraio 1652. Mazzarino lo aveva fatto arrestare nel dicembre successivo e Innocenzo X aveva elevato formali proteste per il pregiudizio alla giurisdizione ecclesiastica, incaricando il G. di esercitare pressioni presso i sovrani e il cardinale primo ministro. Non fu però conseguito alcun risultato e la vicenda si chiuse solo con la fuga del cardinale di Retz, l'8 ag. 1654. Il G. non poteva che enumerare continui "naufragij", cui si era aggiunto "un memorabile sconcerto per li debiti" che aveva contratto (al cardinale Chigi, 2 ott. 1654, Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat., 6103, c. 126). Nemmeno nel tentativo di contrastare la diffusione fra gli ecclesiastici di Francia della dottrina giansenista la sua azione ebbe successi di rilievo.
L'Augustinus di Cornelius Jansen, opera postuma che svalutava fortemente il valore delle opere umane ai fini della salvezza, era stato censurato da Roma con la bolla In eminenti del 6 marzo 1642, retrodatata al marzo 1641 e pubblicata nel giugno 1643. In Francia la facoltà di teologia della Sorbona, su ordine della Reggenza, aveva registrato il provvedimento pontificio vietando di sostenere le proposizioni condannate. Il divieto era stato però ignorato e in difesa di Giansenio aveva scritto diverse opere Antoine Arnauld. Una delle tesi sostenute da quest'ultimo, che considerava gli apostoli Pietro e Paolo pari fondatori del primato della Chiesa, obbligò subito il G. a un intervento: nel gennaio 1645 egli trasmise i testi incriminati a Roma e la proposizione sull'uguaglianza dei due apostoli fu condannata dal S. Uffizio nel gennaio 1647. Ne scaturì una dura reazione del Parlamento, che giunse a negare al G. la titolarità di una funzione giurisdizionale con competenze sul clero di Francia. Il G. non poté così ottenere la convalida della pubblicazione del decreto romano, che comunque ebbe una discreta circolazione: contattando cautamente diversi membri del Parlamento, egli riuscì solo a rassicurare Roma che si era esclusivamente inteso ribadire la procedura consolidata secondo cui bolle e decreti pontifici dovessero essere approvati dal re e registrati dal Parlamento. Nicolas Cornet, docente della Sorbona, aveva pubblicato delle proposizioni traendole dagli scritti dell'Arnauld e aveva chiamato i colleghi a esprimersi sulla loro ortodossia. Il G. previde che non ne sarebbe scaturito alcun risultato e che la materia sarebbe passata al Parlamento di Parigi, ma nemmeno quest'organo riuscì a chiudere la disputa. Decisiva fu una riunione generale del clero francese che tornò sulla questione all'inizio del 1651: in questa sede fu nuovamente avanzata la richiesta di un deciso pronunciamento di Roma. Il G. aveva notizia che diversi vescovi non condividevano le auspicate condanne dei giansenisti; tuttavia, sapendo che la Reggenza avrebbe desiderato una presa di posizione in tempi tanto turbolenti per la Francia, trasmise a Roma una petizione che segnalava cinque proposizioni su cui esprimere formale condanna. Il pontefice, dopo alcune consultazioni, censurò le cinque tesi.
La bolla Cum occasione, datata 31 maggio 1653, fu poco dopo spedita al G., ricevuto il 3 luglio in udienza dai reali per presentarne il testo stampato. Incontrò in questa occasione Mazzarino, Anna d'Austria, il giovane Luigi XIV; tutti assicurarono l'appoggio della Corona all'iniziativa romana, ma il G. comprese presto che molti prelati e membri del Parlamento avrebbero fatto opposizione. Le sue previsioni colsero nel segno: Mazzarino convocò presso il Louvre i vescovi presenti a Parigi e ottenne l'assenso di molti fra loro. Alcuni però (come l'arcivescovo di Sens Louis-Henri de Pardaillan de Gondrin, i vescovi di Angers, di Comminges, di Beauvais) trovarono il modo di manifestare la loro dissidenza: pubblicarono il testo della bolla romana accompagnandolo con una lettera pastorale che ne contraddiceva lo spirito. Il G. si attivò subito: inviò alcuni di questi testi a Roma e trovò degli intermediari, tra cui Vincenzo de' Paoli, per tentare di convincere i dissidenti. Ebbe il solo risultato di una sostanziale ritrattazione del vescovo di Angers; allora consigliò Roma di procedere contro il Gondrin. La questione aveva difficili risvolti; si trattava di verificare i mezzi più idonei per procedere contro un episcopato che con decisione rivendicava privilegi e libertà. Il G. consigliò alla Curia particolare cautela, anche perché vedeva scemare l'impegno della Corona a difesa dell'autorità pontificia, ma la decisione presa a Roma nel dicembre 1653 (nominare una commissione di prelati francesi che avrebbe proceduto contro l'arcivescovo di Sens) era invece destinata ad alzare i toni dello scontro. Toccò al G. presentare ai sovrani un breve di condanna della lettera pastorale (Nuper pervenit, 22 dic. 1653); ottenne un appoggio che gli sembrò non formale, ma mentre si impegnava senza successo a formare la commissione giudicatrice voluta da Roma, emerse l'alternativa (appoggiata da Mazzarino) di fare ascoltare l'accusato dai vescovi presenti a Parigi. Fu proprio questa assemblea, nel marzo 1654, a decidere il giudizio: le dottrine gianseniste furono condannate e l'iniziativa di Roma contro l'arcivescovo di Sens finì insabbiata. Il G. avvertì la Segreteria di Stato che non esisteva più modo di procedere contro i vescovi accusati di simpatie gianseniste, non solo per l'appoggio in realtà davvero scarso della corte di Francia, ma soprattutto per la resistenza che si poteva prevedere dal Parlamento contro un procedimento guidato da Roma.
La contesa, in effetti, si riaccese sotto Alessandro VII (Fabio Chigi), succeduto a papa Pamphili nell'aprile 1655. Al G., confermato in carica, era stata data istruzione di verificare la possibilità di una nuova sottomissione extragiudiziale dei prelati dissidenti: egli non la ottenne ed ebbe dal cardinale Mazzarino (nell'udienza del 26 febbr. 1656) rassicurazioni solo generiche. Nel maggio successivo, l'assemblea generale del clero dimostrò che in nome delle libertà gallicane non sarebbero state tollerate altre ingerenze romane. L'arcivescovo di Sens compì una ritrattazione soltanto di fronte a un'altra assemblea di prelati francesi, nel settembre 1656, e al G. non rimase che deplorare i toni troppo liberi usati in questi dibattiti. Richiesto da Roma di un giudizio sulla diffusione del giansenismo, il G. rispose di stimarla molto larga: la Corona in tempi di guerra non usava il rigore necessario e il fenomeno si ampliava rapidamente; in queste condizioni, una bolla che confermasse quella del 1653 non sarebbe stata a suo giudizio più efficace. Non fu ascoltato: la bolla del 16 ott. 1656 (Ad sacram Petri sedem) riprodusse integralmente la condanna precedente e solo la sostituzione del G. nell'incarico di nunzio in Francia gli risparmiò l'onere di presentarla. Richiamato a Roma, il G. fu creato cardinale, il 23 apr. 1657, con il titolo di S. Eustachio. Il 28 maggio 1657 ebbe anche la diocesi di Senigallia, resignata per ragioni di età.
Il G. morì a Roma il 23 ag. 1663.
Aveva avuto cinque figlie, di cui quattro monacate a S. Caterina in Forlì con i nomi di Laura, Giovanna Francesca, Teodora; della quarta, Barbara, non è noto il nome da religiosa. Una quinta figlia, Porzia, nell'estate 1633 sposò in prime nozze il marchese Bosio Calcagnini, dopo la morte del quale sposò Vincenzo Gonzaga, duca di Guastalla. Il G. ebbe anche due figli maschi, Ludovico "di non intiera et sana mente" (in Lutz, p. 38 n. 125) e Fabrizio, che non continuarono la linea dei Guidi di Montebello, alla quale subentrò il conte Giulio della linea mantovana.
Fonti e Bibl.: Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat., 5256, cc. 109-110: Instruttione per gli sospetti presenti di mossa d'armi straniere e de Grigioni, 6098-6104, 7856-7859, 9398-9407, 9650-9654; Arch. segr. Vaticano, Segreteria di Stato, Francia, 88, 92-110, 280, 307-309, 311; Fondo Pio, 220-222; A. Malvezzi, Papa Urbano VIII e la questione della Valtellina. Nuovi documenti, in Arch. stor. lombardo, LXXXIV (1957), pp. 3-111; G. Lutz, Kardinal Giovanni Francesco Guidi di Bagno. Politik und Religion im Zeitalter Richelieus und Urbans VIII., Tübingen 1971, pp. XLVIII-L, 35 n. 115 e ad ind. (il carteggio tra il G. e il fratello Giovanni Francesco); P. Blet, Le nonce Nicolò di B. et le jansénisme 1651-56, in La vie, la mort, la foi, les temps. Mélanges offerts à P. Chaunu, a cura di J.-P. Bardet - M. Foisil, Paris 1993, pp. 423-438; G. Brunelli, Poteri e privilegi. L'istituzione degli ordinamenti delle milizie nello Stato pontificio tra Cinque e Seicento, in Cheiron, XII (1995), 23, pp. 105-123; B. Barbiche, La nonciature de France aux XVIe et XVIIe siècles: les nonces, leur entourage et leur cadre de vie, in Kurie und Politik. Stand und Perspektiven der Nuntiaturberichtsforschung, a cura di A. Koller, Tübingen 1998, pp. 64-97; S. Andretta, La Repubblica inquieta. Venezia nel Seicento tra Italia ed Europa, Roma 2000, ad indicem.