Aristarco, Guido
Teorico, critico e storico del cinema, nato a Mantova il 17 ottobre 1918 e morto a Roma l'11 settembre 1996. Tra i principali esponenti della cultura cinematografica in Italia e a livello internazionale, con la sua attività contribuì a dare una nuova impostazione all'approccio critico nel nome di un'unità culturale tesa a rifiutare valori estetici esclusivi e formalistici, per rivendicare la pluralità e la ricchezza degli strumenti interpretativi da utilizzare in rapporto alla raggiunta complessità del linguaggio filmico. Richiamandosi ai principi dell'estetica marxista e al pensiero di quegli autori che costituirono l'importante punto di riferimento della sua riflessione (György Lukács, Antonio Gramsci di Letteratura e vita nazionale, Bertolt Brecht, Sergej M. Ejzenštejn), fece della nozione di realismo uno dei fulcri del suo pensiero, portando avanti negli anni la sua battaglia culturale e politica volta a radicare il cinema nella realtà civile contemporanea, attraverso i suoi scritti e dalle pagine della rivista "Cinema nuovo" di cui fu fondatore e direttore sino alla morte. Convinto dell'importanza dell'inserimento del cinema nella scuola e nell'università, con Luigi Chiarini vinse il primo concorso a cattedra in storia e critica del cinema e fu quindi professore ordinario della materia all'Università degli studi di Torino (dal 1973) e all'Università degli studi di Roma 'La Sapienza' (dal 1983). Dal 1987 fu socio corrispondente dell'Accademia dei Lincei.Laureatosi in lettere, aveva collaborato sin da giovanissimo come critico cinematografico prima per "La voce di Mantova", quindi, dal 1939, per "Il corriere padano" di Ferrara e per varie riviste dei Guf, da "Signum" di Treviso alla bolognese "Architrave". E fu in un articolo per "Il corriere padano" che nel 1943 denunciò il vuoto formalismo di alcuni film dell'epoca caratterizzati da una forma di sterile resistenza passiva nei confronti del regime fascista, rispetto alla forza critica di Ossessione di Luchino Visconti e, in misura minore, di Quattro passi tra le nuvole di Alessandro Blasetti e I bambini ci guardano di Vittorio De Sica. Il film di Visconti si inserì nel suo cammino culturale con forza dirompente in quanto "segno corposo di condizioni sociali mai rivelate dai nostri film prima di allora" (L'utopia cinematografica, 1984, p. 197). Dopo aver dato il suo "contributo" alla Resistenza, dal 1945 fu ai microfoni della RAI come redattore del radio giornale e titolare di una rubrica cinematografica, ma solo tre anni più tardi venne sollevato dall'incarico, insieme a Elsa Morante, per l'irrigidirsi del clima politico. Fu dapprima intorno al nucleo della rivista "Cinema" (di cui fu caporedattore nel 1952, ultimo anno della sua collaborazione), quindi intorno a "Cinema nuovo" che si approfondì il dibattito sul Neorealismo. In particolare, A. nei suoi articoli volle evidenziare come al contrario di quanto avveniva nella produzione di stampo tradizionale, quella neorealista fosse in grado di rilevare dietro la quotidianità degli eventi più banali il loro significato più profondo, quella "realtà seconda" che tende a sottrarsi a uno sguardo superficiale. D'altro canto, però, lo studioso ben presto denunciò il divario che avvertiva tra i principi teorici e la ricerca stilistica e di linguaggio, ritenendo che non vi fosse alcun film "eccetto La terra trema di Visconti, che ponesse la questione della lotta di classe, delle classi come motore della storia" (L'utopia cinematografica, p. 201). Questa riflessione, che esercitò un'influenza attiva sulla prassi cinematografica (una "critica fautrice" secondo la definizione, fatta propria, di Giacomo Debenedetti, mentre isolato rimase l'episodio di coinvolgimento diretto, ossia la partecipazione alla sceneggiatura di Il sole sorge ancora, 1946, di Aldo Vergano), fu animata da un altrettanto intenso impegno nel promuovere un processo di revisione della critica chiamata a parlare di cinema non più in riferimento a un'estetica esclusivamente cinematografica, ma a norme universalmente valide per le creazioni artistiche e considerando al contempo i film sulla base di un criterio metodologico storicistico. A., dopo aver pubblicato nel 1950 l'antologia L'arte del film e vari articoli sull'argomento di cui uno di particolare rilievo, Urgenza di una revisione dell'attuale indagine critica (in "Critica", n.s., 15 ottobre), l'anno successivo fece uscire la sua Storia delle teoriche del film nella quale, ripercorrendo per la prima volta sistematicamente le riflessioni teoriche sul cinema, sottolineò come il problema fondamentale non fosse più sostenere la natura di arte del nuovo mezzo, bensì "inserire il cinema stesso nella cultura" e rifiutare l'isolamento di gran parte della letteratura cinematografica. Non solo in quest'opera viene analizzato il pensiero dei grandi 'sistematori' come Béla Balázs, Vsevolod I. Pudovkin, Ejzenštejn, Rudolf Arnheim, ma vengono fatte conoscere le teorie, tra gli altri, di Paul Rotha e analizzato nel dettaglio il contributo italiano, soffermandosi in particolare su Umberto Barbaro e Chiarini. Nella seconda edizione rivista e ampliata (1960), a completare il quadro di riferimento, verrà sottolineata l'importanza dell'apporto di quegli intellettuali specialisti di altre materie, ma attenti al cinema e in contatto costante con gli studiosi del film, Debenedetti in primo luogo, nonché dato rilievo e ampio spazio al pensiero di A. Hauser che nella sua Social history of art and literature pone tutta l'arte moderna "all'insegna del film". Anche in questa occasione, come già in precedenza, A. confermerà il carattere "militante" della propria metodologia critica, nella certezza che gli eventi politici avevano segnato e stavano segnando profondamente la storia del cinema, chiamata a esemplificarne "umori, lotte e situazioni". Un segno forte di ciò era stato il clamoroso arresto di Renzo Renzi e dello stesso A., avvenuto per iniziativa della procura militare il 10 settembre 1953, per avere il primo scritto e il secondo pubblicato sul nr. 4 di "Cinema nuovo" di quell'anno un soggetto di film 'proibito', dedicato all'occupazione militare italiana in Grecia: L'armata s'agapò. I due critici vennero processati e condannati per il reato di oltraggio alle Forze armate da un tribunale militare e in base al codice penale militare del 1941. Ampia documentazione del processo, che suscitò vasta eco nell'opinione pubblica, è offerta dal volume Dall'Arcadia a Peschiera (1954) con contributi di Renzi e di A. che, senza soffermarsi sulla vicenda personale, ne analizza il valore emblematico di attacco nei confronti della denuncia di certi "pilastri-tabu" (in primo luogo il silenzio sugli eventi del passato), portata avanti nel cinema italiano di quegli anni proprio dal Neorealismo. E fu lo stesso A. a segnalare in quel periodo l'esigenza di un passaggio al realismo, a un rispecchiamento in senso lukacsiano della realtà colta nella specificità della sua trasformazione storico-sociale, come, d'altro canto, ad auspicare un superamento dell'esperienza neorealista di fronte a quella che giudicò l'involuzione di registi come De Sica e Roberto Rossellini. La concretizzazione di questo progetto teorico A. la individuò nel film Senso di Visconti, la cui analisi (in "Cinema nuovo", 10 febbraio 1955, 52), espressione esemplare del suo metodo, avviò un confronto serrato nell'ambito della cultura cinematografica del periodo e s'inserì nel più ampio dibattito sulla produzione neorealista (in primo luogo letteraria) che implicò una riflessione, a tratti aspra, sulle sue ambiguità e sull'assunzione di modi rappresentativi populistici e cronachistici. A., in particolare, ravvisò in Senso il respiro e la profondità del grande romanzo moderno e, al contempo, una capacità di rilettura critica del testo letterario di riferimento, nonché soluzioni stilistiche in grado di cogliere le contraddizioni e la complessità degli eventi storici dandone un giudizio che è anche una presa di posizione sul presente. In questo quadro di battaglia culturale s'inserisce la 'polemica' ("discussione" la definirà anni più tardi A.) con André Bazin, collaboratore fisso di "Cinema nuovo", che nell'agosto del 1955 scrisse ad A. una lettera aperta In difesa di Rossellini. Queste pagine, e le successive risposte di A., sono testimonianza di un confronto ideologico, oltre che di un modo contrastante dei due studiosi di affrontare il problema della crisi del montaggio inteso come specifico filmico. Rispetto a Bazin, A. non eleva il piano-sequenza a sistema morale di resa più realistica, ma lo considera uno dei mezzi tecnici e stilistici a disposizione dei registi. Al contempo, se pure vede in Rossellini uno dei pochi autori in grado di andare oltre l'apparenza per cercare l'essenza del reale, ritiene che il ricomporsi dei conflitti sia dal regista colto nel divino e non nell'umano e ribadisce così l'opzione per le epifanie laiche di Ladri di biciclette o di La terra trema, ma anche, successivamente, di fronte all'arretramento intimistico del Visconti di Le notti bianche, per quelle moderne, anch'esse laiche, di Michelangelo Antonioni. Così, all'interno di un percorso strettamente legato al più ampio dibattito culturale di quegli anni, centrato sulla crisi delle ideologie e sul ripensamento della politica della sinistra, si pongono le valutazioni di Il dissolvimento della ragione (1965). In quest'opera, che come la Storia delle teoriche ebbe vasta circolazione a livello internazionale e fu tradotta in più lingue, A., di fronte all'esigenza di confermare "la necessità di un ritorno a Marx" (p. 114), opponendosi alle derive dello stalinismo, e di confrontarsi con le moderne avanguardie e la pretesa dissoluzione del personaggio e dell'intreccio, dà conto di quello che Lukács, nell'introduzione, definisce un lavoro "capace di interiorizzazione e approfondimento critico".
Nel perseguire l'integrazione di vari approcci della critica (simbolica, stilistica, sociologica, semiologica) e nel ribadire l'impossibilità di prescindere dal giudizio di valore, rifiutando un'indifferenziata omologazione, A. in questo e negli altri suoi studi approfondì la ricerca sui problemi di linguaggio e di poetica, analizzando gli autori più diversi e avendo da tempo individuato in una frase di Gramsci la sintesi del proprio metodo: "Ci sono artisti che si amano, altri che si ammirano. Si ama il proprio poeta, si ammira l'artista in genere". E quindi oltre agli studi su Visconti, Antonioni e Federico Fellini (Cinema italiano 1960. Romanzo e antiromanzo, 1961; Su Visconti: materiali per un'analisi critica, 1986; Su Antonioni: materiali per un'analisi critica, 1988), e a quello sui fratelli Taviani prima maniera (Sotto il segno dello Scorpione, 1977), elaborò il filo rosso che lega i saggi di L'utopia cinematografica (1984) in un percorso che valorizza l'apporto di autori come Walter Benjamin e Brecht, riprende il di-scorso su Ejzenštejn, rintraccia l'influsso di Luigi Pirandello e la presenza di strutture epifaniche, della ricerca dell'oltre, delle intermittenze del cuore in registi come Charlie Chaplin, Pier Paolo Pasolini, Jean-Luc Godard, Glauber Rocha, Ingmar Bergman e altri, riflette sul passaggio, avvenuto anche nel cinema, dalle filosofie delle certezze a quelle del dubbio. Sino all'analisi delle poetiche di sette registi e alle 'letture' critiche di dieci film in I sussurri e le grida (1988). Questo lavoro teorico (caratterizzato anche dall'attenzione alle nuove tecnologie e ai conseguenti cambiamenti nell'elaborazione e nella fruizione del film) fu accompagnato da un costante impegno volto a rivendicare l'importanza della metodologia, il riferimento alle fonti, a denunciare la mancanza di memoria storica di parte della critica più recente, sulle pagine di "Cinema nuovo" come nel suo ultimo libro, Il cinema fascista (1996), in cui ripercorre anni di lotte culturali e ideologiche in chiave di lucida autobiografia.
F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, Milano 1993, pp. 28-31 e passim.
G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano, 2° vol., Roma 1993², 3° vol., Roma 2000³ e 4° vol., Roma 1998³, passim.
"Cinema nuovo", 1996, 3.
V. Attolini, Teorie classiche del cinema, Bari 1997, pp. 126-29.