GUIDO da Pisa
Nacque a Pisa nella seconda metà del XIII secolo.
I documenti emersi dalle ricerche archivistiche su G. non offrono la certezza dell'identificazione data l'alta concentrazione di omonimi vissuti nello stesso periodo in cui G. sicuramente operava. Gli unici dati biografici certi si ricavano dalle sue opere: principalmente dalle Expositiones et glose super Comediam Dantis e dalla Fiorita d'Italia.
La stessa qualifica di "pisano" o "da Pisa" che accompagna nella tradizione manoscritta il nome di G. è stata variamente interpretata. L'uso costante della specificazione avrebbe una buona ragion d'essere nel caso G. fosse vissuto per un certo periodo fuori dalla città natale, anche se la consuetudine di scrivere nome e luogo d'origine era una delle maniere più comuni all'epoca per identificare i religiosi ed era abituale anche nel convento di S. Maria del Carmine di Pisa per indicare gli appartenenti alla propria comunità.
Qualora invece il toponimo si dovesse riferire unicamente al convento di affiliazione, sarebbero le stesse parole di G. a farci certi della città natale. G. si designa, infatti, come "oriundus" e "civilis filius" di Pisa nella chiosa a Inferno, XXXIII, v. 89 all'interno di una digressione sullo stato della città (Expositiones, ed. Cioffari, p. 698). L'appartenenza all'Ordine carmelitano è affermata dall'autore nella glossa a Inferno, XXVIII, v. 17, laddove, trattando della cattura e uccisione di Corradino di Svevia e dei suoi fedeli, indica il luogo della loro sepoltura a Napoli come "apud locum nostrum ordinis de Carmelo" (ibid., p. 577). Il sogno di G. di essere elevato a "episcopus sive abbas" (ibid., p. 18) - esempio autobiografico di cui l'autore si serve per spiegare i diversi generi di visione - fornisce una conferma della qualifica sacerdotale di G., ma la sua effettiva realizzazione non trova alcun riscontro documentario.
Dalla chiosa a Inferno, XXXI, vv. 115-123, in cui G. descrive una statua di s. Cristoforo vista di persona a Roma (ibid., p. 656), si può inferire una permanenza dell'autore in quella città. Meno probante il racconto puntuale, già in parte ricordato, circa il destino dei sodali di Corradino a Napoli per dimostrare una qualche familiarità da parte di G. con quei luoghi. La diffusa conoscenza di fatti e personaggi dell'Italia settentrionale - contraddetta però dall'errore in cui G. incorre descrivendo l'Adige come una città nella chiosa a Inferno, XII, v. 4 nella prima redazione delle Expositiones - ha fatto avanzare l'ipotesi di una stesura transappenninica del commento (cfr. Livi; Mazzoni). Con maggior fondamento si può invece supporre che G. abbia frequentato Genova: alla dedica delle sue opere di esegesi dantesca all'aristocratico genovese Lucano Spinola di San Luca si aggiunga la padronanza che G. dimostra del dialetto locale (glossa a Inferno, XXIV, v. 33) e il silenzio che nelle Expositiones accompagna l'invettiva di Dante contro Genova (Inferno, XXXIII, vv. 151-153).
Si può collocare l'inizio della produzione letteraria di G. dopo il 1321, anno di morte di Dante, termine di posteriorità implicato dalla conoscenza delle tre cantiche dimostrata da G. in ogni sua opera e dall'epitaffio che compose in memoria del poeta. Per fissare invece il termine entro il quale datare l'attività intellettuale di G. l'argomento è fornito dal II libro, cxxii rubrica della Fiorita: qui infatti si parla di Federico III d'Aragona - morto nel 1337 - come ancora vivo.
Alcune espressioni usate da G. sembrerebbero confortare la tesi che egli si fosse dedicato in età già matura alla produzione letteraria e che, protrattasi questa per almeno un decennio, il suo abbandono non debba aver di molto preceduto la morte dell'autore, se non ne è stata bruscamente interrotta. G. commenta i versi di accesa polemica di Dante contro Pisa del canto XXXIII dell'Inferno con la descrizione della decadenza attuale della sua città (secondo Jenaro-MacLennan, pp. 31-38, narrando avvenimenti non posteriori al settembre del 1328) e conclude augurandosi di assistere a una rinascita di Pisa prima della propria morte ("ante tempora mee mortis", p. 698). Quest'accenno sembra dare un indizio della senilità dell'autore. Canal ritiene inoltre che anche tra le righe dell'Antiprologo della Fiorita si possano leggere delle indicazioni in questo senso; l'immagine che ne ricaviamo, sostiene, è quella di un sacerdote "giubilato".
Infine, alcuni elementi si possono ricavare dalle miniature del codice di Chantilly, Musée Condé, 579 (c. 31r), esemplare di dedica delle Expositiones e Declaratio a Lucano Spinola: G. infatti è qui raffigurato canuto nell'atto di scrivere e poi consegnare il volume al più giovane Lucano (fatto salvo che non si tratti di una rappresentazione topica della figura del magister).
Abbiamo notizie dell'aristocratico ghibellino in atti dal 1323 al 1347; a suo figlio Tobia Giovanni nel 1339 era riservato il canonicato nella cattedrale pisana. Si può dedurre, dunque, che il dedicatario dell'opera fosse un uomo già maturo quando G. gli fece omaggio dei suoi lavori, tanto più che G. designa Lucano come colui "qui multotiens parambulas semitas maris" in un passo delle Expositiones (p. 115).
Le note noncupatorie di molti tra i manoscritti che ci conservano la sua opera indicano l'autore secondo formule variamente riconducibili a quella premessa al cod. di Chantilly: "per Fratrem Guidonem Pisanum, Ordinis Beate Marie de Monte Carmeli" (c. 31r) o a quella di un tardo testimone della Fiorita: "frate Guido da Pisa dell'ordine dei frati del Carmino" (metà sec. XV; Firenze, Biblioteca nazionale, II.II.125, c. 1r); se ne discosta il codice conservato a Siviglia, Biblioteca capitular y Colombina, 5.4.34 (fine sec. XIV) che attribuisce erroneamente il sistema di glosse al Paradiso dantesco in esso contenuto - in realtà il manoscritto è testimone dell'Ottimo commento per quanto concerne la terza cantica - a un "fratrem Guidonem del Carmino da Firenze" (c. 62r). Nell'ambito della tradizione indiretta si ricordano le affermazioni del Nidobeato e del Landino che nominano tra i primi commentatori danteschi un certo "Riccardo theologo frate carmelitano" (C. Landino, Commento, a cura di P. Procaccioli, Roma 2001, I, p. 220). È dubbio che il riferimento debba ritenersi a G., anche perché Landino stesso più avanti chiama "Guido del Carmine" il commentatore dei primi ventisette canti dell'Inferno (ibid., II, p. 478), conformemente a quanto dichiara Francesco da Buti (Comento, a cura di C. Giannini, I, Pisa 1852, p. 189).
I primi biografi carmelitani segnalano un "Guido sodalis, natione Italus, Carmelita, virtutum & Musarum cultor assiduus, scripsit idiomate Italico Historiam de quinque primis Italiae Regibus", attivo intorno al 1318 (de Villiers, p. 581).
Fin dall'inizio degli studi su questo autore le indagini archivistiche hanno tenuto conto dell'intera area geografica sottoposta alla provincia toscana dell'Ordine dei carmelitani (si lamenta pertanto la perdita del primo volume degli atti capitolari della provincia toscana e il fatto che le Ricordanze del Carmine fiorentino inizino solo nel 1330, dando per i primi anni solo notizie frammentarie). Grande attenzione è stata riservata, in particolare, a eventuali contatti di G. con il convento carmelitano di Firenze. Le Expositiones si rivelano molto attendibili circa gli avvenimenti politici descritti o allusi da Dante, ma l'intrecciarsi della storia pisana con quella fiorentina nel periodo storico che interessa e la contiguità geografica delle due città non rendono necessario presumere una permanenza di G. a Firenze. È comunque un fatto che due testimonianze mettano in relazione un "Guido pisano" con il Carmine di Firenze: l'indicazione del codice di Siviglia già riportata e una pergamena conservata nell'Archivio di Stato di Firenze (9 dic. 1324; cfr. Sabatini, 1972) nella quale compare il nome di un "Frater Guido Pisanus" come tredicesimo sottoscrittore di compromesso tra il convento fiorentino e i canonici di S. Frediano.
Un frate Guido carmelitano compare inoltre in sette documenti rogati nel corso del 1326 a Pisa (4 settembre - 15 novembre; pergamene degli agostiniani di S. Nicola in Pisa, nn. 452-458). Si tratta di documenti riguardanti i lasciti di donna Dea del fu Albisello Boni (di un Albizzello del fu Bandino di Buono della "cappella" di S. Bartolomeo degli Erizi abbiamo notizie nel 1282), la quale nomina propri fideicommissari ed esecutori testamentari due nipoti: frate Bandino agostiniano e frate Guido carmelitano.
In un documento proveniente dalla mensa arcivescovile di Pisa (pergamena n. 1553, datata 15 maggio 1335, cfr. Sabatini, 1967) figurano, tra i beneficiari del testamento di un certo Lemmo di Bartolomeo Panevino, "fratri Guidoni" del convento di S. Maria del Carmine e "fratri Bandino del Bono" del convento dei frati minori di S. Francesco. Osta all'identificazione di frate Bandino del Bono di questa pergamena con l'agostiniano nipote di donna Dea Boni la diversa comunità religiosa di appartenenza, ma non si può non rilevare il comune patronimico e il fatto che il nome di un frate Bandino sia associato nuovamente a un frate Guido carmelitano. Riferibili forse a questa famiglia "del Bono" o "Boni", se non direttamente a un Guido identificabile con G., le notizie relative alle terre di "Guido de Bono" (Arch. della curia arcivescovile, n. 363: Pisa, 27 maggio 1265) o "Guidonis heredumque Boni" (Ibid., n. 412: Pisa, 14 luglio 1276) situate nella zona di Calci.
Si segnalano inoltre alcune nuove acquisizioni: una pergamena proveniente dall'Archivio arcivescovile di Pisa e due registrazioni di atti rogati a Pisa dal notaio Andrea di Pupo de' Peccioli, che sono state variamente riferite a G. (Arch. di Stato di Firenze, Notarile antecosimiano). La pergamena riporta un atto del 1282 che si riferisce all'incontro, a Siena, tra i delegati di papa Martino IV e la rappresentanza dei frati carmelitani di Pisa, tra questi un "fratris Guidonis, [e altri] cum plures ad presens non sint Pisis" (Carte dell'Archivio arcivescovile di Pisa). Il primo documento del registro è il testamento di donna "Beldies" figlia di Landolfuccio della cappella di S. Sebastiano a Chinzica in Pisa, in favore di "fratri Guidoni de ordine sancte Marie de Carmelo de Pisis" (20 luglio 1332). Il secondo testo è una recognitio dei beni di Vannuccia moglie del fu Francesco della cappella di S. Lorenzo a Chinzica in cui "frater Guido pisanus de ordine sancte Marie de Carmelo" compare tra i testimoni; si tratta dell'attestazione più recente in cui compaia in forma completa il nome di G. accompagnato dalle consuete qualifiche (20, 21 luglio 1339).
Tra le altre possibili identificazioni proposte si segnalano: quella con un frate G. di Bono Vestiti che compare in atti del 1327, ma si ignora se sia stato o meno frate carmelitano (cfr. A. D'Ancona - O. Bacci, Manuale di letteratura italiana, I, Firenze 1906, pp. 469-472); con un G. del fu ser Cecco, frate carmelitano nominato quale testimone in una pergamena del Carmine di Pisa (30 marzo 1348: Arch. di Stato di Pisa, Diplomatico, n. 32); con un frate "Guido Ugolini de Fummo" presente in atti del Carmine di Firenze tra il 1333 e il 1348, il quale però non risulta legato al convento pisano (cfr. Sabatini, 1967).
Altre proposte lasciano un margine troppo ampio di incertezza. Un "Guido pisanus" compare in uno dei primi documenti riguardanti la comunità carmelitana a Pisa (Pisa, 10 ag. 1250: Arch. capitolare di Pisa, perg. n. 1059; Caioli, p. 141). La data di questa testimonianza è verosimilmente troppo alta perché il "Guido pisanus" nominato possa essere il biografato.
Livi riteneva che G. avesse scritto le sue Expositiones a Bologna (dove era fiorente la produzione di commenti della Commedia: Graziolo Bambaglioli, Iacopo Della Lana) o che vi avesse soggiornato a lungo formandosi alla cultura universitaria espressa dallo Studium bolognese. Sulla base di questo presupposto, non sostenuto da elementi oggettivi, affermò che G. si sarebbe potuto identificare con il "fratre Guidone de Pisis", sebbene questi fosse un frate eremitano, che compare come testimone a Bologna il 31 genn. 1325 (Livi, p. 61). In alternativa identificò G. con un "magistri Guidonis pisani, fixice professoris, filij q. domini Pellegrini de Gello S. Savini, pisane diocesis" (27 giugno 1300; ibid., p. 255).
Alcune delle proposte di identificazione avanzate in passato possono invece essere senz'altro lasciate cadere: prima fra tutte quella con un frate "Guido de Furno" (forse Forno di Massa Carrara) presente nel Carmine di Pisa nel 1344, il quale per un errore di lettura era stato confuso con il "Guido de Fummo" affiliato al convento fiorentino (di cui sopra). G.B. Archetti e S. Mattei, tra i primi a tentare di ricostruire la biografia di G., lo identificarono erroneamente con il frate carmelitano "Guidus quondam Chelini de Pisis" vissuto tra la fine del XIV e l'inizio del secolo successivo.
Dalle pergamene del monastero di S. Nicola in cui il nome di G. è legato alla famiglia Boni, alla testimonianza registrata dal notaio Andrea de' Peccioli, la documentazione più attendibile sullo stesso G. relativa alla città di Pisa copre un arco di tempo che va dal 1326 al 1339. Agli anni immediatamente precedenti, periodo in cui G. avviava la sua produzione letteraria, risale un documento (la pergamena del 1324) che dimostrerebbe la sua presenza a Firenze.
L'attività letteraria di G. si divide tra due interessi principali: l'antichistica e l'esegesi dantesca. La Fiorita d'Italia, compilazione biblico-mitologica di storia universale in volgare; l'epitaffio per Dante: "Hic iacet excelsus poeta comicus Dantes; / Necnon et satirus et liricus atque tragedus", conservato nel ms. di Chantilly (c. 33r); la Declaratio alla Commedia dantesca, che espone il contenuto dell'Inferno in terzine accompagnate da brevi chiose latine; infine, le Expositiones et glose super Comediam Dantis indicano G., tra i primi esegeti dell'Inferno, come uno dei più originali e attenti interpreti di Dante.
L'accenno di Argelati a una traduzione della Chioma di Berenice di Catullo e di alcune Odi oraziane attribuibili a G. si deve probabilmente a un fraintendimento della fonte (F. Argelati, Biblioteca dei volgarizzatori, III, Milano 1767, p. 102). È certamente erroneo considerare G. autore della Miscellanea historica geografica conservata a Firenze, Biblioteca Riccardiana, cod. 881, opera dell'omonimo Guido da Pisa vissuto tra l'XI e il XII secolo (Cioffari, 1974, p. XIV), come della Storia del duca Elia d'Orlino altro nome sotto cui corre l'Aiolfo del Barbicone di Andrea da Barberino (B. de Montfaucon, Bibliotheca bibliothecarum manuscripta, I, Paris 1739, p. 368; A.M. Bandini, Catalogus codicum Italicorum…, Firenze 1778, n. 34).
La composizione della Declaratio precede certamente la prova delle Expositiones, nella chiosa a Inferno, XIII, v. 1 si legge infatti: "Sicut in Declaratione istius primae canticae quam rithimice […] breviter preostendi" (p. 247); la datazione relativa delle due opere maggiori di G. è invece argomento di un recente dibattito. Secondo la cronologia vulgata la Fiorita precederebbe la stesura delle Expositiones. Rinoldi e Badon propongono invece di invertire l'ordine tradizionalmente assegnato alle due opere. Nessuno studio su questo argomento ha messo però in luce elementi determinanti a sostegno dell'una o dell'altra tesi; per lo più il confronto tra l'esito latino delle Expositiones e quello volgare della Fiorita relativo a una fonte comune alle due opere ha dato risultati ancipiti o che non escludono il ricorso indipendente alla medesima fonte.
La Fiorita d'Italia - titolo da preferirsi a quello sotto cui l'opera corre in numerose stampe moderne, ma estraneo alla tradizione manoscritta, di Fiore d'Italia (cfr. Bellomo, 2000) - si pone nella ricca tradizione medievale di compilazioni storiche sostenute da un intento didattico. Venne scritta, come già dimostrato, in un lasso di tempo compreso tra il 1321 e il 1337. L'uso del volgare è giustificato dalle finalità divulgative esplicitamente perseguite da G.: "sono molti, i quali vorrebbono sapere […] ed abbiano avuto impedimento dal non studiare […] io per utilità di questi cotali […] intendo di traslare di latino in volgare alquanti memorabili fatti e detti degli antichi" (ed. Muzzi, p. 4).
Secondo il progetto originario, descritto nell'Antiprologo, l'opera avrebbe dovuto concludersi con l'enumerazione degli imperatori succedutisi ad Augusto e consistere di sette libri; ci sono giunte solo le prime due sezioni che terminano con la narrazione delle imprese di Enea. L'autore mutua da Orosio la prospettiva universale e provvidenzialistica della storia incentrata sulle vicende di Roma; attorno a questo nodo centrale G. narra le vicende storiche e mitologiche della civiltà greca e quelle bibliche della storia ebraica.
Nell'opera G. non attinge alle fortunatissime serie di Faits des romans o dell'Histoire ancienne, rielaborazioni della storia e dell'epica antica molto sfruttate nelle contemporanee compilazioni (come l'omonima Fiorita di Armannino da Bologna del 1325). Le fonti della Fiorita vanno invece ricercate tra i classici latini (i principali: Ovidio, Seneca, Livio - di cui G. conosce I, III e IV Decade - Sallustio), come tra gli autori di Summae, enciclopedie e commentatori della tarda latinità (tra i quali Isidoro, Girolamo, Pietro Comestore, Iacopo da Varazze, Nicola Trevet). Fin dall'inizio della narrazione però spiccano come autorità privilegiate l'Eneide e la Commedia: il racconto di ogni vicenda è costellato di versi e di echi danteschi che ne richiamano il contenuto morale e le rubriche cxvi-clxxxiv del II libro corrispondono a un volgarizzamento-rifacimento del poema virgiliano arricchito da notazioni didattiche. La poesia di Dante e quella di Virgilio servono, nell'opera di G., alla costituzione di una visione unitaria e coerente della storia antica e della mitologia in una prospettiva cristiana che si esprime nella costante estrazione di motivi religiosi dai miti e nella presentazione di Enea quale campione di una vicenda provvidenzialmente determinata che porterà alla fondazione dell'Impero romano e alla nascita di una società cristiana.
Si contano oggi una sessantina circa di testimoni manoscritti di quest'opera (Bellomo, 1990; Rinoldi, 1999), la cui ricognizione è stata resa difficoltosa dal fatto che la maggior parte dei codici sono adespoti e anepigrafi, mentre nei restanti il titolo è indicato in varia maniera. L'immediata fortuna della Fiorita è testimoniata inoltre dal fatto che la materia venne precocemente rimaneggiata (cfr. Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 4838, datato 1387, che ne offre una versione compendiata) e riutilizzata in altre compilazioni (dal Libro di varie storie di Antonio Pucci all'Aquila un tempo attribuita erroneamente a Leonardo Bruni). L'epoca moderna ha privilegiato la sezione relativa alla narrazione delle gesta di Enea, che, divenuto testo consigliato per le scuole, venne autonomamente pubblicata, sotto il nome di Fatti di Enea, ben venticinque volte tra il 1830 e la metà del XX secolo.
La Declaratio o Dichiarazione poetica dell'Inferno (1321-28) appartiene a un genere, quello dell'esposizione in volgare rimata, che rappresenta una delle prime forme assunte dall'esegesi dantesca. L'opera era già nota a Bosone da Gubbio, che nel 1328 riutilizzò alcuni versi di G. nel suo Capitolo, e precede la composizione delle Expositiones et glose. Ciascuno degli otto canti che costituiscono la Declaratio è composto da venticinque terzine più un verso di chiusa e accompagnato da brevi chiose latine. Nel proemio, che consta di tre terzine più un verso, G. dedica l'opera a Lucano Spinola. Tanto in questi versi iniziali quanto nell'intero primo canto si fa esplicito riferimento a tutta la Commedia, introducendo sommariamente subiectum e finalis causa delle tre cantiche (servendosi di un richiamo evidente all'Epistola a Cangrande: "per rimuover la gente mondana / Del camin manco, et seguitar lo destro", II 2-3, ed. Mazzoni, p. 40). Secondo Francesco Mazzoni, ultimo editore dell'opera, la materia avrebbe dovuto coprire l'intero poema e il verso conclusivo della Declaratio ("E qui fo punto per far altri initii", VIII, 76, p. 71) fornirebbe un argomento all'ipotesi che si tratti di un testo incompiuto. Il capitolo rimato contiene già in nuce alcune interpretazioni originali di G. più ampiamente trattate nel commento maggiore, come quella sulle tre furie quali "tribus nequitiis heretice pravitatis" (glossa a V, 1-3, p. 54); mentre altrove G. propone un'opinione, che nelle Expositiones viene esplicitamente rifiutata, come il "mezzo […] del cammin" di Inferno, I, v. 1 a indicare la data d'inizio di composizione del poema nel 1300 (II, 35, p. 42).
La Declaratio è testimoniata dagli stessi due manoscritti, Chantilly e Londra, British Library, Add. mss., 31918 (sec. XV) che conservano la redazione definitiva del commento latino. Mazzoni ha stabilito che, limitatamente alla Declaratio, il codice londinese sia copia del ms. di Chantilly.
La relazione tra i due codici, relativamente alle Expositiones et glose super Comediam Dantis, è invece a oggi ancora oggetto di discussione. A seconda del peso accordato ad alcuni casi di lezioni corrette conservate dal solo codice londinese, i filologi oscillano tra la tesi della collateralità dei due manoscritti (Bellomo, 1979) e della descriptio del londinese (Luiso), il quale avrebbe però contaminato il testo attingendo da una fonte diversa dal manoscritto conservato a Chantilly (Mazzoni, 1958; Rinoldi, 1998).
Nel coacervo di chiose estratte da commenti differenti che si legge nel manoscritto Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, XL.2 (allestito negli anni 1370-72 ma con aggiunte fino al 1407) si possono individuare molte glosse attribuibili a G. dal I al XXIV canto dell'Inferno e, in maniera più occasionale, per i dieci canti successivi. Locatin ha mostrato come le chiose laurenziane rappresentino una fase redazionale anteriore alle Expositiones. Questa prima redazione (testimoniata da altri due codici laurenziani, XLII.14 e XLII.17) era presente all'autore dell'Ottimo commento (1334) e a Filippo Villani. Altri testimoni indiretti di questa stesura sono il codice detto "Ginori-Conti" (Ravenna, Biblioteca dantesca di S. Francesco) che ne conserva il volgarizzamento (esteso ai canti I-XXIV) e le chiose palatine (Firenze, Biblioteca nazionale, Palatino, 313), che si servono a loro volta di questa versione volgarizzata. Non trovano invece conferma le ipotesi avanzate su un commento di G. esteso alle tre cantiche (Canal, 1981; Cioffari, 1985).
Le chiose della prima redazione vennero in un secondo tempo arricchite di citazioni e di nuovo materiale e inserite in uno schema ordinato e funzionale. Se questa rielaborazione fosse strettamente connessa alla preparazione dell'opera destinata a Lucano, la datazione della seconda redazione potrebbe essere prossima a quella di allestimento dell'esemplare di dedica. Lucia Battaglia Ricci ritiene che lo stesso G. abbia presieduto alla stesura di questo manoscritto stante la stretta relazione che lega testo delle Expositiones e commento iconografico. Le expertises di codicologi e storici dell'arte hanno stabilito la data del manoscritto conservato a Chantilly intorno al terzo o quarto decennio del XIV secolo, identificando nella maniera del pisano Traini e nel ciclo di affreschi del Trionfo della morte nel camposanto di Pisa forti analogie con le miniature di quel codice (cfr. Meiss).
Jenaro-MacLennan e, quasi contemporaneamente, Orvieto e Sandkühler fissarono la data della composizione delle Expositiones et glose nel 1327-28 sulla base di concreti dati ricavati dal testo. Intesero il racconto di G. delle vessazioni inflitte ai pisani caduti nelle mani di cittadini nuovi e stranieri ("novorum civium advenarum": Inferno, XXXIII, vv. 89-91, p. 698) come il riferimento a un preciso e circoscritto episodio: la presa di potere di Castruccio Castracani, protetto da Ludovico di Baviera, e la sua signoria sulla città (dall'ottobre 1327 all'8 sett. 1328). Il termine ante quem sarebbe fornito dalla chiosa a Inferno, XX, vv. 94-96, ove G. cita Rainaldo Bonacolsi, signore di Mantova assassinato il 16 ag. 1328; ma G. non specifica in realtà se sia ancora vivo all'epoca.
Le riserve sollevate da alcuni critici su questi estremi (Cioffari, 1974; Franceschini) non hanno messo in discussione il valore dell'insieme della documentazione raccolta dai sostenitori della datazione alta del commento. Una costellazione di riferimenti (la battaglia di monte Pascio del 1325, Inferno, XIII, v. 145, p. 256; la perdita della Sardegna, 1324-26, Inferno, XXXIII, vv. 89-91, p. 698; e - per quanto sia dubbia la validità di questo argomento - la statua di Marte che si trovava sul Ponte vecchio a Firenze, prima dell'alluvione del 1333, Inferno, XIII, vv. 146-147, p. 256) converge infatti a delimitare con certezza tra la metà del terzo e il quarto decennio del Trecento la data di composizione delle Expositiones.
Franceschini pensa piuttosto a un'ultima revisione del commento intorno agli anni 1335-40, assumendo il cenno di G. alla cronaca cittadina pisana, già citato, come genericamente riferito alla decadenza della città in seguito alla battaglia della Meloria e all'inurbarsi di gente dal contado. All'interno di questa proposta troverebbe una puntuale corrispondenza l'invocazione al "nostro pio Samaritano" (p. 698) che dovrebbe risanare la condizione della città, con la persona di Lucano Spinola. Questi fu infatti il principale promotore, in quanto console dei Pisani a Genova nel 1335, del processo di pace tra le due città.
Francesco Torraca ritenne di identificare nella glossa a Persio di Paolo da Perugia, scritta poco avanti il 1348, una delle fonti utilizzate da G.; Jenaro-MacLennan ha dimostrato invece l'indipendenza delle Expositiones da quest'opera. Mazzoni, leggendo nel commento latino l'espressione della crisi della scolastica, collocava le Expositiones al 1343-50 circa.
Un capitolo ancora aperto e interessante riguarda le relazioni tra le prime esegesi a Dante, in particolar modo il rapporto - stretto soprattutto per quel che riguarda il Proemio, ove si trovano alcune tra le prime attestazioni della discussa Epistola a Cangrande - tra il Commento di Iacopo Della Lana (databile tra il 1324 e il 1328) e le Expositiones guidiane. È acclarato che G. conosca le esposizioni di Iacopo Alighieri e Graziolo Bambaglioli, come il fatto che le Expositiones costituiscano una delle fonti di Pietro Alighieri. La dipendenza dall'opera di G. dell'Ottimo commento va esaminata alla luce della prima redazione delle Expositiones.
Alla regolare sistematizzazione data da G. al materiale esegetico (ripartito in un breve sommario, una deductio textus de vulgari in latino, una expositio lictere cui fanno seguito le glose suddivise variamente in comparationes, vaticinii, notabilia, quaestiones e historiae) corrisponde un rigoroso schema di accessus che prevede, primo nel secolare commento alla Commedia, una netta distinzione tra l'interpretazione letterale e quella allegorica. In nessuno dei primi commentatori della Commedia si riscontra tale impegno nell'organizzare la materia.
L'interpretazione di G. si evidenzia dalle prime pagine delle Expositiones come singolarmente improntata a uno spirito teologico e chiesastico. È insistente il richiamo parenetico, come l'equiparazione della Commedia a un'opera "rivelata" adottando per essa la categoria della visio prophetica in somnium. Ma la presentazione del Dante auctor come profeta, che si legge nell'expositio lictere del I canto, non è sostenuta nel corso dell'intero commento. G. si serve alternativamente di chiavi di interpretazione differenti: definisce la poesia una forma di teologia, ma al tempo stesso distingue il Dante poeta della prima cantica dall'autore-teologo di Purgatorio e Paradiso. Appare senz'altro chiaro che il frate G. voglia salvaguardare l'ortodossia dell'opera che sta spiegando: già nelle glosse alla Declaratio sosteneva che solo la cattiva interpretazione della Commedia, e non il testo, avrebbe potuto indurre in errore; all'altezza del proemio delle Expositiones G. distingue nettamente gli ambiti della poesia da quelli della fede e invoca nel corso del commento la licenza della fictio poetica per giustificare le invenzioni dantesche (angeli ignavi e anime dannate di persone in vita) che contrastano i principî della dottrina cristiana. Il frequente richiamo al loqui poetice et fictive da parte di G., però, e lo spazio riservato all'autonoma descrizione del linguaggio poetico, non si riducono alla semplice apologia di Dante rivelando un'effettiva intelligenza estetica. Il gusto per la forma in quanto tale isola questa esposizione nel quadro dei primi commenti al poema dantesco e ha fatto invocare per G., da parte di più critici, la categoria di "preumanista".
Dietro le Expositiones si intravede un compatto quadro di riferimento culturale (Canal, 1981; Caglio), costituito da elementi filosofici, scritturali e letterari, che contribuisce a una sincretica, ma coerente, proposta esegetica con tratti originali rispetto ai commenti contemporanei (si pensi all'interpretazione della struttura infernale con i sette vizi capitali puniti prima dello Stige, mentre oltre la palude, dentro la città di Dite, sono puniti "omnia alia peccata que oriuntur ab ipsis", p. 207).
Le fonti delle Expositiones, oltre ai più conosciuti tra i classici latini (si noti, però, la presenza del Seneca tragico, autore che circolò facilmente solo alla fine del XIV secolo) e ai testi sacri e patristici, sono soprattutto le summae ed enciclopedie medievali, dalle quali G. assume direttamente porzioni intere di testo e massicce allegazioni di auctoritates.
Principali edizioni: Fiore d'Italia, a cura di L. Muzzi, Bologna 1824: unica edizione integrale dell'opera; Dichiarazione poetica dell'Inferno dantesco, a cura di F. Roediger, in Il Propugnatore, n.s., I (1888), pp. 62-92, 326-395; Declaratio super Comediam Dantis, a cura di F. Mazzoni, Firenze 1970; Guido da Pisa's Expositiones et glose…, a cura di V. Cioffari, New York 1974, da leggere tenendo conto di: V. Cioffari, Errata corrige…, in Forum Italicum, XXII (1988), pp. 223-236 e della recensione di G. Billanovich, in Studi medievali, s. 3, XVII (1976), 1, pp. 254-262. Il censimento dei manoscritti delle Expositiones è consultabile sul sito http://www.centropiorajna.it/censimento.htm.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Notarile antecosimiano, n. 450, cc. 15r, 345; Pisa, Arch. arcivescovile, già Archivio capitolare, Estratto di tutte le cartapecore… nell'archivio del ven. monastero di S. Nicola di Pisa, a cura di P. Maestro Ferri, cc. 105-106; Ferrara, Biblioteca comunale Ariostea, Cl.I.98: G.B. Archetti, Pinacotheca…, I, cc. 187, 188, 447; C. de Villiers, Bibliotheca Carmelitana, a cura di G. Wessels, Roma 1927, p. 581; Le carte arcivescovili pisane del secolo XIII, II, (1238-1272), a cura di N. Caturegli - O. Banti, Roma 1985, p. 443; III, (1272-1299), ibid. 1989, p. 29; Carte dell'Archivio arcivescovile di Pisa.Fondo luoghi vari, 3, (1281-1300), a cura di L. Carratori Scolaro - R. Pescaglini Monti, Pisa 1999, p. 33; R. Tempesti, Discorso… sull'istoria letteraria pisana, Pisa 1787, p. 72; E.G. Parodi, I rifacimenti e le traduzioni dell'Eneide di Virgilio prima del Rinascimento, in Studj di filologia romanza, II (1887), pp. 131-166, 333-344; F.P. Luiso, Di un'operainedita di frate G. da P., in Miscellanea… G. Mazzoni, I, Firenze 1907, pp. 79-135; G. Livi, Dante: suoi primi cultori, sua gente in Bologna, Bologna 1918, pp. 58-64, 253-255 [e recensione di F. Torraca, in Rass. critica della letteratura italiana, XXIII (1918), pp. 104-107]; P. Caioli, Il "Carmino" di Pisa, in Carmelus, III (1956), pp. 117, 141; F. Mazzoni, G. da P. interprete di Dante e la sua fortuna presso il Boccaccio, in Studi danteschi, XXXV (1958), pp. 29-128; A. Sabatini, Fra' G. da P. una probabile identificazione, in Carmelus, XIV (1967), pp. 242-254; B. Sandkühler, Die Frühen Dantekommentare und ihr Verhältnis zur mittelalterlichen Kommentartradition, München 1967, pp. 74-76, 155-192; E. Orvieto, G. da P. e il commento all'Inferno dantesco, in Italica, XLVI (1969), pp. 17-32; M. Meiss, Notable disturbances in the classification of Tuscan Trecento paintings, in The Burlington Magazine, CXIII (1971), 187, pp. 178-186; A. Sabatini, Fra' G. da P.: una pergamena del 1324, in Carmelus, XIX (1972), pp. 101-108; L. Jenaro-MacLennan, The Trecento commentaries on the Divina Commedia and the epistle to Cangrande, Oxford 1974; A. Vallone, G. da P. nella critica dantesca del Trecento, in Critica letteraria, III (1975), 3, pp. 435-469; P. Rigo, Il Dante di G. da P., in Lettere italiane, XXIX (1977), 1, pp. 196-207; S. Bellomo, Tradizione manoscritta e tradizione culturale delle "Expositiones" di G. da P., ibid., XXXI (1979), pp. 135-175; Id., Primi appunti sull'"Ottimo commento" dantesco, in Giorn. stor. della letteratura italiana, CLVII (1980), pp. 369-382, 533, 536 s.; A. Canal, Il mondo morale di G. da P. interprete di Dante, Bologna 1981; A.M. Caglio, Materiali enciclopedici nelle "Expositiones" di G. da P., in Italia medioevale e umanistica, XXIV (1981), pp. 213-256; N. Badon, Per una radiografia culturale del "Fiore d'Italia" di G. da P., in Atti dell'Istituto veneto, CXLIII (1984-85), pp. 323-340; V. Cioffari, Did G. da P. write a commentary on the "Purgatorio" and "Paradiso"?, in Studi danteschi, LVII (1985), pp. 145-160; S. Bellomo, Censimento dei manoscritti della "Fiorita" di G. da P., Trento 1990; L. Battaglia Ricci, Testo e immagini di alcuni manoscritti illustrati della "Commedia": le pagine d'apertura, in Studi offerti a Luigi Blasucci, Lucca 1996, pp. 23-49; A. Canal, Venti anni di studi e dibattiti su G. da P., in Studi medievali, s. 3, XXXVIII (1997), 2, pp. 931-944; P. Rinoldi, Spigolature guidiane, in Medioevoromanzo, XXII (1998), 1, pp. 61-111; Id., Per la tradizione indiretta della "Fiorita" di G. da P.: due manoscritti dell'"Aquila", in LaParoladeltesto, III (1999), 1, pp. 113-131; S. Bellomo, "Fiori", "fiorite" e "fioretti": la compilazione storico-mitologica e la sua diffusione, ibid., IV (2000), 2, pp. 217-221, 231; P. Locatin, Una prima redazione del commento di G. da P. all'Infernoe la sua fortuna (il ms. Laur. 40.2), in Riv.distudidanteschi, I (2001), 1, pp. 30-74; F. Franceschini, Per la datazione delle Expositiones et glose di G. da P. tra il 1335 e il 1340 (con documenti su Lucano Spinola), ibid., II (2002), 2, pp. 64-100; Enc. dantesca, III, pp. 325-328; Enc. virgiliana, II, pp. 816-821; Rep. fontium hist. Medii Aevi, V, pp. 282 s.