GUIDO da Vigevano
La documentazione riguardante G. è molto limitata, così che alcune importanti vicende della sua vita sono ricostruibili solo sulla base di ipotesi. Dal momento che nel 1311 egli era già un medico di qualche rinomanza e politicamente impegnato, è probabile che la data della sua nascita sia da fissare intorno al 1280.
Il toponimico che lo contraddistingue ha facilmente fatto credere che egli fosse nato a Vigevano, ma poiché in più occasioni viene regolarmente indicato come "de Papia", e così egli stesso si qualifica, non si può dubitare che il suo luogo di nascita sia stato Pavia. L'esistenza di individui che si denominano "de Vigevano" è del resto ivi sporadicamente attestata almeno dai primi decenni del XII secolo: è quindi possibile che la sua famiglia, oriunda da Vigevano, si fosse inurbata in Pavia sin dal secolo precedente. I membri di tale famiglia continuarono comunque ad avere rapporti con il luogo d'origine, dove conservavano beni fondiari e intrattenevano relazioni personali. La congettura che i da Vigevano fossero nobili e imparentati con altre illustri casate della zona come i da Besate è però frutto di costruzioni storiografiche oggi non più condivisibili.
Opicino de Canistris, autore intorno al 1330 del Liber de laudibus civitatis Ticinensis (Gianani), dopo aver vantato la presenza in Pavia di numerosi medici, precisa che molti pavesi venivano inviati a studiare in Bologna. Ora G. mostra nei suoi trattati di conoscere e praticare la dissezione dei cadaveri secondo il metodo che tra 1290 e 1326 fu appunto insegnato presso l'Università di Bologna da Mondino dei Liuzzi: si può quindi ritenere assai verisimile che egli abbia frequentato le sue lezioni benché non se ne abbia una precisa documentazione. In Pavia esisteva comunque una sorta di scuola di specializzazione per medici ai quali, fra 1308-09 e 1313, il cronista milanese Galvano Fiamma dice di aver tenuto lezioni extraordinariae sulla Fisica di Aristotele, proprio quando - va notato - ivi era presente anche G. impegnato, come fervente ghibellino, nelle lotte politiche allora in atto in città.
Preceduto da ambasciate volte a raccogliere adesioni alla propria causa, nel 1310 si annunciò in Lombardia la prossima venuta del re dei Romani, e futuro imperatore, Enrico VII, speranza dei ghibellini italiani, tra i quali è lecito credere vi fosse anche Guido. Le relazioni intercorse fra lui ed Enrico VII costituiscono però un altro nodo problematico che le fonti non consentono di risolvere. Sappiamo dalla Relatio del vescovo Nicola di Butrinto che il borgo di Vigevano, allora governato dai guelfi, nel 1310 fu loro sottratto con un colpo di mano e posto sotto l'obbedienza di re Enrico per interessamento di un medico che allora vi dimorava, come era stato segretamente promesso al re. Qualche decennio più tardi G. dichiara in una delle sue opere di essere stato medico dell'imperatore Enrico, affermazione che non vi è ragione di respingere benché non direttamente confermata da altra fonte.
Secondo una ricostruzione dei fatti, certo non inverisimile, nel giugno 1310, mentre Enrico soggiornava in Asti, G. si sarebbe recato a Vigevano dove rimase sino a dicembre con l'intento di esautorare, insieme con amici e parenti là residenti, il podestà che governava per conto dei milanesi Torriani; e ciò non solo per far prevalere disinteressatamente la parte imperiale, ma anche per rientrare in possesso dei suoi beni vigevanesi che gli erano stati confiscati dai guelfi. Il colpo fu mandato a segno senza spargimento di sangue nella notte fra 11 e 12 dicembre allorché il castello di Vigevano fu posto nelle mani dell'inviato del re. La riuscita dell'azione, presto risaputa a Milano, Vercelli, Pavia, Lodi e nelle altre città circonvicine, giovò grandemente alla causa di re Enrico e questi, per ricompensarne il protagonista, lo avrebbe nominato archiatra di corte; come tale G. avrebbe poi seguito l'imperatore nelle peregrinazioni attraverso l'Italia sino alla sua morte a Buonconvento il 24 ag. 1313.
In realtà né nella Relatio di Nicola di Butrinto né in alcun'altra fonte nota G. appare mai indicato come medico personale dell'imperatore: potrebbe essersi quindi trattato di una nomina semplicemente onorifica; d'altra parte l'impresa di Vigevano non sembrerebbe tale da meritare necessariamente grandi premi, e dal momento che Enrico VII soggiornò a Pavia dall'aprile all'ottobre 1311, G. potrebbe aver conosciuto l'imperatore in tale occasione divenendo, solo incidentalmente, suo medico curante.
L'autore della Relatio ci offre però un altro dato importante: egli dice che il medico autore del colpo di Vigevano divenne in seguito noto per aver guarito da una grave malattia ad Aiguebelle, in Borgogna, l'amico Ottone di Grandson. Lo stesso G., in un trattato redatto alcuni decenni dopo, accenna al tentativo fatto dal sultano d'Egitto di avvelenare Edoardo I d'Inghilterra (che G. scambia per errore con Luigi IX di Francia), alla presenza del suo signore Ottone di Grandson, che glielo raccontò. Ora noi sappiamo che Ottone (I) di Grandson fu in Terrasanta una prima volta nel 1272 e quindi nel 1291 al seguito appunto di Edoardo d'Inghilterra, passando poi al servizio di Enrico VII che lo gratificò il 13 sett. 1310 di un lauto premio in denaro. Dal momento che la Relatio fu scritta verso la fine del 1313, è certo verisimile che G. abbia conosciuto Ottone mentre, in precedenza, era con lui alla corte dell'imperatore, ma nemmeno per questa via è possibile raggiungere la certezza.
Vi è prova che almeno per un decennio G. visse, e probabilmente esercitò la sua professione, in Pavia, partecipando, come si è detto, anche attivamente alle vicende politiche della città. Nel 1318 G., qualificato di volta in volta magister, fisico, gabelliere e camerario, ricevette in appalto la riscossione del fodro che il podestà Luchino Visconti aveva imposto per il pagamento dei mercenari al soldo del Comune. L'8 sett. 1320 "magister Guido de Viglevano fixicus" riceve somme dal Comune; sempre come magister risulta compreso il 9 maggio 1323 fra i cittadini pavesi già aderenti a Matteo Visconti chiamati a comparire davanti agli inquisitori papali in Lombardia; non essendosi presentato fu definitivamente condannato in contumacia il 6 giugno dello stesso anno.
L'intera città, da tempo colpita da interdetto e da scomunica per la sua costante adesione alla parte viscontea, ne venne liberata il 30 ott. 1340 con l'esclusione però di 108 cittadini nominativamente condannati, tra i quali compare anche il nome di G. pur essendo egli ormai da tempo lontano da Pavia.
È possibile che già prima della condanna del 1323 avesse cercato rifugio all'estero, ma su di lui manca di fatto ogni notizia sino al 1335 quando egli si trovava a Parigi con il prestigioso incarico di medico di Giovanna di Borgogna regina di Francia: con tale qualifica si definisce infatti egli stesso nel Texaurus regis Francie scritto appunto in quell'anno. Nel Libernotabilium, composto dieci anni dopo, si dichiara anche medico del re di Francia Filippo VI, titolo che non trova tuttavia conferma in altri documenti. Come "phisicus domine regine" il suo nome compare invece nei conti della tesoreria regia l'11 ott. 1346 allorché viene retribuito per una missione compiuta a Reims.
Conservava nondimeno rapporti con la terra d'origine della sua famiglia poiché nel 1347 il nome di "dominus Guido de Veglevano" figura per due volte tra i coerenti di terre appartenenti alla chiesa di Borgolavezzaro e alla collegiata di S. Ambrogio di Vigevano che in quell'anno vengono consegnate alla diocesi di Novara.
Il nome di G. ricorre ancora nei conti della tesoreria del re di Francia per ragioni analoghe alle precedenti il 23 giugno e il 31 luglio 1349, ma è questa l'ultima menzione che si ha di lui: è possibile che, come migliaia di altre persone, egli sia rimasto vittima della pestilenza che infieriva da qualche anno in tutta l'Europa occidentale e che aveva allora raggiunto Parigi.
La fama di G. è legata soprattutto alle opere di medicina e di meccanica militare composte durante il suo soggiorno francese, entrambe dedicate a re Filippo VI (da lui indicato però come VII). Le opere mediche sono da tempo edite e ben studiate, in primo luogo il Liber notabilium illustrissimi principis Philippi septimi, Francorum regis, a libris Galieni per me Guidonem de Papia, medicum suprascripti regis atque consortis eius inclite Iohanne regine, extractus, anno Domini 1345°, papa vivente sexto Clemente. Il codice, oggi conservato nel Museo Condé di Chantilly (ms. 569), dopo 16 tavole illustrative contiene estratti di traduzioni latine delle opere di Galeno, un Regimen sanitatis e una Anathomia Philippi septimi con 18 figure che illustrano il metodo anatomico secondo l'insegnamento bolognese di Mondino dei Liuzzi.
Il Regimen sanitatis ivi contenuto riprende quasi alla lettera quanto G. aveva già inserito nella sua prima opera composta nel 1335 intitolata Texaurus regis Francie acquisicionis Terre sancte de ultra mare necnon sanitatis corporis eius et vite ipsius prolongacionis ac etiam cum custodia propter venenum, contenuta oggi nel manoscritto Fonds lat. 11015 della Bibliothèque nationale di Parigi. La composizione di questo trattato va inquadrata nel particolare momento in cui, dopo la caduta, nel 1291, di San Giovanni d'Acri, ultimo baluardo della presenza occidentale in Palestina, si ebbe in Europa una fioritura di progetti, incoraggiati dai papi, per la riconquista della Terrasanta. Il Texaurus, in specie, intendeva facilitare la spedizione progettata da Filippo VI, che nel 1333 fu designato da papa Giovanni XXII a comandare gli eserciti cristiani che vi avrebbero preso parte. I preparativi si trascinarono però negli anni senza sortire alcun effetto pratico.
Il trattato è composto da due parti: la prima, intitolata Liber conservacionis sanitatis senis, contiene consigli per preservare la salute di un uomo già avanti con gli anni (il re era allora sulla quarantina) e per evitare i pericoli di un avvelenamento: è questa la parte più originale in cui G. espone le sue ricerche per approntare un antidoto efficace sperimentandolo prima su animali e poi, con felice esito, anche su se stesso. La seconda reca l'intestazione Modus acquisicionis Terre sancte, Christi nomine invocato, regi Francie intitulatio, ed è suddivisa in 13 capitoli corredati da figure; essa si presenta come un trattato di ingegneria militare contenente la descrizione e la raffigurazione di macchine belliche con indicazioni per la loro costruzione perché esse siano facilmente smontabili e someggiabili. Sono compresi strumenti difensivi per proteggere uomini in campo aperto e macchine offensive per attaccare mura di fortezze assediate, mezzi per superare corsi d'acqua e carri che si vogliono semoventi.
Si tratta di macchinari per certi aspetti sicuramente ispirati alla tecnologia militare ellenistica che possono trovare una parziale corrispondenza concettuale nei Poliorketika di Apollodoro di Damasco, benché appaia assai difficile credere che il loro autore si sia basato in modo diretto su quei soli modelli. Lo stato attuale degli studi non permette di giungere a soluzioni precise, ma sembra comunque necessario tenere conto, se non altro come ipotesi di lavoro, di elementi che si ricavano dall'esame delle fonti scritte italiane di età comunale.
I Gesta Federici, un'anonima cronaca milanese del secolo XII, attestano che Guintelmo, ingegnere militare al servizio del Comune di Milano fra 1156 e 1162, costruì un centinaio di carri da guerra che sul davanti erano fatti quasi a modo di scudo e tutt'attorno erano circondati da ferri taglienti costituiti da falci fienaie, strumenti che nel 1160 avrebbero avuto effettivo impiego sul campo di battaglia. Un certo numero di cronache emiliane ci informa poi che nel 1229 a San Cesario sul Panaro i Bolognesi misero in campo due novità tecniche che colsero di sorpresa i loro avversari: prima uno sbarramento che impediva di essere raggiunti da chi stava dall'altra parte, e poi dodici carri sui quali erano state installate macchine da getto. Nei primi decenni del Trecento, infine, i carri costruiti a suo tempo da Guintelmo vengono nuovamente descritti con precisione e insistenza, in tre diverse occasioni, da Galvano Fiamma il quale dà l'impressione di basarsi su un ricordo visivo diretto: essi erano simili a navi triangolari fatte in modo che nella parte inferiore proteggevano i cavalli e di sopra nascondevano l'equipaggio.
Non si può fare a meno di osservare che nel XIV capitolo del suo Texaurus G. descrive, disegna e illustra l'uso di un elemento denominato panthera (cioè gabbia o transenna protettiva) costituito da un telaio di legno sul quale sono infissi molti ferri acuti e leggeri, lunghi due braccia e più, in modo che nessuno possa avvicinarsi. L'artificio si presta a diverse applicazioni, ma soprattutto a circondare carro e buoi in modo che questi siano sicuri insieme con i combattenti trasportati; su di esso si potranno poi installare macchine in grado di lanciare ovunque pietre e altri proiettili.
Tali dati sembrano dimostrare che almeno alcune delle tecniche descritte nel Texaurus erano in realtà già note e sporadicamente applicate nelle guerre comunali combattute nell'Italia del Nord molto tempo prima che G. componesse il suo trattato. Egli, inoltre, era, come si è visto, un medico eccellente, ma non risulta avesse mai avuto esperienze nel campo dell'ingegneria militare, né - è stato notato - appartiene alla categoria di quei medici astrologi di corte i quali furono indotti dalla loro attività a occuparsi anche di problemi militari. Non è quindi improprio ritenere che G., nella compilazione del Texaurus, abbia approfittato di materiali approntati da un vero ingegnere militare. Ora i Gesta Federici esaltano l'abilità di Guintelmo nell'allestimento di macchine d'assedio, di ponti e di carri da guerra, cioè proprio delle tre categorie di strumenti presenti nel Texaurus. Viene così spontaneo sospettare l'esistenza di un taccuino di lavoro - simile a quelli che si conoscono tanto per l'età precedente quanto per quella successiva - in cui Guintelmo avrebbe disegnato e arricchito di annotazioni i macchinari da lui sperimentati ispirandosi a modelli della tecnologia antica fra i quali vi poté essere, insieme con i Poliorketika di Apollodoro di Damasco, anche l'anonimo trattato De rebus bellicis dal quale, in specie, parrebbero suggeriti i carri difesi da lui realizzati. L'opera di Guintelmo non sarebbe finita con la sua morte poiché fra 1188 e 1196 è attestata in documenti milanesi (Barni) l'esistenza di un "magister Alamannus de Guitelmo" e in seguito di un "maestro" Alpino "Alamanni", elementi che fanno pensare a una vera e propria dinastia di ingegneri militari nella quale potrebbero essere state tramandate le tecniche messe a punto dal capostipite. Il taccuino di Guintelmo avrebbe pertanto costituito un prezioso documento che continuò a circolare (probabilmente arricchendosi di apporti nuovi) per un lungo periodo entro il ristretto ambiente dei tecnici militari al servizio dei Comuni lombardi. Di esso potrebbe aver avuto cognizione, ai suoi tempi, Galvano Fiamma attingendovi la sua descrizione dei carri realizzati da Guintelmo, e avrebbe fornito in seguito, in tutto o in parte, la materia per il Texaurus. Non è fuori luogo ricordare che, come si è visto, G. e Galvano per un certo tempo vissero e operarono contemporaneamente in Pavia.
L'ipotetico taccuino di mastro Guintelmo, rispecchiato poi nell'opera meccanica di G., segnerebbe così una tappa intermedia nella trasmissione di quel sapere tecnico che, per vie spesso nascoste, giunse dall'età antica fino al Rinascimento.
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