MONTEFELTRO, Guido di
MONTEFELTRO, Guido di. – Conte di Montefeltro, figlio di Montefeltrano (morto nel 1253), a sua volta figlio di Buonconte di Montefeltrano, nacque presumibilmente verso il 1220.
Sposatosi con Manentessa figlia di Guido conte di Giaggiolo, castello nella valle del Bidente, ebbe almeno quattro figli: Buonconte (morto nel 1289), Federico (morto nel 1322), che gli successe nel dominio di Urbino e del Montefeltro, Ugolino (morto nel 1321), preposito della Chiesa feretrana, e Corrado (morto nel 1318), vescovo di Urbino. In un primo tempo si occupò dei beni della moglie, situati non lontano da Forlì, disinteressandosi, a quanto pare, delle vicende connesse più direttamente con la sua famiglia di origine. Fu comandante dell’esercito forlivese al seguito dell’imperatore Federico II di Svevia dal 1240 (assedio di Faenza) al 1248 (assedio di Parma). La morte in tempi ravvicinati del padre e degli zii (1252- 53) lo riportò a occuparsi degli interessi della casa di Montefeltro. Si mantenne fedele all’Impero, prendendo in mano le redini di una parte della sua famiglia e continuando la faida che lo vide opposto soprattutto allo zio Taddeo di Pietrarubbia (cugino in primo grado di suo padre), morto a Forlì nel 1282 per mano delle sue milizie. Il nome di due dei suoi figli, Federico e Corrado, fu un omaggio agli ultimi dinasti della casa sveva.
Nel 1259, essendo podestà di Urbino, strinse un patto di alleanza tra Urbino e Città di Castello ponendosi al fianco di Manfredi di Svevia, appena incoronato re di Sicilia. La vittoria di Montaperti (4 ottobre 1260) diede respiro alla parte che si può definire «ghibellina» (benché in quegli anni il termine sia ancora riferibile alla sola Toscana) e permise a Guido di tenere saldamente la Marca, in qualità di podestà di Jesi e di vicario regio. Ma la discesa di Carlo d’Angiò (1265) lo obbligò ad abbandonare le sue posizioni e a ripiegare su Urbino, dove, nell’ottobre 1265, fu stipulata una pace. Mantenendo ancora il controllo di quelle che oggi sono le Marche settentrionali interne (Urbino, Cagli e il Montefeltro), intervenne come rappresentante dei ghibellini italiani alla dieta convocata da Ludovico II di Wittelsbach duca di Baviera per riorganizzare il partito imperiale dopo la battaglia di Benevento e la morte di Manfredi (6 giugno 1266). A quel periodo risale la sua prima affermazione come protagonista del ghibellinismo italiano, un ruolo che avrebbe rafforzato e ampliato nei tre decenni successivi.
Vicario di Roma per conto del senatore Enrico di Castiglia, Guido riunì a S. Maria in Campidoglio i plenipotenziari delle città imperiali toscane (18 novembre 1267), fu investito da Corradino di Svevia della contea di Chieti, organizzò la difesa di Poggibonsi contro Carlo I d’Angiò, re di Sicilia dal 1266, e partecipò ad altri episodi bellici. Scomunicato da Clemente IV (5 aprile 1268), teneva ancora Roma all’arrivo di Corradino (24 luglio). Tuttavia, dopo la sconfitta di Tagliacozzo (23 agosto), rifiutò di consegnare il Campidoglio al giovane erede della casa di Svevia, che di lì a poco sarebbe stato giustiziato a Napoli.
Guido – che il papa designò allora con l’epiteto di «inurbano vicario dell’Urbe» (Registres de Clément IV, 1894, n. 1423; Franceschini, 1982, n. 33) – si affrettò a riconsegnare Roma a Carlo I d’Angiò e si trincerò a Urbino, dove si trovò ad affrontare un contrasto con Malatesta Malatesta (Malatesta da Verucchio), uno tra i principali capi dei guelfi in Romagna, per l’eredità della contea di Giaggiolo che egli rivendicava per conto della moglie. La questione, con la quale si inaugurò lo scontro secolare tra i Montefeltro e i Malatesta, fu composta nel 1269 a tutto vantaggio di quest’ultima casa: segno, questo, della debolezza politica di Guido in quel periodo.
Durante l’estate del 1270 probabilmente si trovava insieme con il cugino Galasso di Montefeltro (figlio di Cavalcaconte e nipote di Buonconte, chiamato anche Galasso di Secchiano) al comando dei fuoriusciti senesi che combattevano nella Toscana meridionale. Il 20 giugno 1271 si battè nuovamente contro Malatesta da Verucchio, dal quale fu preso prigioniero a Monteluro. In seguito, secondo quanto scrive Salimbene de Adam (Cronica, ed. 1942), avrebbe attribuito la sua liberazione – che non sappiamo come né quando fosse avvenuta – all’intercessione di S. Francesco.
I ghibellini di Romagna si riaccesero di speranza quando, nel 1273, Rodolfo d’Asburgo fu incoronato re dei Romani. Bologna e Forlì si ribellarono al papa e Guido fu incaricato della difesa di questa seconda città, assumendone di fatto la signoria. Entrò a Faenza il 19 aprile 1274 e ne cacciò la parte guelfa. Di lì a poco, il 13 giugno, un potente contingente ghibellino al suo comando, comprendente i fuoriusciti di numerose città, nonché i conti Guidi di Casentino e di Modigliana, Maghinardo di Susinana e Guglielmino de’ Pazzi, si scontrò a San Procolo tra Faenza e Imola con l’esercito guelfo che, forte di milizie emiliane, romagnole, lombarde e toscane, era comandato da Malatesta da Verucchio. Guido mise in atto uno stratagemma che gli consentì di riportare una vittoria schiacciante sull’avversario, grazie alla quale fu definitivamente riconosciuto come il capo supremo dei ghibellini di Romagna: «I Ghibellini di Romagna colli usciti di Bologna feciono loro capitano di guerra Guido conte di Montefeltro, savio e sottile d’ingegno di guerra più che niuno che fosse al suo tempo» (Villani, Nuova cronica, ed. 1990-91, VIII, 44). Subito dopo si impadronì delle saline di Cervia e poi della città di Cesena, che era difesa, ancora una volta, dal suo avversario Malatesta da Verucchio. Avendo liberato gli ostaggi senza chiedere un riscatto, Guido si guadagnò la fama di magnanimo cavaliere, in una Romagna che era tornata quasi interamente di parte imperiale e che tale rimase per alcuni anni, con un ulteriore rafforzamento determinato dalla battaglia di Civitella di Romagna (14 novembre 1277).
L’avvento di Niccolò III (25 novembre 1277) portò il papato a riaffermare l’autorità della Chiesa in Romagna e a mediare con Rodolfo d’Asburgo, anche al fine di ridimensionare la potenza angioina nella penisola. Guido cercò di mantenere salde le posizioni imperiali, ma poiché lo stesso sovrano aveva riconosciuto nulli i giuramenti che le città di Romagna avevano prestato ai suoi vicari nel 1275, il fronte si sfaldò. La Romagna divenne una provincia pontificia; il 1° settembre 1278 Guido giurò fedeltà al papa e il 25 dello stesso mese fu assolto dalla scomunica. Seguirono, nel 1279 e nel 1280, alcune paci, alle quali partecipò mostrandosi fiducioso nell’azione conciliatrice del pontefice e rispettando i giuramenti prestati. Ma la morte di Niccolò III (22 agosto 1280) indebolì il conte di Romagna, che era suo nipote Bertoldo Orsini, facendo rimpiombare la regione nel disordine. I ghibellini di numerose città cacciarono gli esponenti della parte guelfa, mentre Guido, dopo essersi impadronito di Senigallia e di Jesi, tornò a Forlì. Il nuovo papa Martino IV riprese a sostenere con forza la casa d’Angiò e nominò conte di Romagna Jean d’Eppes, designandolo, insieme con Taddeo di Pietrarubbia, comandante dell’esercito che avrebbe dovuto muovere contro i ghibellini romagnoli e contro Guido, il quale fu nuovamente scomunicato il 26 marzo 1282. I ghibellini, nonostante avessero perso Faenza, rinsaldarono le loro posizioni e tentarono di raggiungere una nuova conciliazione, incontrando però un fermo rifiuto da parte della Curia, che richiedeva una resa incondizionata. L’esercito ghibellino si scontrò a Cesena con l’esercito pontificio, ma, nonostante la vittoria, Guido non riuscì ad allargare il conflitto fino a coinvolgere, come avrebbe voluto, gli imperatori designati Rodolfo d’Asburgo e Alfonso di Castiglia. Dopo un ennesimo tentativo di pacificazione, gli eserciti si incontrarono nuovamente a Forlì (1° maggio 1282): in quel «sanguinoso mucchio» (Dante, Inf., XXVII, vv. 43-44), che vide la disfatta dei pontifici, persero la vita moltissimi uomini d’arme francesi e anche lo zio di Guido, Taddeo.
Forte della vittoria ottenuta, Guido tentò di unire le proprie forze, concentrate nelle Marche, con quelle di Pietro III d’Aragona, che aveva appena conquistato la Sicilia, ma l’operazione non riuscì. Perse la città di Cervia e, nel corso del 1283, fu nuovamente colpito dalle censure pontificie. La perdita degli ultimi due capisaldi ghibellini, Forlì e Cesena, che fino a quel momento erano rimasti sotto la sua signoria, lo obbligò a ridursi a Urbino e nel Montefeltro, mentre la Romagna e le Marche centromeridionali tornavano all’obbedienza pontificia. Messo alle strette, tentò ancora di riconciliarsi con il papa, ma nel 1284 dovette sostenere il lungo assedio dell’esercito papale contro Urbino, mentre una notevole porzione del Montefeltro passava dalla parte guelfa insieme con la città e il capitolo cattedrale di San Leo. Urbino si arrese nel 1285; la città fu privata del contado e Guido fu confinato a Chioggia e poi in Piemonte, dopo aver lasciato due figli come ostaggi al nuovo papa Onorio IV.
Non appena la taglia ghibellina iniziò a ricompattarsi, soprattutto dopo la battaglia della Pieve al Toppo (26 giugno 1288) tra aretini e fiorentini, alla quale aveva partecipato anche suo figlio Buonconte, Guido, che era rimasto per tre anni in disparte, fu chiamato a Pisa come capitano del Popolo e podestà e vi rimase, insignito di tali cariche, dal 1289 al 1292 e poi ancora nel 1293. Tentò di mettere in atto una mossa a tenaglia, armando l’esercito pisano, cercando il sostegno del re d’Aragona e trovando valida alleanza negli aretini, il cui capitano del Popolo era Buonconte. La lega ghibellina si rinsaldava in Toscana e finanche in Romagna, dove i riminesi avevano cacciato Malatesta da Verucchio, ma l’efficace guerra di logorio contro i fiorentini e la parte guelfa ebbe termine con la memorabile sconfitta di Campaldino (11 giugno 1289), nella quale anche Buonconte perse la vita.
Tra i caduti, Dino Compagni (I, 43) ricorda anche un Loccio di Montefeltro, che potrebbe essere stato un altro figlio di Guido, o che invece è da identificarsi con un certo Loccio da Toscanella. Il cugino Galasso di Montefeltro rimase ad Arezzo come podestà fino al 1291.
Mentre Urbino veniva prima occupata da Corrado di Montefeltro-Pietrarubbia e subito dopo dal senatore di Roma Giovanni Colonna (settembre 1289), Guido si indirizzò alla volta di Pisa, dove, nel periodo 1290-1292, riordinò completamente la milizia comunale e provvide con efficacia alla difesa del territorio contro fiorentini, lucchesi e genovesi. Il 24 dicembre 1292 occupò vittoriosamente Pontedera, riuscendo di lì a poco a riconquistare tutto lo Stato pisano e a spingersi in profondità nel territorio fiorentino. L’anno successivo pisani e fiorentini, provati dalla guerra, stipularono la pace. Tra i patti che furono accettati dalle parti vi fu l’allontanamento di Guido da Pisa.
Dopo quattro anni di dominio pressoché incontrastato, lasciò la città toscana con il suo esercito, in direzione delle Marche. Ma, non potendo ancora rientrare a Urbino, alla fine di agosto del 1293, si impadronì di sorpresa della città di Cagli, della quale si proclamò signore insieme con i congiunti Galasso (di Secchiano) e Corrado (di Pietrarubbia). Poco dopo ebbe modo di ritornare signore di Urbino, nonostante il tentativo dei Malatesta di ostacolare questa manovra.
Ormai vecchio, si recò all’Aquila per assistere all’incoronazione del nuovo pontefice Celestino V (29 agosto 1294), mentre Galasso prendeva di fatto il suo posto come capo della casata. Seguì un periodo di trattative con il legato apostolico, durante il quale Guido appare in posizione sempre più defilata. Recatosi presso il papa con l’assenso del re di Sicilia Carlo II d’Angiò, nell’ottobre del 1294 fu assolto dalla scomunica e riebbe i suoi beni allodiali e i suoi domini, questi ultimi come vicario della Chiesa. Nel 1295 tentò inutilmente di pacificare la Romagna e di sostenere il rientro dei Parcitadi a Rimini, passata di nuovo e saldamente in mano malatestiana. Il 27 novembre di quell’anno ebbe confermata l’assoluzione da parte del papa Bonifacio VIII, a condizione che, insieme con i cugini Galasso e Corrado e con il figlio Federico, restituisse alla Chiesa i luoghi indebitamente occupati. Il 26 gennaio 1296 incontrò il pontefice e dopo alcuni mesi di trattative, nel novembre di quello stesso anno, con l’assenso di Bonifacio VIII (che lo aveva invitato a entrare in un ordine monastico militare) e della seconda moglie Costanza, fu accolto nell’Ordine dei frati minori e abbandonò definitivamente la vita mondana. Trascorse gli ultimi due anni di vita nel convento francescano di Ancona, dal quale si allontanò per un pellegrinaggio ad Assisi e a Roma.
Morì ad Ancona (e non ad Assisi, come riportano alcuni storici) il 29 settembre 1298. La tradizione secondo la quale la sua tomba si troverebbe a S. Bernardino di Urbino (per esempio Ugolini, 1859, I, p. 90) deriva da un’erronea interpretazione della lapide sepolcrale di Guidantonio di Montefeltro, che morì nel 1443.
Guido dominò la scena dell’Italia centrale dagli anni Settanta agli anni Novanta del Duecento. Tuttavia, osservato nel complesso, il suo concitato agire politico in qualità di comandante militare, governante e mediatore non gli permise di realizzare il suo vasto disegno politico. Si batté con caparbietà al fianco dell’Impero, ma si mosse in un clima generale di crisi dell’idea imperiale che spesso ridusse il confronto in lotta di fazione. Il tentativo di insignorirsi di Pisa ebbe breve durata. Soprattutto l’obiettivo, a lungo perseguito, di costruire una vasta signoria comprendente le Marche settentrionali e la Romagna, si infranse contro l’assoluta contrarietà della Chiesa e degli Angiò e contro le resistenze locali. La forte sovrapposizione di interessi con i Malatesta – anch’essi in rapida espansione – lungo tutta l’area di frizione e confine corrispondente al Montefeltro, alle Marche settentrionali e alla bassa Romagna, fu la causa principale dell’esaurirsi della spinta dei Montefeltro verso settentrione. Alla morte di Guido appariva ben consolidato il controllo signorile dell’area urbinate e di gran parte del Montefeltro. Il successore nel dominio, suo figlio Federico, avrebbe rivolto gli interessi strategici piuttosto verso l’Umbria e la Marca, ma sarebbero occorsi ancora diversi decenni prima che il suo discendente Antonio, insignorendosi di Gubbio (1384), ampliasse il dominio dinastico aprendo la strada alla costruzione di un vero Stato regionale, preludio al Ducato di Urbino. Invece, il tentativo di affermazione di questo lignaggio in Romagna, portato avanti per un secolo, era ormai consumato e si sarebbe spento alla morte di Galasso (1300), capitano e podestà di Cesena, che aveva condiviso con Guido il governo della casata: eletto nel 1296 insieme con Maghinardo di Susinana capitano generale della lega ghibellina dei comuni romagnoli, seppur meno conosciuto del congiunto, ebbe fama di governante illuminato e moderato e venne celebrato da Dante nel Convivio (IV, xi, 14) come modello di signore liberale e disinteressato alle ricchezze.
Cavaliere di gran tempra, lodato già dai suoi contemporanei, ricordato in numerose cronache e in due sirventesi romagnoli degli anni Settanta- Ottanta del Duecento, Guido deve la sua grandissima fortuna come personaggio storico e letterario a Dante, che lo nomina nel Convivio, IV, xxviii, 8, chiamandolo «lo nobilissimo nostro latino Guido Montefeltrano» e portandolo, insieme con il cavaliere Lancillotto, come exemplum illustre di persona che in vecchiaia aveva calato «le vele de le mondane operazioni» per entrare in religione. Certamente, la contrapposizione tra una lunga vita spesa nel mondo e la quiete spirituale degli ultimi anni colpì i contemporanei, tra i quali i suoi confratelli nell’Ordine francescano Salimbene de Adam e frate Elemosina. Soprattutto, Dante eleva Guido a protagonista dell’intero canto XXVII dell’Inferno. Collocato tra i consiglieri fraudolenti nell’ottavo cerchio dell’ottava bolgia, Guido prende a parlare subito dopo Ulisse – del quale condivide la pena essendo il suo corpo tramutato in fiamma – e chiede notizie della sua Romagna, consentendo al poeta di tracciare una mappa della situazione politica di quel momento, nella quale sono impliciti i riferimenti a episodi in cui Guido aveva giocato un ruolo da protagonista, come il ricordo della battaglia di Forlì del 1° maggio 1282 (vv. 43-44). Il dannato, che rifugge dal dire il proprio nome ricorrendo a una locuzione geografica («io fui de’ monti là intra Orbino / e ‘l giogo di che Tever si disserra», vv. 29-30), si fa riconoscere soltanto perché è certo che chi lo interroga non potrà tornare nel mondo dei vivi, ricordando di essere stato prima uomo d’arme e poi «cordigliero », cioè frate (v. 67). Egli dà un crudo giudizio di se stesso, affermando che le sue azioni «non furon leonine, ma di volpe» (v. 75). In tal modo, Dante riprende un giudizio ampiamente attestato nella cronachistica coeva e successiva (che sottolinea la scaltrezza del conte nella costruzione delle strategie belliche), ma contemporaneamente esclude la seconda ragione della sua fama, ovvero il coraggio militare. La ragione della condanna all’inferno (che pare anch’essa mostrare un mutamento di valutazione rispetto a quanto Dante aveva scritto nel Convivio, del quale peraltro si ritrova un riferimento implicito nel v. 81) sta nel fatto che Guido aveva dato un consiglio fraudolento a Bonifacio VIII, il quale gli aveva chiesto come poter distruggere la città di Palestrina, caposaldo dei suoi nemici Colonna, pretendendo altresì di assolverlo preventivamente dal peccato che questi avrebbe commesso nel fornire tale consiglio: «Lunga promessa con l’attender corto / ti farà triunfar ne l’alto seggio» (vv. 110- 111). Il racconto di Guido, che permette a Dante di lanciare una celebre invettiva contro il papa, vero obiettivo polemico del canto, si conclude con il contrasto fra il «loico» cherubino nero e S. Francesco (vv. 112-129), i quali si contendono l’anima del peccatore, in analogia con quanto accade a Buonconte, ma con esito contrario (Purgatorio, V, vv. 103-108). Il tema del consiglio fraudolento non è un’invenzione dantesca, poiché si ritrova anche in altre fonti indipendenti, mentre naturalmente «l’attendibilità storica del fatto costituisce una questione diversa» (Enc. dantesca, III, p. 1020). A questo proposito, il dibattito degli storici è stato nel tempo molto acceso, ma non risolutivo. Guido aveva intessuto rapporti con Bonifacio VIII anche prima della sua elezione al pontificato: un suo figlio, dal nome ignoto, è ricordato come «domicellus» del cardinale Benedetto Caetani in una deposizione del 1310 (Boniface VIII en procès. Articles d’accusations et dépositions des témoins (1303-1311), a cura di J. Coste, Roma 1995, p. 519).
Nonostante la dura condanna di Dante, che forse colloca Guido all’inferno soprattutto per rimproverargli il riallineamento con l’odiato papa Bonifacio, il personaggio continuò a essere lodato proprio per le sue doti di magnanimità, spirito cavalleresco e perizia militare, in un intreccio inscindibile tra la vita vissuta e la costruzione letteraria che di fatto lo rese immortale. Ventura (morto nel 1325 circa) lo disse «sapientissimus virorum, fortis et largus et callidissimus in bellando»; Giovanni Villani lo definì «gran savio e maestro di guerra e duce nelle battaglie»; Benvenuto da Imola lo considerò superiore ai re Latino, Turno e Messenzio cantati da Virgilio; la costruzione mitopoietica della casata di Montefeltro si delineò soprattutto intorno a questo personaggio, al di lui figlio Buonconte e al duca Federico. Presente come personalità eroica in tutte le storie dei duchi d’Urbino (in cui si trova a volte nominato come «Guido il Vecchio»), fu uomo di guerra e di fede: personaggio estremo che, in una visione tipicamente romantica e patriottica, divenne rappresentativo dell’intero Medioevo, venendo definito da Filippo Ugolini «il primo guerriero italiano del suo secolo» (1859, I, p. 62): un’interpretazione, questa, ancora presente nell’opera di Gino Franceschini, che nel 1970 lo accostava «ai grandi paladini di Francia, al paladino Orlando e al re Artù» (p. 158).
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Tommaso Di Carpegna Falconieri