DORSO, Guido
Nacque ad Avellino il 30 maggio 1892 da Francesco, direttore delle poste della città, e da Elisa Gallo, maestra elementare.
Alla sua terra natale ("ove - come avrebbe scritto nel 1918 commemorando l'editore Edoardo Pergola su Don Basilio - le strade diradano per lasciar posto al sentiero. Lontani e di riflesso i flussi e i riflussi economici, lontanissimi gli echi della vita spirituale, antologia la gazzetta e letterati i gazzettieri ... All'infuori di ciò lo stillicidio quotidiano del pettegolezzo e dell'invidia") sarebbe restato legato per tutta la vita, ritagliandosi uno spazio come studioso militante profondamente radicato nella realtà meridionale ed al contempo razionalmente aperto a vari influssi politici e culturali.
Studioso fin da giovanissimo di filosofia politica, manifestò presto un orientamento radicale, democratico e anticattolico, non alieno da suggestioni massoniche e da un affiato idealistico e volontaristico, chiaramente riscontrabile nel suo articolo del 1909 sul filosofo spiritualista e antipositivista Rudolf Eucken. Ancor più esplicativa al fine di comprendere l'orientamento del giovane D., una sua conferenza su Giordano Bruno del febbraio 1911, tenuta per iniziativa dell'Associazione giovanile anticlericale, dove, nel tratteggiare la figura del pensatore nolano "scomunicato dal papa ma benedetto da Dio", sono rinvenibili, tra l'altro, gli echi della ricostruzione spaventiana della "circolazione" del pensiero italiano. Sempre nel 1911 e per la stessa associazione tenne una conferenza su Giuseppe Mazzini, interessante nell'indicare un approdo militante alla sua formazione filosofica, approdo che con gli studi universitari di teoria politica (si iscrisse nel 1911 alla facoltà di giurisprudenza di Napoli) avrebbe approfondito, anche a contatto con la personalità di Arturo Labriola del quale per un certo periodo fu affezionato discepolo.
Già delineato, se non ancora definito, il taglio meridionalistico e radicaldemocratico del suo intervento, la prima azione politicamente rilevante del D. furono gli otto articoli che inviò al Popolo d'Italia, diretto da Benito Mussolini, comparsi tra il gennaio ed il maggio 1915. In questi - al di là del marcato, e pur contingente, interventismo - è il meridionalismo che fa da filo conduttore delle posizioni del Dorso. All'interesse delle democrazie europee a sconfiggere gli Imperi centrali si aggiungeva, secondo il D., l'impellenza di una rigenerazione nazionale che liberasse l'Italia dal giolittismo. Per il Mezzogiorno, la sconfitta dell'Austria-Ungheria avrebbe significato inoltre la conquista di nuovi mercati nei Balcani che avrebbero vivificato il Mezzogiorno d'Europa e quello italiano insieme.
Analoghe motivazioni facevano parte di un diffuso senso comune proprio di una vasta area democratica e intellettuale meridionale. Se negli articoli possono rinvenirsi ascendenze labriolane e salveminiane (evidenti queste ultime nella polemica contro il riformismo meridionale, la "Meridional Sozial-Demokratie"), l'insieme delle argomentazioni va inteso quale espressione di quella vasta disgregazione politico-sociale intervenuta con le crisi concomitanti del giolittismo e del riformismo socialista e con i nuovi conati di partecipazione, preludio della società di massa. D'altronde, tutta la formazione filosofica e culturale del D., compreso il suo incipiente meridionalismo, militava in favore dell'adesione al movimento interventista che fin dal suo sorgere cancellò al proprio interno le tradizionali categorie di Destra e Sinistra, salvo poi ricostituirle nel dopoguerra, al momento del tracollo del sistema liberale. Se la sostanziale ingenuità di proporre l'entrata in guerra come toccasana dei mali della nazìone è ascrivibìle all'intero movimento interventista, va altresì notato che in questi anni al D. fa ancora difetto quel solido impianto storicistico che egli avrebbe sviluppato proprio con l'approfondita meditazione degli eventi bellici, e che lo avrebbe portato alla piena maturità intellettuale.
Al termine degli studi accademici, nei quali gli furono particolarmente presenti le elaborazioni di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, si laureò nel maggio 1915 con una tesi su La politica ecclesiastica di Pasquale Stanislao Mancini. Dopo la guerra, che lo vide mobilitato come ufficiale e precocemente congedato per un vizio cardiaco, nell'agosto 1919 il D. intraprese, insieme con Augusto Guerriero, la pubblicazione del settimanale Irpinia democratica, del quale uscirono solo quattro numeri, dopo di che il D. fu colto da una prostrante depressione che ne ostacolò l'attività. Ripresosi e ormai profondamente maturato nella elaborazione politico-teorica, iniziò a dirigere Il Corriere dell'Irpinia, settimanale avellinese edito da Armando e Riccardo Pergola, nel gennaio 1923.
Per oltre due anni IlCorriere dell'Irpinia, giornale d'informazione e di commento politico a diffusicrne provinciale, si impegnò "non nelle adusate combinazioni del trasformismo politico, ma in un'opera di alta educazione collettiva" (editoriale del 3 genn. 1924). Il D. era convinto della "profonda rivoluzionarietà del periodo" e rivolse l'attenzione del giornale "alla calma comprensione dei fenomeni sociali, senza inutili isterismi o miracolismi verbali" (ibid.), nel tentativo di discernere, tra i molteplìci mutamenti politici e sociali del dopoguerra, le linee di tendenza della trasformazione complessiva ed epocale della società italiana e in particolare del Meridione.
I primi numeri del giornale irpino attrassero l'attenzione di Piero Gobetti che a Torino, con La Rivoluzione liberale e la propria casa editrice, si muoveva, con un respiro nazionale ed anzi europeo, su un'analoga direttiva (del resto, era già pronunciato nel D. un orientamento liberaldemocratico per più versi analogo a quello del Gobetti). Con una missiva del 4 giugno 1923 questi scriveva al D. di seguire "con molto interesse e consenso" Il Corriere dell'Irpinia e lo invitava a collaborare alla propria rivista, offrendogli di fatto l'opportuffità di una tribuna nazionale. Nasceva così un sodalizio che si sarebbe protratto fino al novembre 1925, allorché le leggi liberticide avrebbero imposto la chiusura della rivista torinese, periodo che avrebbe consentito al D. di affermarsi come il maggior polemista e innovatore del meridionalismo.
La collaborazione a Rivoluzione liberale (diciotto articoli), liberando il D. dall'ottica localistica, lo spinse ad allargare l'impianto della sua ricerca approfondendo le radici storiche della questione meridionale, senza peraltro attenuare la carica militante (pubblicò, tra l'altro, un famoso e discusso Appello ai meridionali, 2 dic. 1924) e, anzi, permettendogli di commentare vivacemente eventi politici e culturali quali il consolidarsi del fascismo (definito dal D. "aspetto reattivo della rivoluzione in atto": 13 maggio 1924), il meridionalismo di Luigi Sturzo e dei popolari, alcune posizioni di Giovanni Gentile e di Mario Missiroli. Fu dalla direzione del Corriere dell'Irpinia e dalla collaborazione a Rivoluzione liberale che emerse l'esigenza di un saggio nel quale convergessero, in un lavoro di più ampio respiro, le meditazioni e gli studi degli ultimi anni sul Meridione dall'unificazione alla crisi dell'età liberale. Uscì così nell'estate 1925, per i tipi della Piero Gobetti editore di Torino, il volume La Rivoluzione meridionale. Saggio storico-politico sulla lotta politica in Italia.
Visibile la lezione di Giustino Fortunato, che per vari anni e pur senza condividerne l'interpretazione "politica" dell'inferiorità meridionale, intrattenne col D. un amìchevole carteggio, il libro si riallacciava alla crìtica del Risorgimento quale era emersa dagli scritti di Giuseppe Ferrari e di Carlo Cattaneo fino a quelli di Gaetano Salvemini, Alfredo Oriani, Missiroli e Gobetti, dei qualì sottolineava la convergenza nell'ìndividuare quale essenziale limite del processo unitario il carattere di "conquista regia" impressogli dallo Stato sabaudo: l'assenza di un consistente tessuto democratico nella società italiana (cui faceva riscontro il massiccio ricorso della classe dirigente liberale al trasformismo e al protezionismo) aveva esaltato la borghesia agraria e impedito la nascita di una moderna imprenditoria meridionale (accentuando il "naturale" svantaggio del Mezzogiorno) e aveva, infine, portato al compromesso giolittiano con il riformismo socialista, compromesso che la guerra aveva travolto aprendo la violenta crisi del regime liberale con l'esplosione dei partìti di massa. Da questo crogiolo, segnato anche dall'"ondata bolscevica" e dal radicamento civile ed elettorale del popolarismo, il fascismo era emerso come movimento del malcontento combattentistico e piccolo borghese sul quale si era innestata la reazione della borghesia agraria e industriale, soluzione provvisoria, dunque, che nascondeva senza risolvere la crisi storica della società italiana e che costringeva il fascismo, nella sostanza, a riallinearsi alla tradizionale politica trasformistica della mai tramontata vecchia classe dirigente borghese.
Nello spiegare la crisi del regime liberale e l'oriffine del fascismo come crisi dello Stato accentratore e ultimo legato del non risolto problema meridionale, il D. si soffermava sugli agenti di questa crisi, i partiti politici. Mentre ascriveva a demoliberali e socialisti il non aver colto la novità della fine del gìolittismo e il voler quindi ripristinare il vecchio gioco trasformistico (coerentemente, da questo punto di vista Giovanni Amendola gli appariva più reazionario dello stesso Mussolini) vedeva nel popolarismo una politica "bifronte", progressiva nell'averimpedito il tentativo restaurativo giolittiano, reazionaria nell'essere uno degli strumenti del Vaticano per riconquistare una posizione di forza. Rispetto ai comunisti, il D. individuava acutamente nell'elaborazione di Antonio Granisci e nella politica contadina e meridionale del partito un elemento di estrema novità. Ma le speranze del D. - che esprimeva particolare apprezzamento per l'autonomismo repubblicano di Oliviero Zuccarini e per il gruppo gobettiano - erano riposte nella nascita di un partito meridionale d'azione, forza necessaria e decisiva della rivoluzione democratica nazionale: "la rivoluzione italiana sarà meridionale o non sarà".
Il libro - sin'allora la più lucida e geniale interpretazione della genesi del fascismo - cadde in un momento estremamente propizio al dibattito su Risorgimento e Mezzogiorno e sul futuro e la ragion d'essere delle forze politiche democratiche. Venne infatti recensito da vari dirigenti antifascisti alla ricerca di strategie capaci di invertire non superficialmente la trionfanteondata reazionaria. Benevole le recensioni di Luigi Sturzo (in Boll. bibliogr. di scienze sociali e politiche, III [1926], 1) e di O. Zuccarini (La Critica politica, IV [1926], 4); Antonio Granisci - che per il legame con Gobetti e la precedente elaborazione meridionalistica può essere considerato un indiretto ispiratore del volume - ebbe modo di sottolineare in un celebre saggio steso nel 1926 (ma edito nel '30) come le posizioni del D. segnalassero l'incipiente distacco degli intellettuali dal "blocco agrario meridionale", tappa necessaria della strategia di alleanza tra operai del Nord e contadini del Sud; lo stesso sarebbe tornato estesamente nei Quaderni del carcere sui limiti democratici del Risorgimento (A. Granisci, La costruzione del partito comunista 1923-1926, Torino 1970, pp. 137-58; Id., Quaderni del carcere, ibid. 1945, ad Indicem). Una favorevole recensione di Ulenspiegel (Tommaso Fiore) su Quarto Stato (18 sett. 1926) era invece accompagnata da una nota polemica a firma Noi (Carlo Rosselli) che, pur invitando il D. a collaborare, rivendicava alla tradizione socialista la più coerente diagnosi della questione meridionale; mentre da destra il volume fu attaccato da Giovanni Ansaldo (IlLavoro, 1° ott. 1925) che rimproverava al D. (e ai comunisti) la fiducia nelle masse contadine, tra le quali aleggiava ancora, secondo il giornalista genovese, uno spirito antiunitario e filoborbonico.
Il D. trascorse il periodo della dittatura dedicandosi alla professione di avvocato civilista ed alla famiglia, talora alle prese con problemi di salute di origine nervosa o cardiaca, coltivando per hobby la radiotecnica e la musica, sempre attento però - lo mostra la composizione della sua biblioteca - all'evolversi della situazione economica e politica e intento agli studi politologici (Per conoscere G. D., pp. 265-317). Sulla scia delle felici intuizioni già contenute nella Rivoluzione meridionale, mise mano dall'inverno 1938-39 ad un'ampia biografia di Mussolini (implicita scommessa sulla fine prossima del regime) per la quale preparò un vasto materiale ma di cui approntò solo i primi capitoli tra il 1941 e il '42, che videro la luce postumi (Mussolini alla conquista del potere; la narrazione arriva fino alla marcia su Roma), opera rilevante sia perché costituisce la prima biografia critica dei capo del fascismo, sia perché delinea un'interpretazione del. regime quale "rivelazione" delle "debolezze costituzionali italiane" (p.231). Monotonamente in quegli anni le note prefettizie segnalano non esservi sul suo conto rilievi di natura politica né, peraltro, segni di ravvedimento dall'originario antifascismo.
Con il crollo del fascismo nel Mezzogiorno, il D. riannodò i fili interrotti dell'intervento militante. Iscrittosi al Partito d'azione - comprensibile approdo della sua formazione e della battaglia politico-culturale iniziata negli anni Venti - riprese il discorso sulla necessità della formazione di una classe dirigente meridionale capace di sostituire nella gestione della cosa pubblica lo Stato burocratico-accentratore provvisoriamente in crisi. Presente nella sua elaborazione il modello liberale e democratico anglosassone, per cui di contro alle organizzazioni popolari e dei lavoratori occorreva costruire un partito borghese che accettasse il gioco della competizione e della dialettica democratiche, l'ultima battaglia del D., pur nella varietà degli accenti e dei messaggi, ebbe un obiettivo di tale ampiezza da costituire un vero e proprio progetto politico. Si trattava da un lato d'impedire la ricomposizione del "neo-giolittismo", cioè di una classe dirigente clientelare e trasformista, quale era stata quella liberale e fascista, in grado di paralizzare la libera circolazione delle élites e perpetuare quelle forme di dominio sociale e politico caratteristiche della non compiuta rivoluzione democratica, dall'altro di favorire la formazione di una classe dirigente - politica e imprenditoriale - meridionale (perché il Mezzogiorno era tradizionalmente il luogo dove lo scambio democratico era stato reso impossibile) in grado di porsi come punto di riferimento del rinnovamento politico nazionale (cfr. la Relazione sulla questione meridionale pronunciata al congresso azionista dell'Italia liberata tenuto a Cosenza nell'agosto 1944; ora in I congressi del Partito d'azione 1944/1946/1947, a cura di G. Tartaglia, Roma 1984, pp. 71-84).
Il disegno - nel quale convergevano il liberalismo gobettiano e la tradizione illuministica e democratico-borghese - avrebbe comportato la rottura della classe dirigente meridionale e l'attestarsi di una sua fetta maggioritaria, o almeno consistente, in un fronte democratico e popolare, tatticamente vicino ai partiti di Sinistra e alle masse contadine, ma senza perdere, allo stesso tempo, il connotato di classe dirigente; fu dunque essenzialmente e in primo luogo agli intellettuali, e pertanto ai ceti urbani (la "borghesia umanistica", non terriera), che esso venne proposto.
Certo che l'"occasione storica" per il rinnovamento dell'Italia passava per condizioni contingenti nelle quali il tempo giocava in favore delle forze conservatrici (cfr. Ruit hora, in Irpinia libera, settimanale azionista, 13 nov. 1943), il D. si gettò con decisione nell'agone politico-giornalistico. Intellettuale abbastanza noto nelle cui posizioni si riconoscevano minoranze colte degli ambienti radicali meridionali - ma ebbe un'area d'ascolto, nei primi tempi dopo la Liberazione, nell'intero fronte dei partiti del Comitato di liberazione nazionale - partecipò a iniziative politiche e culturali: fu relatore al convegno di studi sui problemi del Mezzogiorno (Bari, dicembre 1944; Atti del Convegno …, Bari 1946; poi in Dittatura classe politica ..., pp. 9-40) con un saggio sulla classe dirigente meridionale (interessante in questo contesto una amichevole polemica col comunista Mario Assennato che, pur condividendone l'analisi storico-politica della società meridionale, lo aveva accusato di astrattezza politica [ibid., pp. 41-49]); ripubblicò con una nuova introduzione e i giudizi in appendice di Granisci e Sturzo La rivoluzione meridionale (Torino 1945); collaborò intensamente a varie testate, prime fra tutte le azioniste Irpinia libera e L'Azione, ma anche IlNuovo Risorgimento, La Voce, La Rinascita, La Gazzetta del Mezzogiorno, ecc.
Particolare strumento della sua battaglia fu il quotidiano napoletano L'Azione, già settimanale e bisettimanale, che diresse - trasferitosi a Napoli - dal luglio al dicembre 1945; dalle sue colonne il D. - con l'inconfondibile gagliardia della sua verve giornalistica (molti degli articoli di questo periodo sono raccolti in L'occasione storica) - alimentò la polemica meridionalistica e democratica, tentando di aggregare forze attorno al suo progetto. Insieme con la sempre presente rivendicazione dell'autonomismo regionale, irrinunciabile presupposto democratico, vanno ricordate le polemiche contro il separatismo siciliano di Andrea Finocchiaro Aprile ("deficiente politico e deficientissimo demagogo": 25 ag. 1945), contro il riemergere del vecchio notabilato politico e di personaggi quali Enrico De Nicola (Il ritorno di Celestino V: 28 sett. 1945) e Francesco Saverio Nitti (5 ott. 1945), contro la politica del governo militare alleato, "ostruzionistica e. sabotatrice dell'intero schieramento antifascista" (7 ott. 1945), contro la borghesia agraria pugliese, che adoperava i mazzieri di Caradonna e i carabinieri per la difesa dei propri privilegi ("un relitto storico che bisogna distruggere nell'interesse del paese": 5 luglio), contro la politica della Democrazia cristiana, tesa a costituire un blocco moderato, nella quale il D. intravedeva profilarsi un sostanziale mutamento strategico rispetto alla politica sturziana: "riel Mezzogiorno il Partito democristiano minaccia di riassumere le strutture dell'altro dopoguerra, cioè sta diventando un aggregato di formazioni elettoralistiche senza vita e senza contenuto politico, che costituiscono un peso piuttosto che una forza" (12 luglio; cfr. pure Fatti chiari?, 18 luglio). Altrettanto pregnanti gli articoli sull'accentramento statale nel Sud (6 e 22 luglio) e sulle sue concrete articolazioni, La Magistratura (25 luglio), Il prefetto (14 e 17 ag. 1945), Il maresciallo dei RR. CC. (13 nov. 1945).
Nel periodo in cui diresse L'Azione fu membro dell'esecutivo del Partito d'azione, partito dal quale si dimise nel dicembre 1945 allorché problemi economici imposero la chiusura della testata (ma i rapporti col partito, cui il D. rimproverava l'abbandono della tematica meridionalistica, erano già tesi: cfr. Responsabilità storica, in L'Azione, 1° dic. 1945). Il D. subì questa decisione come una sconfitta durissima: "il meridionalismo rivoluzionario, da me teorizzato - scrisse nella lettera con cui annunciava le dimissioni dal partito - è morto in fasce, dopo aver emesso pochi e indistinti vagiti". Per le elezioni del 2 giugno 1946, rifiutata una candidatura come indipendente nella lista comunista offertagli da Togliatti, capeggiò nelle circoscrizioni di Bari-Foggia e di Potenza-Matera una lista di Alleanza repubblicana (presentata dal D. come "una concentrazione di raggruppamenti politici repubblicani di centro, che aspirano a sfociare tempestivamente nella costruzione del partito meridionale e meridionalista"), lista che includeva molti degli uomini del Partito d'azione e, soprattutto, il gruppo dei meridionalisti campano-pugliesi (Manlio Rossi Doria, Michele Cifarelli, Vincenzo Calace, ecc.), ma che non ottenne il quorum necessario per consentirgli l'ingresso alla Camera.
La sconfitta politica del progetto dorsiano non fece che anticipare la crisi irrimediabile che ormai travagliava lo stesso Partito d'azione. Inoltre, il gruppo sociale sul quale egli contava, la borghesia intellettuale, con la crisi del blocco agrario meridionale, veniva a perdere spessore e incisività, disperdendosi anch'essa nei partiti di massa o nella burocrazia statale.
Tra gli scritti degli ultimi anni ricordiamo gli studi politici e sociologici su Mazzini e la politica dell'irrealtà (in L'Acropoli, I [1945], pp. 267 ss.), La dittatura borghese da Napoleone a Hitler e Classe politica e classe dirigente, pubblicati postumi (Dittatura classe politica ..., pp. 51-120, 121-184), rilevante quest'ultimo nel rileggere le tematiche di G. Mosca sulla formazione delle élites alla luce dei più recenti sviluppi storico-politici.
Peggiorate le condizioni di salute, il D. morì per scompenso cardiaco ad Avellino il 5 genn. 1947.
Un'ampia raccolta degli scritti è stata curata per i tipi einaudiani da Carlo Muscetta in quattro volumi (Torino 1949-50): Mussolini alla conquista del potere; Dittatura classe politica e classe dirigente. Saggi editi e inediti (ried.: Roma-Bari 1986); La rivoluzione meridionale; L'occasione storica (ried.: Roma-Bari 1986). La critica storica, politica, storiografica e politologica è tornata ripetutamente a discutere dell'opera del D. evidenziando a più riprese nell'interpretazione della storia d'Italia e della questione meridionale un lascito la cui estensione non è stata ancora completamente sondata.
Fonti e Bibl.: Non particolarmente significative le carte conservate presso l'Archivio centrale dello Stato (Casellario politico centrale, b. 1855); è decisivo il volume Per conoscere G. D. I suoi libri e il suo carteggio, a cura di F. S. Festa-F. Bruno-B. Ucci, Napoli 1984, edito dal Centro di ricerca "G. Dorso" di Avellino, contenente una bibliografia ragionata degli scritti, la descrizione del suo carteggio (ordinato e conservato a cura dello stesso Centro) e un'esaustiva bibliografia alla quale rimandiamo, limitandoci qui a segnalare alcuni dei titoli più significativi: T. Fiore, G. D., Manduria 1947; C. Muscetta, G. D., in Belfagor, II (1947), pp. 575-587; M. L. Salvadori, Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Torino 1960, pp. 367-387; I. Freda, L'interventismo meridionalistico di G. D. (in appendice cinque lettere di Mussolini a D.), in Riv. stor. del socialismo, VIII (1965), 24, pp. 121-142; R. De Felice, Mussolini il fascista, II, L'organizzazione dello Stato fascista 1925-1929, Torino 1968, pp. 5-10; U. La Malfa, G. D. e la classe dirigente meridionale, Roma 1968; N. Bobbio, Saggi sulla scienza politica in Italia, Bari 1972, pp. 219-239; M. Caronna, G. D. e il partito meridionale rivoluzionario, Milano 1972; E. Ripepe, Gli elitisti italiani, II, Pisa 1974, pp. 735-841; V. Napolillo, G. D. e la rivoluzione meridionale, Napoli 1975; L. Musella, G. D. negli anni 1915-1926, in Archivio stor. ital., XXXVIII (1980), pp. 265-88; R. Cavarra-L. Battistoni, G. D. tra idealismo e storia. D. e la questione meridionale, Roma 1981; F. S. Festa, Il giovane D. e la filosofia (1909-1914), in Avellino e l'Irpinia tra '800 e '900, Avellino 1985, pp. 193-207; S. Fedele, G. D. Biografla politica, Roma-Reggio Calabria 1986; G. D. e i problemi della società meridionale, Avellino 1989 (atti del convegno dell'ottobre 1987, editi come Annali 1987-88 del Centro di ricerca G. Dorso); F. M. Biscione, G. D. interprete della crisi liberale, in Italia contemporanea, 1990, n. 179, pp. 317-323.