GUIDI, Guido (Guido Guerra IV, detto il Vecchio)
Ottavo di questo nome, figlio del conte Guido (VII, detto anche Guido Guerra III) e di Gualdrada di Bellincione di Uberto dei Ravignani, nacque intorno al 1180.
Nei primi decenni del secolo XIII i conti Guidi si trovarono a confrontarsi con una situazione insolita per una dinastia che ormai da tre secoli si era collocata tra i gruppi eminenti del Regnum. Infatti, almeno per quanto le fonti ci permettono di sapere, solo allora, con il secondo matrimonio di Guido (VII) con Gualdrada, si ebbe una generazione assai prolifica: oltre al G., sono altri quattro i figli maschi di Guido (VII) di cui la documentazione ci dà notizia, anche se uno di essi - Ruggero, del quale ci sono noti alcuni atti, per esempio quello del 1219 con il quale giurava che avrebbe venduto con i fratelli il castello di Montemurlo al podestà di Pistoia - morì senza eredi, nel 1225. Un'altra fonte cronachistica, peraltro, sottolinea la sorte di Ruggero con una certa enfasi, che potrebbe essere indizio del ruolo, di un certo rilievo, ricoperto da questo, sebbene si ritenga che fosse il G. il primogenito: si tratta della Nuova cronica di Giovanni Villani che ricorda che "morì il conte Guido vecchio, del quale rimasono cinque figliuoli, ma l'uno morìo e lasciò reda della sua parte quegli ch'ebbono Poppi, però che di lui non rimasono figliuoli" (p. 264). Né va dimenticata, fra le sorelle del G., Sofia, omonima della prozia badessa di Pratovecchio, la quale ne seguì le orme a Rosano, il monastero la cui storia era legata a doppio filo con quella di famiglia.
Nel primo atto a lui relativo, di provenienza aretina e datato 13 nov. 1201, il G. compare come testimone della cessione da parte dei figli del conte Ugo, Ugolino e Buonconte, insieme con il conte Ugo di Teberto, del poggio di Meloncello al Comune di Arezzo.
Proprio i rapporti sempre più intensi con i centri urbani avevano ormai assunto un ruolo predominante nell'azione dei Guidi, come testimoniato fra l'altro dal matrimonio del padre del G. con Gualdrada, sebbene trovare un'intesa con i poteri comunali non doveva essere né gradevole né semplice per quanti fino ad allora erano stati i detentori pressoché assoluti dei poteri territoriali. Prova ne è una vicenda del 1207 che vede impegnato il G., nell'agosto, in trattative con il Comune di Pistoia relative ad alcuni castelli: dopo che il padre aveva accettato che il G. stesso, o l'altro figlio Tegrimo, ricoprissero per i due anni successivi la carica di podestà di Pistoia, lo stesso Guido (VII) rifiutava tale accordo; una decisione alla cui base è stata vista "un'istintiva diffidenza" nei confronti dei Comuni "che impedì o ritardò accordi di ogni tipo" (Rauty, p. 261).
Di là dalla condivisione di un simile giudizio resta il fatto che, nei decenni di inizio secolo XIII, la famiglia sembra comunque avesse ormai accettato, come ineluttabile, la necessità di scendere a patti con le città. Nel caso dei Guidi, erano almeno tre le realtà urbane con le quali dovevano confrontarsi: oltre ad Arezzo e Pistoia, era la città natale della madre del G., Firenze, la principale interlocutrice. Questa, in ragione della propria forza e della grande crescita che aveva conosciuto nel secolo XII, poteva infatti esercitare una pressione ben maggiore di quella di Pistoia o di Arezzo sulla famiglia alla quale, dunque, ben conveniva mettere quanto più possibile a frutto ogni occasione che venisse dal matrimonio del padre del G. con "la bona Gualdrada" (Inferno, XVI, v. 37). Una fra le conseguenze più evidenti dell'inserimento della famiglia nella vita cittadina fu l'acquisizione del palazzo dei Ravignani di borgo S. Piero che, in un documento del 1218, è appunto ricordato come appartenente ai cinque figli maschi di Guido (VII), che continuavano a gestire in comune, secondo la consuetudine germanica, l'intero patrimonio ereditato dal padre.
Per diversi anni dopo la morte del padre - non anteriore al 1214, secondo Davidsohn - il G. e i suoi fratelli continuarono dunque a gestire insieme l'intero patrimonio, ciascuno vedendosi assegnata una quota dei singoli beni. Per contrastare inoltre l'ingerenza delle città sui loro possedimenti i Guidi richiedevano, nel 1219, ai loro dipendenti di alcune terre localizzate nella diocesi fiesolana nuovi giuramenti che escludessero qualsiasi diritto o potere dei Fiorentini su di loro. Sempre Firenze si intrometteva poco tempo dopo, per esempio, in una trattativa tra il G. e i suoi fratelli con il Comune di Pistoia per la cessione del castello di Montemurlo. La fortezza pervenne però alla fine a Firenze e i Guidi si impegnarono a cedere anche Montevarchi e altri castelli e beni nel medio Valdarno; la stessa Pistoia, del resto, poco tempo dopo stringeva un patto commerciale con Firenze, nel 1220.
Un sostegno in tale difficile fase nella gestione del potere locale veniva però al G. e ai suoi fratelli dal giovane imperatore Federico II. Pare che già dalla Germania, nel 1219, fosse pervenuto loro un privilegio, elargito in considerazione dei servizi che il padre aveva prestato a Federico I e a Enrico VI, con il quale venivano condannati a una pena di 100 libbre d'oro coloro i quali avessero minacciato i possedimenti dei Guidi. Con un privilegio del 29 nov. 1220, emanato da Monterosi presso Sutri, Federico II riconfermava al G. e ai fratelli gli antichi possedimenti di famiglia, nonostante una parte di essi fosse ormai entrata sotto il dominio fiorentino: si pensi a Empoli, Monte di Croce, Montemurlo, Viesca, Montevarchi e ad altri castelli e terre. I cinque Guidi - Ruggero era ancora vivo -, qualificati dal diploma quali conti palatini, potevano ritenersi soddisfatti, di là dall'esclusione di Poggibonsi, del resto già assente dal diploma che Enrico VI nel 1191 aveva concesso al padre. Nei giorni successivi il G. e i suoi fratelli comparvero a più riprese accanto a Federico II, come testimoni di vari privilegi concessi dall'imperatore.
Per quanto riguarda il vasto patrimonio di famiglia, come si è già accennato, in una prima fase, successiva alla morte del padre, il G. e i fratelli continuarono a gestirlo in comune. Ciò era causa di trattative molto complesse, allorquando se ne voleva alienare una parte.
In una serie di atti relativi alla vendita di un castello di famiglia, quello di Larciano, del 1226, possiamo così vedere tutti i fratelli allora viventi, insieme con la madre e le mogli, intervenire ciascuno per la propria parte. Proprio da questa documentazione conosciamo il nome di una prima moglie del G., Adalasia, forse della famiglia dei conti Alberti (Liber censuum, pp. 190-193). Di certo di famiglia eminente doveva poi essere la seconda moglie, sposata poco tempo dopo, Giovanna Pallavicini, sorella di Uberto, dalla quale ebbe i due figli Guido Novello e Simone.
Ritroviamo il G. qualche anno dopo, questa volta impegnato in azioni militari nell'ambito dello scontro di Siena e Pisa contro l'amplissima alleanza capeggiata da Firenze e che vedeva la partecipazione di Lucca, Pistoia, Arezzo, Orvieto, Città di Castello, Ancona, Urbino, del Ducato di Spoleto e di truppe signorili, tra cui quelle dei Guidi. In particolare, sappiamo che il G. partecipò alla battaglia che i Fiorentini vinsero sotto porta Camollia, appena fuori Siena, il 15 giugno 1230 e che anzi fu il primo a giungere sotto le mura.
In seguito alla morte del fratello Marcovaldo, avvenuta nel 1229, i due figli di questo, Guido Guerra e Ruggero, definiti "pupilli" in un documento fiorentino del 21 febbr. 1234 (Davidsohn, II, p. 371 n. 1), furono affidati al G. che compare come loro tutore, insieme con il fratello Tegrimo, in un documento di poco successivo (ibid.).
Negli anni Trenta e Quaranta del secolo XIII si andò consumando la divisione interna non solo tra i diversi rami dei Guidi discendenti dal G. e dai suoi fratelli, ma anche tra esponenti di uno stesso ramo. Ciò avvenne in un confuso sovrapporsi di ragioni: se vi furono motivi interni agli equilibri e alle divisioni del patrimonio tra i vari parenti, non mancarono di influire in tale situazione le lotte tra le città toscane e la presenza di due schieramenti, un partito filoimperiale, cui aderirono alcuni esponenti della famiglia, e un altro filopapale.
In questa situazione che segnava il tramonto dell'antica potenza unitaria dei Guidi, facendo nascere nuovi e più puntuali poteri locali, il G. morì, nei primi mesi del 1239, come si evince dall'inventario dei suoi beni, redatto il 5 marzo di quell'anno (segnalato in Davidsohn, V, p. 40 n. 3).
Da esso traspaiono alcune notizie curiose che mostrano uno spaccato della dimensione più quotidiana della famiglia: l'eredità del G. comprendeva, infatti, vasellame di metallo prezioso, scodelle, saliere, salsiere, calici, catini per lavarsi le mani con il fondo ornato di pesci dorati, boccali da vino cinti da tralci di vite e lavorati artisticamente, oltre a fiasconi fregiati dall'aquila imperiale, segno dell'adesione al partito federiciano. Ancora, dallo stesso documento veniamo a sapere che il conte, nella cappella del castello di Poppi, possedeva una preziosa reliquia, un frammento del legno della croce di Cristo conservato in un crocefisso d'oro. Infine, a testimonianza della sua attività militare, l'eredità comprendeva quattordici elmi con la visiera dipinta.
Fonti e Bibl.: Liber censuum Comunis Pistorii, a cura di Q. Santoli, Pistoia 1915, docc. 269-273, pp. 190-193; 323, p. 219; G. Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, I, Parma 1990, p. 264; R. Davidsohn, Storia di Firenze, I, Firenze 1956, pp. 1020, 1105; II, ibid. 1956, pp. 88 s., 91 s., 108, 110, 112, 246, 250, 326, 371, 495; V, ibid. 1962, pp. 40, 635; VI, ibid. 1965, p. 33; VII, ibid. 1965, pp. 116 s., 489; N. Rauty, I conti Guidi in Toscana, in Formazione e strutture dei ceti dominanti nel Medioevo: marchesi, conti e visconti nel Regno italico, secc. IX-XII. Atti del II Convegno, Pisa… 1993, Roma 1996, p. 263 E. Repetti, Diz. geografico fisico storico della Toscana, VI, Appendice, Firenze 1846, pp. 43 s.