GUIDO Guinizzelli (Guinizelli)
Il poeta che Dante nomina in Purgatorio, XXVI, 94 ("son Guido Guinizzelli e già mi purgo / per ben dolermi prima ch'a lo stremo") è presentato dai canzonieri antichi come "Messer Guido Guinizelli di Bolongna" (così il Vat. lat. 3793, della Biblioteca apost. Vaticana, a c. 126v e passim: altrove "Messer Guido di Guinizello di Bolongna"; formula confermata dal Redi 9 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, "Messer Guido Guinisselli da Bologna", e dal Banco rari 217 ex Palatino 418 della Biblioteca nazionale di Firenze, "Messer Guido Guiniçelli di Bologna", a parte qualche caso di rubrica accorciata).
Guinizello è diminutivo di Guinigi, e ciò porterebbe a una pronuncia con l'affricata sonora, naturalmente scempia nella pronuncia bolognese e forte in quella toscana; la grafia Guinicelli, attestata per es. dal Barb. lat. 3953 della Biblioteca apost. Vaticana e dai testi emiliani della Commedia, Rb (Firenze, Biblioteca Riccardiana, cod. 1005) e Urb (Biblioteca apost. Vaticana, Urb. lat. 366), è ambivalente; una pronuncia sorda, come quella oggi codificata, è invece il presupposto del mutamento in -ss- registrato dal copista pisano del Redi 9.
Il più antico tentativo di individuazione biografica del personaggio si deve a un commentatore di Dante, Benvenuto da Imola (1380 circa), che da ambienti bolognesi avrà certo ricevuto la notizia inserita nella glossa a Purgatorio, XXVI: "iste quidem fuit miles bononiensis de clarissima familia Principum vocatus Guido Guinicellus. Guinicelli enim fuerunt unum membrum de Principibus pulsis de Bononia seditione civili, quia imperiales erant" (si ricorda qui la cacciata dei Lambertazzi, ghibellini, dopo la vittoria dei Geremei, guelfi, il 2 giugno 1274). Le ricerche d'archivio, particolarmente attente e feconde a partire almeno dall'opera monumentale di G. Fantuzzi, portarono in effetti alla luce non uno, ma due candidati all'identificazione col poeta: "Dominus Guido quondam domini Guinizelli de Principibus" (citato in un documento del 31 dic. 1270, relativo all'adempiuta podesteria in Castelfranco) e il contemporaneo "Dominus Guido domini Guinizelli de Magnano". La testimonianza di Benvenuto è favorevole al podestà di Castelfranco, ma solo in parte: non è infatti confermato dai documenti che il cognome Guinicelli fosse portato da alcun ramo (membrum) della famiglia Principi; al contrario, dalla fine del sec. XIII tale cognome identifica i discendenti di Guinizellus Magnani, fra cui il figlio di G., Guiduccio ("d. Guido de Guinicellis", in un documento del 16 giugno 1310). È stato osservato da Orioli - ed è osservazione, a nostro avviso, determinante - che il nome del poeta, come è tramandato dalle rubriche dei canzonieri, mal si adatterebbe al componente di una famiglia per la quale l'uso del cognome de Principibus appare già consolidato alla metà del secolo. "Non trascurabile" (Folena, 1980) appare infine il suggerimento insito nella congiunzione dantesca (De vulgari eloquentia, I, XV 6) di "Guido Guinizelli" e "Guido Ghisilerius", ad aprire la quaterna dei poeti bolognesi in volgare illustre. Guido Ghisilieri è in realtà quasi uno sconosciuto (morto forse prima del 1288, ne rimane solo il verso incipitario, Donna lo fermo core, citato da Dante) ed è probabile che debba l'associazione col "maximus Guido" a un'affinità di ordine anzitutto gentilizio: e appunto risulta che la seconda moglie di Guinizzello Magnani fosse una Ghisilieri, Guglielmina di Ugolino.
S'è già detto (sulla scorta di Orioli) che l'espressione di Benvenuto, "Guinicelli fuerunt unum membrum de Principibus", non sembra corrispondere a realtà: fra i Principi furono usati i nomi Guido e Guinizellus, ma non si formò un ramo noto come de Guiniçellis. L'avo di G. è ricordato negli atti semplicemente come "dominus Magnanus", senza tracce di relazione con la famiglia de Magnanis; di lui si sa che fu procuratore del Comune nel 1229 (Savioli, p. 91) e membro del Consiglio di credenza nel 1234 (ibid., p. 151) e 1250 (Antonelli, p. 38).
"Domino Guinicello filio Magnani" è nominato in un atto del 1226 (Orioli, p. 168) come testimone alla vendita di un Digestumnovum; la capacità di testimoniare implica che Guinizzello avesse in quell'anno più di venticinque anni, fosse nato insomma prima del 1201. Nel 1229 Guinizzello era membro del Consiglio del Popolo (Savioli, p. 92); appare poi con la qualifica di iudex in atti del 1235 (una sentenza: in Orioli, p. 168), 1239 (Savioli, p. 179), 1262 (ibid., p. 380). I discendenti di Magnano avevano case nella "cappella" di S. Benedetto di Porta Nuova e poderi nei territori, fra loro confinanti, di Ceretolo ("in curia Ceretoli") e Casalecchio ("in curia Casalicli de Reno"): documenti del 13 nov. 1268, 21 ag. 1269, 3 genn. 1277, ecc.; di Guinizzello si conosce anche, da un atto dell'11 genn. 1269, una casa "in platea maiori" (attuali via d'Azeglio - piazza Maggiore lato ovest - via Indipendenza), dove almeno fino a quella data abitò anche Guido.
Dalla prima moglie, Ugolina di Ugolino da Tignano, Guinizzello ebbe Giacomo, nato intorno al 1219, G. e Bartolomea; sposò poi, come si è detto, Guglielmina di Ugolino Ghisilieri, da cui ebbe Uberto, che morì prima del 1292, e Vermiglia, vivente nel 1292: il chiarimento di questi dati si deve ad A. Antonelli.
G. è già nominato come teste in un atto del 20 nov. 1265, relativo all'attività paterna: "Martinus Rosellus dixit promisisse domino Guiniçello condam domini Magnani ire cum eo et esse ad potestariam Narni, a kal. januarii proximis venturis […] presentibus d. Guidone filio d. Guiniçelli etc.". Nacque dunque prima del 1240; una data puramente indicativa, tenendo conto dell'età del fratello Giacomo, può essere il 1230. Contro l'ipotesi che G. poeta sia all'incirca coetaneo di Guittone d'Arezzo non vale l'obiezione (Contini) che il primo rivolga al secondo l'appellativo "padre" (nel sonetto O caro padre meo, de vostra laude), comunque spiegabile con lo stato del destinatario, dal 1265 circa membro dell'ordine dei frati gaudenti, e con la sua autorevolezza di maestro.
Come il padre Guinizzello, G. apparteneva al mondo dei legisti. Il 10 e il 27 marzo 1268 G. rilascia consilia a petizione dell'ufficio dei Banditi (Orioli, pp. 194 s.). Il 21 febbr. 1270 compare in un atto di fideiussione col titolo di iudex. Il 16 dic. 1270 vende un Inforziato ("D. Guido d. Guinizelli vendidit […] Infortiatum cum tribus partibus et apparatu d. Accursii"); il 14 nov. 1273 un Digesto ("D. Guido d. Guinizelli vendidit […] unum digestum vetus de littera nova"). Altri atti di minor rilievo (1266-67, 1269-72) sono citati da Zaccagnini (1912, 1933) e ora da Antonelli.
Quel che si legge nella Storia della letteratura italiana di F. De Sanctis ("G. nel 1270 insegnava lettere nell'università di Bologna") è solo il frutto di un errore di stampa in un periodo equivocabile del Manuale di V. Nannucci ("G., dice Benvenuto da Imola, che insegnava lettere umane in Bologna l'anno 1270, fu uomo saggio").
Il 12 ag. 1269 i tre figli più grandi di Guinizzello, forse per dissensi con lui, si fecero riconoscere "licentia posse contrahere et pacisci tanquam patres familias" (Zaccagnini, 1915, p. 427); il 15 dic. 1272 Guglielmina abbandonò la casa maritale ("D. Iacobus, D. Ubertus, fratres filii Guiniçelli Magnani, D. Ubaldus d. Ubaldi Petri Frenarius [è un altro membro della consorteria] venerunt et dixerunt in solido promisisse dare et solvere d. Gililmine uxori domini Guiniçelli Magnani et filie quondam d. Ugolini de Ghisleriis singulis annis quibus ipsa domina staret extra domum ipsius Guiniçelli pro suis alimentis XL lib. bon."). La separazione si può spiegare con motivi politici (i Ghisilieri erano geremei, ossia guelfi), come suggerisce Antonelli, o con più tristi fatti personali: qualificato "mentecattus" in un documento del 22 nov. 1274, Guinizzello morì prima del 20 maggio 1275 (data in cui un documento menziona "Ubertus quondam Domini Guinicelli banitus et rebellis Communis Bononiae pro parte Lambertaciorum": Fantuzzi, p. 347); fu sepolto in S. Colombano (cfr. il testamento di Vermiglia, 22 genn. 1292, da cui risulta anche che Guglielmina, ancor viva nel 1287, era morta e ricongiunta col marito nella tomba).
G. aveva frattanto sposato Beatrice della Fratta ("Domina Beatrixia filia quondam domini Gruamontis de Fracta", in un documento del 1° ott. 1283, Fantuzzi, p. 347) e nel 1270 preso dimora in via di Portanova, "nel quartiere dove s'affollavano nelle loro scuole i grammatici" (Zaccagnini, 1932, p. 90); dal matrimonio nacque Guiduccio.
Sconfitta la parte lambertazza, G., Giacomo e Uberto furono inclusi nelle liste dei ribelli, con le rispettive famiglie; nel registro membranaceo dei confinati, compilato nel 1277 da elenchi precedenti, si legge: "De cappella Sancti Benedicti de Portanova / d. Ubertus filius domini Guiniçelli Magnani / Ubaldus Frenarii / Bertholus Alberti becharii / Guido et Iacobus filii dominiGuiniçelliMagnani […] Addictio facta de filiis bannitorum et confinatorum: […] Guiducius filius domini Guidonis domini Guinicelli Magnani". I documenti studiati da Antonelli sembrano però indicare che G. fu effettivamente condannato al confino solo nel 1276, l'anno stesso della sua morte, avvenuta prima del 14 novembre (giorno in cui "Domina Beatrixia uxor quondamdominiGuidonis d. Guiniçeli Magnani etc. recepit tutelam Guidonis pupilli sui filii etc."); resta dunque soltanto una minima apertura cronologica per un eventuale esilio di Guido. La notizia del confino a Monselice, contenuta in un registro non datato ma probabilmente del 1277 o di poco posteriore, si riferisce a Guiduccio di Guido, a Giacomo e Uberto di Guinizzello e ad altri membri della consorteria ("filii [il plurale si deve a ripetizione formulare] Guidonis Guini […] et Iacobus quondam Guiniçelli predicti elegerunt stare Monçelçe [corretto su Argente] et filii domini Ubaldi Frenari […] et Ubertus Guiniçelli Magnani elegit stare Monxelxe / Ubaldus Frenarii [,] Guiniçellus eius filius elegerunt stare Monxelxe", Zaccagnini, 1917, pp. 302 s.).
Le pur scarse notizie sulla vita di Guido Guinizzelli Magnani aggiungono qualche tratto significativo alla figura del poeta. L'appartenenza alla nobiltà potrebbe suggerire - in tempi di legislazione antimagnatizia (dal 1248) - una lettura più sottile dei famosi versi "Dis' omo alter: / Gentil per sclatta torno…" (Al cor gentil, vv. 33-34), ossia una rivendicazione della "gentilezza" individuale contro i vincoli di "schiatta", intesi in buona come in cattiva parte. Ma il dato più importante è senza dubbio l'appartenenza di G. al mondo degli uomini di legge, che vuol dire continuità di ordine sociologico, quindi culturale, fra G. e gli antecessori "siciliani". Relatore effettivo di tale continuità fu probabilmente il figlio di Federico, re Enzo, prigioniero dei Bolognesi dal 1249. Nato, come si è ipotizzato, intorno al 1230, G. può esser entrato abbastanza presto in rapporti col re di Sardegna, direttamente o grazie a intermediari come quel "Semprebonus not[arius] bon[oniensis]", secondo il canzoniere ex Palatino collaborante con Enzo nella stesura di S'eo trovasse pietanza. Una conferma di tali relazioni si trova nella rubrica di due testi della canzone appena menzionata, il Vat. lat. 3214 e il cod. 1289 conservato presso la Biblioteca universitaria di Bologna: "Re Enzo et messer Guido Guiniçelli" (nel codice vaticano subito dopo due canzoni di G., II e V). Sono testi tardi ma, soprattutto il primo, pregiati; e dunque non si deve trascurare il suggerimento di Monteverdi, che voleva in qualche modo associati a quello di Enzo, nell'archetipo della canzone, i nomi di Semprebene e di G., quali collaboranti o destinatari: il sovrano, il notaio, il giudice, dunque, come in una replica in miniatura della Magna Curia.
Prescindendo dall'indefinibile "partecipazione" a S'eo trovasse pietanza, il corpus poetico di G. comprende cinque canzoni e quindici sonetti (la numerazione usuale è quella dell'edizione Contini - Avalle in Poeti del Duecento). In realtà, il son. XII, nonostante l'autorità di L (Redi 9, ma qui si tratta della sezione fiorentina del codice indicata con la sigla Lb2), va girato a Rinuccino da Firenze (Marti, Carrai) e il XIII, Madonna mia, quel dì ch'Amor consente, risulta "non superiore a ogni sospetto, essendo l'ultimo della serie guinizzelliana nel tardo Casanatense" 433, unico (Contini). Bisogna aggiungere: due frammenti citati nel Reggimento e costumi di donna di Francesco da Barberino, Donna, il cantar soave (4 versi, forse la ripresa di una ballata [Giunta]) e Conoscer sé, a voler esser grande (sei versi, da una canzone morale); e quasi certamente - "quasi", perché il nome di G. vi si reintegra per congettura - il verso incipitario Di fermo sofferire, che Dante cita, in De vulgari eloquentia, II, XII 6, aggiungendo che la canzone si svolgeva "non sine quodam elegie umbraculo", ossia non era aliena dall'espressione di una pena amorosa. Due stanze con eguale incipit sono nel Vat. lat. 3214 sotto il nome di Simone Rinieri da Firenze: ma autorità del codice, difficoltà dell'attribuzione (Simone essendo altrimenti ignoto) e incongruenza dello stile fanno escludere si tratti di testo guinizzelliano (diversamente Rime, ed. Rossi, p. 83).
Nell'Ottocento sono state attribuite a G., senza fondamento obiettivo, tre canzoni adespote nei canzonieri: In quanto la natura (morale), Congrandisio pensando lungamente (sulla natura d'amore) e Donna lo fino amore. Zaccagnini assegna a G. il son. Alquanto scuza l'omo dicer fermo, anonimo in L. La tradizione manoscritta (Vat. lat. 3214, Bologna, Biblioteca universitaria 1289) destina poi a "Guinizzelli" il sonetto di Dino Compagni, Non vi si monta per iscala d'oro: ma cogenti motivi cronologici (oltretutto, il sonetto è rivolto a un "giovane") fanno ritenere che il nome di G. si sia sostituito a quello del Cavalcanti (Giunta, 1995).
Data la peculiarità della sua posizione storica, G. è l'unico poeta del Duecento che goda di un'attestazione parimenti significativa nei canzonieri delle origini (Laur. Rediano [L], Palatino [P], Vaticano [V]) e nei canzonieri stilnovistici (Barberiniano 3953 [B], Chigiano [Ch], Vaticano 3214 [V2], Capitolare 445, Mezzabarba, ecc.). Fra gli antichi, il maggiore testimone guinizzelliano è evidentemente L, che a G. presta l'onore di aprire - c. 73r e c. 129r - le sezioni (canzoni e sonetti) degli "altri" poeti, amici (come nel caso) o antecessori del protagonista Guittone. L riferisce il grosso delle canzoni di G. (II-V), in un ordine che trova conferma in V (ed è perciò giustamente rispettato da Avalle), e due gruppi di sonetti (XX; XV, XIV, XVI; XIX; IX - mano La2; e XII; XIX [di nuovo]; XI - mano Lb2). Alle quattro canzoni P e V aggiungono rispettivamente uno e tre sonetti: IX (PV), X (V) e XIX (V). È da notare che, mentre IX (su amore-morte) è un accompagnatore fisso delle quattro canzoni, X (Io voglio del ver la mia donna laudare) viene da altre fonti e ha infatti altro tenore: così che non si direbbe un caso se questo documento "prestilnovistico" affiori proprio in un manoscritto fiorentino. E fiorentino è, naturalmente, quel Ch che a metà Trecento, in perfetta osservanza dantesca (Purgatorio, XXVI, 97-99), riconosce a G. il ruolo di "padre" di quanti "mai / rime d'amor usar dolci e leggiadre" (nell'ordine di Ch: G., Cavalcanti e Dante [Vita nova, rime]). Oltre alla serie delle canzoni (completa di I, in posizione iniziale), Ch offre i sonetti del "saluto" (Lo vostro bel saluto e 'l gentil sguardo [VI]) e della "lode" (Vedut'ho la lucente stella diana [VII] e il già citato X) inclusi in questa serie: VI, VII, VIII, XIX, IX, X, XVII, XVIII. Sono in posizione decentrata: XI (adespoto e rimaneggiato), XII (attribuito a maestro Rinuccino), XV (adespoto). In sintesi, G. certo (tolti perciò XII e XIII) è tutto in Ch, tranne XIV, XVI e XX, per i quali soccorre anzitutto L.
Una menzione a parte si giustifica per le trascrizioni, adespote, di X e XIX nei Memoriali bolognesi: si tratta di due trascrizioni per il primo sonetto (1287, 1290) e di ben otto (1287, 1288, 1289, 1293, 1310, 1320) per il secondo, favorito dal contenuto gnomico. Solo in termini generali queste copie possono rendere testimonianza per la lingua poetica di G.: un bolognese "illustre", cioè latineggiante e composito di sicilianismi e toscanismi letterari; nell'effettivo dosaggio dei componenti, invece, i notai possono essersi sbilanciati sia in direzione dialettale sia in direzione opposta (i testi di X esibiscono i toscani giglio e somiglio, invece degli originali *çeglio e *someglio richiesti dalla rima con vermeglio e meglio: il che, scrive Contini, "lascia trasparire l'origine consueta", ossia transappenninica, delle fonti).
Il tema proprio di G. è il "fino amore", l'amore perfetto, con i suoi tormenti e le sue delizie che incessantemente trascolorano gli uni nelle altre: "la natura mia me mina / ad esser di voi, fina, / così distrettamente innamorato / che mai in altro lato / Amor non mi pò dar fin piagimento: / anzi d'aver m'allegra ogni tormento" (Madonna, il fino amor ched eo vo porto). L'amore nobilita, ma la presenza dell'amata getta l'amante nello smarrimento; del noto paradosso G. tenta una spiegazione addirittura ontologica: "Madonna, da voi tegno ed ho 'l valore; / questo m'avene, stando voi presente, / ch'e' perd'ogni vertute: / che le cose propinque al lor fattore / si parten volentero e tostamente / per gire u' son nascute" (ivi; cfr. Dante, Convivio, IV, XII 14: "lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima da la natura dato, è lo ritornare a lo suo principio. E però che Dio è principio de le nostre anime e fattore di quelle simili a sé […] essa anima massimamente desidera di tornare a quello"). La celebrazione della donna ha una solida base "siciliana", ma un sentimento ben più limpido di come la bellezza "appaia" in forma di luce, nell'attimo irripetibile: "Ben è eletta gioia da vedere / quand'apare 'nfra l'altre più adorna, / che tutta la rivera fa lucere / e ciò che l'è d'incerchio allegro torna; / la notte, s'aparisce, / come lo sol di giorno dà splendore, / così l'aere sclarisce" (Tegno de folle 'mpres', a lo ver dire); e di come l'interiorità dell'amante ne riesca perturbata e commossa: "Di sì forte valor lo colpo venne / che gli occhi no'l ritenner di neente, / ma passò dentr'al cor, che lo sostenne / e sentési plagato duramente" (ivi).
Dal suo più vero modello, che è Guido Delle Colonne, iudex da Messina, G. ritrae il gusto per la similitudine inconsueta, ben articolata, e ora nutrita con letture "scientifiche" non banali. Ecco il magnete: "In quella parte sotto tramontana / sono li monti de la calamita, / che dan vertud'all'aire / di trar lo ferro" (Madonna, il fino…) e il fulmine: "Madonna, audivi dire / che 'n aire nasce un foco / per rincontrar di venti; / se non more 'n venire / in nuviloso loco, / arde immantenenti / ciò che dimora loco" (Donna, l'amor mi sforza). Il massimo sviluppo di questa tecnica è in Al cor gentil, dove l'amore viene definito per similitudini tratte da: ars venandi (vv. 1-2); teoria della luce (5-10, 39-40); scienza de lapidibus (11-20, 28-30); fisica generale (21-27); dottrina della nobiltà (31-38); teologia (41-50). Tanto impegno è prodotto da G. nell'intento di superare la netta contrapposizione - che Guittone aveva rilanciato dopo la cosiddetta "conversione" - fra esperienza d'amore e perfezionamento morale. Con "originalità assoluta" (Roncaglia, 1967), G. scopre una legge fisica ("né fe' amor anti che gentil core, / né gentil core anti ch'amor, Natura") dietro l'antica massima per cui "probitas sola quemque dignum facit amore" (Andrea Capellano).
Madonna splende negli occhi dell'amante come Dio splende nelle intelligenze angeliche; il poeta prevede che Dio lo rimprovererà per tale raffronto blasfemo e se ne scusa in anticipo col fatto che Madonna ha "d'angel sembianza". Il motivo, peraltro, ci riporta direttamente al Guittone cortese: "ch'angel di Deo sembrate in ciascun membro" (son. Donque mi parto); la donna non è qui collocata realmente in connessione col soprannaturale (come nella Vita nova), e l'audacia del paragone sta piuttosto nella natura sessuale del beato compimento che ella "dar dovria" all'amante devoto (vv. 47-50), come Dio "al primero", cioè istantaneamente, dà beatitudine alle intelligenze celesti che gli obbediscono. Anche in II, G. tiene il punto: "Dar allegranza amorosa natura, / senz'esser l'omo a dover gioi compire, / inganno mi simiglia" (vv. 13-15); è molto probabile, come suggerisce Sanguineti, che sia questa la lussuria letteraria di cui il G. dantesco si va purgando.
A tal riguardo, non aggiunge poi molto il son. XVII, Chi vedesse a Lucia un var capuzzo, con la terzina: "Ah, prender lei a forza, ultra su' grato, / e bagiarli la bocca e 'l bel visaggio / e li occhi suoi, ch'èn due fiamme de foco". Le rime in uzzo (capuzzo: Abruzzo: tuzzo: mozzo ⟨ *muzzo) segnalano nettamente un livello stilistico "comico", che si dovrebbe riportare al modello fiorentino di Rustico Filippi (cfr. son. Volete udir vendetta smisurata?, con le rime Acerbuzzo: Giovannuzzo: puzzo: Cambiuzzo). Allo stesso livello si pone XVIII, Volvol te levi, vecchia rabbiosa, che si può confrontare col famoso Dovunque vai con teco porti il cesso, di Rustico: ma G. non è tanto interessato al singolo dettaglio obbrobrioso, quanto alla forza complessiva dell'immagine: "Ché non fanno lamento li avoltori, / nibbi e corbi, a l'alto Dio sovrano, / che lor te renda? Già se' lor ragione. / Ma tant' ha' tu sugose ['marce'] carni e dure, / che non se curano averti tra mano".
Niente di specifico si può dire sulle modalità con cui le rime di G. giunsero nelle mani degli innovatori fiorentini; ma sostanzialmente immotivata appare l'ipotesi di Petrocchi ("è concesso inferire che fu proprio D[ante] a trasportare nel pieno del 1287, di Bologna in Firenze, il canzoniere guinizzelliano"): non soltanto sappiamo che Dante leggeva un G. toscanizzato, cioè all'incirca il G. dei grandi canzonieri (cfr. De vulgari eloquentia, I, XV 6); ma il "primo" Cavalcanti era già, consapevolmente, un cultore di Guido. I due soli testi di Cavalcanti ammessi nei canzonieri arcaici, la ballata Fresca rosa novella e il sonetto Biltà di donna, pur nel loro gusto sicilianeggiante sono già caratterizzati dalla frequenza dei sintagmi guinizzelliani.
Edizioni di riferimento per le rime di G. sono: I rimatori bolognesi del secolo XIII, ed. critica a cura di G. Zaccagnini, Milano 1933, pp. 73-104; Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, II, Milano-Napoli 1960, pp. 447-485 (i testi di G. sono stabiliti da D'A.S. Avalle); Poeti del dolce stil nuovo, a cura di M. Marti, Firenze 1969, pp. 33-114; G. Guinizzelli, Poesie, a cura di E. Sanguineti, Milano 1986; G. Guinizzelli, Rime, a cura di L. Rossi, Torino 2002.
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