RANGONI, Guido
il Vecchio. – Figlio di Giacomino II Rangoni e di Fina Buzzacarini da Padova (appartenente a una famiglia eminente della Padova carrarese), fratello minore di Gherardo Rangoni, nacque ai primissimi del Quattrocento in località sconosciuta.
I Rangoni, radicati nel Modenese, si legarono politicamente agli Estensi, divenuti signori della città emiliana a fine Duecento; a quell’epoca risale anche un matrimonio tra la figlia di Tobia Rangoni, Alda, e Aldobrandino, figlio di Obizzo d’Este. Dagli Estensi e molto probabilmente dallo stesso Aldobrandino, derivò a un Rangoni (a sua volta, di nome Aldobrandino), l’investitura feudale (col titolo comitale) del castello di Spilamberto nella pianura modenese. La signoria sul luogo fu poi esercitata dai discendenti, tra i quali Guido Rangoni e prima di lui il fratello maggiore, Gherardo.
Nel 1431 Rangoni iniziò la sua carriera di capitano al servizio dei Bolognesi, ma ben presto, a partire dall’ottobre 1434, su suggerimento di Erasmo da Narni detto "il Gattamelata" si accostò ai Veneziani e ottenne una condotta di sei mesi, rinnovabili con la formula “del rispetto”, per guidare quaranta lance, aumentabili sino a duecento cavalieri. Guido rimase da questo momento sino alla morte fedele alla Serenissima.
Di questa fedeltà si mostrò perfettamente conscio un nipote di Rangoni, figlio di Niccolò e di Bianca Bentivoglio: il cardinale di Sant’Agata, Ercole de Rangonibus, che in una lettera del 10 luglio 1517, indirizzata al doge di Venezia, dopo aver espresso la sua fedeltà alla Repubblica di San Marco, aggiunse che essa era uguale a quella manifestata a suo tempo da suo padre Niccolò dall’avo Guido.
In modo puntuale la Repubblica alla scadenza del mandato confermò al Rangoni la condotta ed egli nel 1437, sotto il comando di Gian Francesco Gonzaga, volle portare la guerra sul territorio milanese, tentando di guadare l’Adda. L’anno successivo prese parte – col Gattamelata – alla celeberrima difesa di Brescia assediata dall’esercito visconteo guidato dal Piccinino. Rangoni fu destinato (luglio 1437) alla difesa delle fonti idriche della città, situate a Mompiano, ma sopraffatto dai Milanesi dovette ritirarsi entro le mura. Nel settembre, mentre i viveri scarseggiavano, Rangoni seguì Erasmo da Narni nella sua ritirata da Brescia a Verona attraverso i monti del Lago di Garda e quelli del Trentino. Nella faticosa marcia Guido seppe contrastare validamente, insieme agli uomini di Guglielmo Cavalcabò, le milizie del vescovo di Trento, che dall’alto dei monti ostacolavano con il lancio di massi il cammino dell’esercito di Venezia.
Nel riconfermargli la condotta per trecento cavalli, il doge al termine del 1438 gli offrì una casa a Padova, ove il Rangoni trasferì i suoi famigliari. Concluse temporaneamente le operazioni militari in Lombardia, Guido fu inviato nel settembre 1443 con Tiberto Brandolini in Romagna, ove soggiornò a Ravenna e in seguito a Rimini per difendere la città contro re Alfonso V d’Aragona. Passato l’inverno tra i monti di Montalboddo (oggi Ostra in provincia di Ancona), nella primavera del 1444 egli raggiunse la città rivierasca per poi dirigersi successivamente verso i territori della Serenissima.
Dopo l’assassinio di Annibale Bentivoglio (avvenuto a Bologna nel 1445), Rangoni rientrò nei territori emiliani con 600 cavalli e 200 fanti, anche perché gli oratori di Venezia offrirono ai Bentivoglio, signori di Bologna, l’appoggio militare; insieme a lui si mosse Tiberto Brandolini. Risolta la questione bolognese, Rangoni fu subito inviato con Cristoforo da Tolentino nel territorio bresciano e nel settembre 1446, agli ordini di Micheletto Attendolo, sconfisse Francesco Piccinino presso il Po di San Giovanni in Croce.
I Veneti catturarono ben 4000 cavalli, che furono proporzionalmente spartiti tra i capitani di ventura; al Rangoni ne toccarono 400.
Nella crisi del Ducato visconteo seguita alla morte di Filippo Maria Visconti, Rangoni intervenne nel giugno 1447 occupando Piacenza e togliendola alla Repubblica Ambrosiana. L’anno successivo gli fu imposto di raggiungere e di difendere Caravaggio, assediata da Francesco Sforza. Le operazioni militari attorno al centro lombardo sfociarono nel settembre 1448 in una rovinosa battaglia durante la quale l’esercito veneto fu gravemente sconfitto e Rangoni, con molti altri capitani, fu preso prigioniero. Lo Sforza, dopo aver spogliato i capitani di tutto ciò che possedevano, li lasciò liberi; Rangoni rimase indefettibilmente fedele a san Marco, e il 14 dicembre 1448 ottenne dal doge una lettera patente che gli rinnovava per un anno, più uno di rispetto, la condotta al servizio della Repubblica.
Il trionfo a Milano di Francesco Sforza e la successiva pace di Lodi del 1454 lasciarono in stand-by le truppe del Rangoni, che nel medesimo anno ottenne in feudo dalla Serenissima, come prova della fedeltà sempre mantenuta, il castello di Cordignano (nel Trevigiano, ai confini con il Friuli) insieme con la località di San Cassiano di Meschio, con l’onere di pagare alla basilica ducale di San Marco ogni anno dieci libbre di cera bianca. Nello stesso 1454 i Rangoni ricevettero dagli Este anche il rinnovo della investitura feudale su Spilamberto e su altre località del Modenese, quali Castelvetro e Levizzano, Campiglio e Castelnuovo; tuttavia non furono ceduti dagli Estensi tutti i diritti amministrativi e giudiziari, poiché i duchi trattennero il diritto di nominare i podestà dei vari castelli infeudati.
In questi anni di inattività militare Guido, viste le difficoltà politiche dei Bentivoglio a Bologna, si offrì di servire con le sue compagnie la loro causa per il mantenimento della Repubblica (Covini, 2001, p. 170). L’offerta non fu accettata dai signori bolognesi e a Guido rimase solo la possibilità di una alleanza con Ercole d’Este, nel cui esercito egli, con le sue lance, serviva sui confini del Frignano nell’agosto del 1466, durante una spedizione contro Piero di Cosimo Medici, poiché il signore di Ferrara si era alleato con i Pitti, gli Acciaioli e i Soderini che intendevano instaurare un nuovo regime nella città toscana. La spedizione non ebbe alcun esito e il Rangoni rientrò nei suoi possedimenti di Spilamberto. Ivi morì nell’ottobre 1467 e fu sepolto nella cappella di famiglia in San Francesco di Modena.
Francescano fu pure un suo figlio naturale, Gabriele, nato a Chiari e seguace dell’Osservanza di Capistrano; attivo nei Balcani e in particolare nel regno di Ungheria, divenne infine cardinale sotto il pontificato di Sisto IV nel 1477.
Guido Rangoni lasciò al figlio legittimo Niccolò, non ancora maggiorenne essendo nato a Modena tra il 1450 e il 1455 (secondo Sanuto, Diari, 1889, III, col. 1007, nell’ottobre 1500 «è di 45 anni»), il compito di continuare la sua carriera di capitano, legato alla Repubblica di Venezia, e la fedeltà vassallatica nei confronti degli Este. La madre di Niccolò era Giovanna Boiardo, figlia di Feltrino Boiardo e quindi zia di Matteo Maria Boiardo.
In giovane età, subito dopo la morte del padre (1467), entrò in contrasto con gli zii paterni Ugo e Venceslao per il godimento dei feudi concessi alla famiglia dagli Estensi nel Trecento e in particolare per il castello e la località di Spilamberto, possesso comune fra i Rangoni. I beni nella fortezza erano stati riconfermati ai membri del casato nel 1454 da Borso d’Este. Alleatosi con Uguccione Rangoni (anch’egli suo zio, a capo di un contingente di ben 200 lance e 500 fanti), Niccolò cacciò Ugo e Venceslao dalla piazzaforte, ove si erano insediati. In seguito a ciò Ercole d’Este, fratello di Borso, designò tre giuristi allo scopo di individuare e punire chi, fra i Rangoni vassalli estensi, fosse stato indicato come colpevole. I contrasti furono peraltro presto appianati, perché nel 1469, in occasione del soggiorno a Ferrara dell’imperatore Federico III, Niccolò comparve a fianco di Ugo. Qualche anno dopo si vide riconfermare l’investitura del castello di Spilamberto [1476].
Nel 1471 Rangoni scortò il duca di Este a Roma, insieme con altri signori di Romagna, e svolse analogo ruolo cerimoniale nel 1473 accompagnando Sigismondo d’Este a Napoli, per prelevare Eleonora, figlia di Ferdinando I (Ferrante) d’Aragona, promessa sposa di Ercole d’Este, il nuovo duca di Ferrara. Più impegnativo fu l’incarico del 1474, quando sostituì Antonio Trotti come condottiero ingaggiato dal Comune di Bologna. A Bologna del resto Niccolò risiedeva da diversi anni, ancor prima della morte del padre – che a suo tempo si era offerto di difendere il centro universitario –; e nella città emiliana contrasse matrimonio con Bianca, figlia di Giovanni II Bentivoglio (1481).
Secondo la narrazione del Briani (inizi Seicento), il Bentivoglio «fece nuova parentela con il conte Niccolò Rangoni, nobile Modonese, che risiedeva nell’istessa città di Bologna, come capitano generale de gli huomini d’arme di quello stato» (Briani, 1624, II, p. 985). I festeggiamenti per questo accordo matrimoniale, siglato nel 1480, diedero occasione a Giovanni Bentivoglio di accreditarsi come signore di Bologna presso le potenze italiane (oltre a Milano, Napoli, Firenze e il papa). Durante i giochi celebrativi dell’evento dal Rangoni prese nome la squadra che vinse il gioco «detto del calcio» (praticato da squadre di 25 effettivi) importato per l’occasione da Firenze.
Il matrimonio tra il Rangoni e Bianca fu poi celebrato con grande sfarzo e altrettanta rilevanza politico-propagandistica il 29 settembre 1481 alla presenza del cardinale Gabriele Rangoni, figlio naturale di Guido (e dunque fratellastro dello sposo).
La coppia, che abitò il grande palazzo fatto costruire da Niccolò in Canalgrande, ebbe ben dieci figli, di cui otto maschi; il primo, nato nel 1485, prese il nome del nonno Guido, ma fu denominato “il piccolo o il giovane”.
L’anno successivo (dicembre 1482) Rangoni fu impegnato (coi parenti Gherardo e Ugo) in una scaramuccia coi Modenesi presso il porto di quella città, a difesa dei rifornimenti alimentari bolognesi (in tempo di carestia). Subito dopo, nel contesto della guerra tra la repubblica di Venezia e gli Estensi (“guerra di Ferrara”), fu inviato dal governo bolognese a combattere contro Guido Torelli che aveva conquistato con il tradimento il castello di Montecchio allo scopo di attaccare il territorio di Reggio Emilia e di fornire aiuto ai Veneziani contro gli eserciti di Bologna e Milano. Niccolò partecipò anche alle operazioni militari della guerra di Ferrara nel luglio 1484, affiancando (con Giovanni II Bentivoglio) Ludovico il Moro nel territorio della Ghiaradadda contro i Veneziani, poco prima della pace di Bagnolo (agosto 1484).
Nel frattempo (aprile-maggio 1483) era intervenuto a Modena per mediare e sedare i contrasti insorti fra i Rangoni aderenti al partito guelfo, che faceva capo a Gaspare, e i Rangoni ghibellini, guidati da Gherardo. Riuscì a far cessare il tumulto, anche per l’intervento del podestà che con la chiusura delle porte impedì l’accesso in città dei rustici armati aderenti alle due fazioni.
Qualche anno più tardi (1487) Rangoni si distinse ancora, vincendo una giostra, nei festeggiamenti organizzati da Giovanni Bentivoglio per il matrimonio di suo figlio Annibale con Lucrezia d’Este; e nel 1489 organizzò a sua volta in Bologna una grande tenzone cavalleresca, con Giberto Pio.
Sul piano della guerra guerreggiata, Niccolò fu chiamato a intervenire nell’aprile 1488, quando una congiura eliminò il signore di Imola e di Forlì, Gerolamo Riario, nipote di Sisto IV, marito di Caterina Sforza. Da Bologna mossero subito le compagnie del Rangoni, di Giberto Pio, e poi quelle di Galeazzo Sanseverino, che occuparono Forlì e assicurarono nell’aprile alla vedova la reggenza per il figlio Ottaviano. Due mesi dopo, a Faenza – avendo Francesca Bentivoglio, figlia del signore di Bologna, assassinato il marito Galeotto Manfredi – Rangoni intervenne con Giovanni II Bentivoglio, suo suocero, per assumere il controllo della città, ma l’operazione fallì perché una rivolta popolare portò all’uccisione di un condottiero sforzesco, Gianpietro Bergamino, e al sequestro di Giovanni II Bentivoglio. Rinchiusosi nella rocca, Niccolò dovette poi capitolare e accordarsi col popolo faentino, ottenendo inaspettatamente la libertà per sé e per il Bentivoglio.
Tra fine novembre e inizi dicembre 1488 Rangoni fiancheggiò ancora una volta il suocero nella repressione della congiura anti-bentivolesca ordita dai Malvezzi, una potente famiglia bolognese: scoperta grazie a una delazione, la trama fu sventata, i congiurati arrestati e impiccati, le dimore loro (e dei Malvezzi fuggiti dalla città) acquisite da Rangoni e Bentivoglio.
Si saldò pertanto sempre più l’inossidabile sodalizio fra i due: si incontra Rangoni nella residenza bentivolesca di Belpoggio (1492); nella mostra delle milizie (e in particolare delle lanze spezzate che egli comandava insieme con Giberto Pio) organizzata a Bologna da Giovanni II Bentivoglio per celebrare la nomina a capitano generale delle milizie sforzesche oltre il Po, che egli aveva recentemente ottenuto dal Moro (aprile 1493); nell’inaugurazione, su un apposito Bucintoro, del canale artificiale del Reno da Corticella a Bologna (gennaio 1494); nel servizio di scorta a Laura Bentivoglio destinata a sposa di Giovanni Gonzaga (febbraio-marzo 1494).
Per due anni (ottobre 1495-novembre 1497) Rangoni sorvegliò poi, come castellano, la fortezza del Castelletto a Genova, per conto di Ercole d’Este (cui quel luogo era stato consegnato nel quadro della pace fra il re di Francia e Ludovico il Moro; ottobre 1495), per consegnarla infine a Giovanni da Groppello rappresentante sforzesco.
Visse gli ultimi anni a Bologna; una lettera del cardinale Pietro Dovizi detto il Bibbiena (col quale, stando al Sanuto, il Rangoni ebbe intensi rapporti epistolari) ne segnala la morte il 26 ottobre 1500, definendolo «homo molto devoto di la signoria nostra», cioè della repubblica di Venezia (Sanuto, Diari, 1889, III, col. 1007). Scompariva con lui un tipico aristocratico del Rinascimento italiano, a suo modo fedele alle amicizie e a uno stile di vita cavalleresco e brillante, ma non privo di attitudini militari.
I rapporti con la Serenissima ebbero un seguito, per gli eredi di Niccolò. Il 23 novembre 1500 la vedova scrisse infatti alla Repubblica ricordando che «per li meriti d’i soi[cioè della famiglia Rangoni] alias li fo donato uno castello in Trivixana chiamato Cordegnan»; ora, rimasta con otto figli maschi e due femmine, si raccomandava, volendo «esser in quella servitù» che Niccolò Rangoni aveva sempre professato. Il doge «li dé bone parole acetandoli per fedelissimi et cusì fo expedito» (Ibid., III, col. 1093).
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G. Venturi, Storia di Scandiano, Modena 1822, p. 83; G.C. L. Simondo de Sismondi, Storia delle Repubbliche Italiane nei secoli di mezzo, VI, Capolago 1846, pp. 142, 510; F. Odorici, L’assedio di Brescia del 1438, in La Strenna Italiana per il 1856, Milano 1856, p. 111; B. Belotti, La vita di Bartolomeo Colleoni, Bergamo 1923, pp. 92, 104, 178; P. Partner, Brandolini Tiberto, in Dizionario Biografico degli Italiani, XIV, Roma 1972, pp. 43-47; M.N. Covini, Milano e Bologna dopo il 1455. Scambi militari, condotte e diplomazia, in Condottieri e uomini d’arme nell’Italia del Rinascimento, a cura e con un saggio introduttivo di M. Del Treppo, Napoli 2001, pp. 170 s.; G.C. Montanari, G. Rangoni: un condottiero tra Evo Medio e Moderno, Modena 2005, p. 9; S. Bassetti, Erasmo Gathamelata, Milano 2012, pp. 202 s.; G. De Blasi, Rangoni Gabriele, detto Gabriele da Verona, in Dizionario Biografico degli Italiani, LXXXVI, Roma 2016, pp. 406-409.
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