MAZZONI, Guido
– Nacque a Modena intorno al 1450. Figlio di Antonio, notaio residente a Modena a partire dal 1442, il M., dopo la morte del padre, fu allevato dallo zio paterno Paganino, il quale, notaio anche lui, fu professore di grammatica e governatore della cittadina di Rocca di Toano per conto degli Este. L’apprendistato artistico del M. (detto anche «Paganino» dal nome dello zio) non può essere ricostruito sulla base di elementi documentari certi.
Di sicuro il 6 apr. 1472, ormai maggiorenne, egli fu impiegato dalla Fabbrica del duomo di Modena nei lavori di costruzione della sagrestia nuova. Nella relativa documentazione il M. è citato come pittore, sebbene di tale sua attività non resti altra traccia oltre a quella riguardante la pigmentazione delle statue (Verdon, 1978, p. 229). Il 20 genn. 1476, nell’atto di vendita di una casa di sua proprietà, il M. viene ricordato come orefice (ibid., p. 230). Tali indizi suggeriscono una formazione poliedrica e non immediatamente orientata in senso specialistico. La più antica produzione del M. come scultore reca comunque sicura testimonianza dell’influenza della contemporanea pittura ferrarese (Cosmè Tura, Ercole de’ Roberti e Francesco Del Cossa) a cominciare dalla recente impresa degli affreschi nella residenza estense del palazzo di Schifanoia. Si è anzi supposto che il M. possa avere direttamente partecipato a tali decorazioni, collaborando agli arredi plastici insieme con lo scultore Domenico di Paris.
Ben presto egli si impose in quel genere che sarebbe divenuto il suo più apprezzato marchio di fabbrica: i drammatici gruppi in terracotta dipinta rappresentanti il tema del compianto sul Cristo morto, costituiti di otto figure (Maria Vergine, s. Giovanni Evangelista, Maria Maddalena, Maria di Cleofa, Maria di Salomè, Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo e il Cristo) a grandezza naturale, caratterizzate da un accentuato naturalismo e da espressioni intensamente patetiche. In essi il M. mostra di trarre profitto dallo studio attento di modelli italiani – oltre ai pittori ferraresi, Donatello, Andrea Mantegna, Giovanni Bellini, i fratelli Lorenzo e Cristoforo Canozi da Lendinara (Genesini) e naturalmente Niccolò dell’Arca – ma anche della tradizione tedesca, fiamminga e borgognona, sia nell’ambito della scultura (Claus Sluter), sia in quello della pittura (Jan van Eyck, Roger van der Weyden). Nei gruppi del M. tale composto di influenze trova un punto originale di fusione grazie alla sua potente vena narrativa, alla sua spiccata teatralità e a un inventivo realismo di catturante impatto psicologico, condito di una vena quasi popolaresca capace di attingere i succhi più vitali della cultura figurativa delle sacre rappresentazioni e delle immagini votive. Il più antico fra i gruppi plastici eseguiti dal M. dovrebbe essere il Compianto della chiesa di S. Maria degli Angeli a Busseto.
L’opera è databile tra il principio del 1476, subito a seguire la conclusione dei lavori di costruzione della chiesa, e la fine del 1477, essendo il gruppo ricordato nel testamento datato 16 genn. 1478 del marchese Gianludovico Pallavicini, responsabile dell’edificazione delle cappelle della chiesa. È plausibile, com’è stato più volte ipotizzato, che a quest’ultimo e al fratello Pallavicino si debba la commissione dell’opera del M. e che nelle figure laterali, raffiguranti Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, si possano riconoscere proprio i ritratti dei due marchesi, all’epoca all’incirca cinquantenni.
Di poco successivo, quasi certamente tra il 1477 e il 1479, è il Compianto oggi nella chiesa modenese di S. Giovanni Battista.
Il gruppo fu realizzato dal M. per l’oratorio dell’ospedale di S. Giovanni della Buona Morte, dove rimase sino al 1774, quando venne collocato sull’altare della cappella della Conforteria del palazzo comunale. Di lì fu trasferito nel 1854 nella sede attuale, subito dopo un restauro compiuto da Luigi Righi e Giovanni Tassi che fu molto criticato da Adolfo Venturi. Già nel 1509 il Compianto aveva subito un intervento di restauro e ridipintura da parte del pittore modenese Francesco Bianchi de Ferrari, come rende noto la Cronaca di Tomasino Bianchi de’ Lancillotti (p. 64), dove in data 5 nov. 1509 si trova segnalato che: «El sepolcro posto in Modena in l’ospedaletto dela compagnia dala Morte si è stato principiato da cunzare et dipingere circha 3 dì fa per le mane de M.ro Franc.co de Biancho Frare, el quale si è quello che fece misser Guido di Mazon alia Paganin circha 25 anni fa et se era alquanto guasto». La data suggerita da Bianchi (circa 1484) è stata rettificata attraverso i libri di spesa e amministrazione della Confraternita della Buona Morte, che stabiliscono un ante quem abbastanza sicuro, giacché il 5 dic. 1479 il vescovo di Modena, Niccolò Sandonnini, concedeva una bolla di indulgenze a chiunque avesse visitato il «sepolcro» (ossia il Compianto) presente nell’ospedale (Venturi, 1885, pp. 245 s.). La sequenza dei pagamenti permette altresì di dedurre che nel 1477 l’opera era già stata commissionata al Mazzoni. Peraltro il M. ricevette da parte della confraternita, fino al 1487, ulteriori pagamenti che dovettero essere legati ad aggiustamenti dell’allestimento del «sepolcro» e a interventi legati alla sua manutenzione.
All’inizio del nono decennio si può collocare l’impressionante Testa di vecchio, anch’essa in terracotta policroma, conservata alla Galleria Estense di Modena, che richiama da vicino il Nicodemo del Compianto di S. Giovanni Battista. È probabile che essa costituisca il frammento di un gruppo di analogo soggetto, oggi perduto, databile nello stesso giro di anni. Nella Madonna con Bambino della pieve di Guastalla, la cui datazione oscilla tra la seconda metà dell’ottavo e la fine del nono decennio, il M. si allontana per una volta dal tema del compianto e dalla sua tragica coralità.
La circostanza gli offrì l’opportunità di arricchire il suo bagaglio stilistico-espressivo, confrontandosi con le necessità della statua isolata nello spazio, posta frontalmente al riguardante devoto. Il M. esibisce qui un grado inconsueto di monumentalità e di calibratura volumetrica pur senza venir meno ai caratteristici accenti di flagrante realismo, immediata comunicatività e intenso vitalismo che ne rendono già pienamente idiomatico lo stile.
Si esprime sui toni di una devozionalità raccolta e familiare un altro capolavoro del M. estraneo ai terreni sicuri dei compianti: la Madonna con Bambino e donatori (detta anche Madonna Porrini o Madonna della Pappa), oggi nel duomo di Modena.
Databile intorno al 1485, il gruppo si trovava originariamente nella chiesa modenese di S. Cecilia, nella cappella di proprietà della famiglia Porrini. Nel 1539 l’opera fu trasferita nella chiesa di S. Margherita dove rimase sino alla sua soppressione, nel 1808. Tutte le figure furono allora portate nel palazzo di proprietà della famiglia Levizzani, erede del patronato Porrini e di lì, nel 1850, in duomo come donazione degli eredi Levizzani. In quell’occasione l’opera del M. fu sottoposta a un restauro, anch’esso molto criticato soprattutto relativamente alla policromia, giudicata eccessivamente realistica, e agli interventi di integrazione plastica. In quest’opera attentamente bilanciata molti tra i connotati più peculiari del M., l’energica possanza delle figure, il realismo estremo delle fisionomie e della gestualità, l’accentuazione dei caratteri, la spontanea e coinvolgente espressione degli affetti, trovano una concretizzazione di insuperabile efficacia, lasciando altresì spazio all’invenzione iconografica (tanto brillante quanto perspicua sotto i registri poetico, retorico e simbolico) della giovane serva che soffia sul cucchiaio di pappa destinata al Bambino.
Di poco precedente alla metà degli anni Ottanta è l’esecuzione del Compianto, oggi nella chiesa del Gesù di Ferrara, ma originariamente eseguito per la chiesa di S. Maria della Rosa, composto come di consueto di otto figure in terracotta dipinta.
L’opera rappresenta una testimonianza cruciale dei rapporti fra il M. e gli Este. Si fa esplicita allusione a essa, infatti, in una nota del 5 maggio 1485 (data che fissa il terminus ante quem per il suo compimento) destinata al sarto di corte e relativa a una regalia di tessuti da parte della duchessa Eleonora d’Aragona alla consorte del M., Pellegrina Agazzi: «A mastro Tomaxo da Napoli sarto dela Illustrissima madama nostra per le infrascritte caxoni: bracia cinque e mezzo di pano bigio fiorentino che la Illustrissima madama lo donava ala moiere de mastro Paganin da Modena dipintore che feze il sepolcro in Santa Maria dela Roxa per farse una camora a fiorini 2 il braccio: L. 33» (Verdon, 1978, pp. 247 s.). Il legame del Compianto con la famiglia estense viene ulteriormente rafforzato dal riconoscimento (proposto per la prima volta in Colasanti, pp. 458 s., e in seguito stabilmente accolto dagli studiosi) nei volti di mirabile verismo di Nicodemo e di una delle Marie dei ritratti di Ercole I e di Eleonora d’Aragona, che implica automaticamente la commissione al M. dell’opera da parte di questi ultimi.
Databile fra il 1485 e il 1489, il Compianto sul Cristo morto, di cui si conservano oggi quattro figure, frammentarie ma di altissimo livello, ai Musei civici di Padova, fu eseguito dal M. per la chiesa di S. Antonio in Castello a Venezia.
Un documento datato 22 apr. 1489 fornisce molte preziose indicazioni riguardo a quest’opera parzialmente perduta (Verdon, 1978, pp. 256-258). In esso si richiamano gli accordi definiti da un precedente contratto del 19 maggio 1485 sottoscritto dallo scultore e dal priore del monastero veneziano, nel quale il M. si impegnava a eseguire nel giro di due anni un gruppo composto di otto figure a grandezza naturale per un compenso di 600 ducati che gli sarebbero stati corrisposti nell’arco di quattro anni. Alla stesura di questo secondo documento il Compianto era già stato ultimato e messo in opera, con la totale soddisfazione del priore fra Giammaria da Venezia. Il M., avendo ricevuto sino a quel momento 310 ducati, dichiarava in caso di suo decesso di rinunciare, anche a nome degli eredi, alla cifra ancora spettante, lasciando 200 ducati al monastero a condizione che questo si impegnasse a porre accanto al gruppo scultoreo il suo arme e un epitaffio che serbasse memoria della sua donazione: «Azò che tute le persone che visiterà il dicto sepolchro habi modo et raxone per pregar Idio per l’anima sua et de li sui morti». L’opera dovette richiedere una lunga, seppur non ininterrotta, permanenza del M. a Venezia e si trova spesso ricordata e apprezzata nella letteratura periegetica dei secoli successivi. La soppressione napoleonica della chiesa, nel 1809-10, coinvolse in termini particolarmente drammatici il Compianto mazzoniano che fu in larga parte demolito. Nel 1869, dopo oltre mezzo secolo di silenzio riguardo alla sua sorte, la Commissione provinciale per la conservazione dei monumenti antichi recuperò quel che oggi si conserva nel Museo padovano.
Un documento datato 26 febbr. 1489 (ibid., p. 255) testimonia che il M. aveva da poco ricevuto 25 ducati d’oro dal banchiere Giuliano Gondi (il quale agiva da intermediario) per lasciare Modena e recarsi presso la corte aragonese di Napoli, dove effettivamente egli risulta già residente il 20 dicembre dello stesso anno (ma non prima del 10 maggio, quando è ancora documentato a Modena: ibid., pp. 259-269). Il M. si apprestò così a tornare a quello status di artista di corte già sperimentato nel suo rapporto professionale con la famiglia d’Este. I pagamenti ricevuti a Napoli, che si sono conservati, mostrano che il M. godeva della condizione di salariato (ibid., pp. 263, 265, 267 s.) e che fu impegnato in attività connesse alla produzione di immagini, tra cui certamente allestimenti effimeri (ibid., pp. 261, 264, 269). Ma soprattutto a Napoli il M. realizzò uno dei suoi massimi capolavori: il Compianto della chiesa di S. Anna dei Lombardi di Monteoliveto.
L’opera era quasi ultimata alla fine del 1492, come risulta da un atto del 27 dicembre secondo il quale il M. ricevette 50 ducati in attesa del saldo conclusivo, da riscuotere all’ormai prossimo compimento dei lavori (ibid., p. 270). Il duca di Calabria, futuro Alfonso II d’Aragona, che ne fu il committente, venne raffigurato nel gruppo plastico come Giuseppe d’Arimatea; mentre dalla parte opposta, nelle vesti di Nicodemo, fu probabilmente ritratto suo padre Ferdinando I d’Aragona. Nel «sepolcro» napoletano si fa strada l’inedita soluzione iconografica dello svenimento della Vergine che viene sorretta da una delle Marie, per la quale è presumibile che il M. abbia tratto spunto dalla celeberrima incisione mantegnesca con la Deposizione di Cristo nel sepolcro. Il Compianto di S. Anna dei Lombardi rappresenta in termini ideali il compimento di un ventennio di elaborazioni formali, iconografiche, espressive e comunicative. Esso si presenta come un esito di definitiva maturità sia dal punto di vista tecnico sia da quello stilistico, nel quale il M. esibisce una padronanza insuperabile nel trattamento della materia, nella descrizione realistica delle fisionomie, delle posture e degli affetti che agitano i personaggi del dramma, nella correlazione fra le singole figure, attentamente individualizzate, ma anche nella logica sottile che le sottopone all’effetto d’insieme e, infine, nella rielaborazione potentemente personale con cui si trovano combinate e sottoposte a una regia coerente suggestioni artistiche italiane e nordeuropee. Quest’opera del M. fu anche la sua più ammirata e celebrata nel corso del XVI secolo, guadagnando subito le lodi di umanisti napoletani come Francesco Caracciolo, Pietro Summonte, Giovanni Francesco (Giano) Anisio, e quelle di Pomponio Gaurico, Tomasino Bianchi, Giorgio Vasari e Sabba Castiglione.
Nel 1495 il M. seguì Carlo VIII (re di Francia e per brevissimo tempo re di Napoli) che tornava in Francia, per divenire colà il suo scultore di corte. Contestualmente il re, attraverso una lettera encomiastica, gli concesse la patente di nobiltà, nominandolo cavaliere (ibid., pp. 272-276). Nel 1498, però, Carlo VIII morì, appena ventottenne, nel castello di Amboise. Fu così che il suo monumento funebre nell’abbazia parigina di Saint-Denis finì per essere l’unica impresa che il M. avrebbe mai compiuto per lui.
L’opera, che andò distrutta nel 1793 nel corso dei moti rivoluzionari, doveva presentarsi ben diversa da tutto ciò che il M. aveva realizzato sino a quel momento, come si può giudicare in base alle riproduzioni grafiche e alle descrizioni letterarie. Solenne e sfarzosa, per merito dell’impiego di un’ampia varietà di materiali (marmo, bronzo, rame), offriva ai suoi spettatori una vivace policromia, grazie alla dipintura con lo smalto, e un’importante innovazione iconografica, raffigurando il re non defunto e nella posa di gisant, come voleva la tradizione, ma in ginocchio e con le mani giunte, vivo e a grandezza naturale.
Grazie a questo monumento molto ammirato il M. guadagnò un incarico analogo da parte del re d’Inghilterra Enrico VII, che gli commissionò la propria tomba nell’abbazia di Westminster.
L’opera non fu mai realizzata; ma si può presumere, alla luce della documentazione rimasta, che il M. avesse inviato a Londra un modello sulla base del quale venne redatto un articolato capitolato di spesa, in cui furono calcolati nel dettaglio tutti i costi per l’esecuzione del monumento (ibid., pp. 279-283). Stando ai documenti è lecito ritenere che le trattative debbano essere andate avanti dal 1499 al 1506, allorquando si trova registrato un ultimo compenso in favore del M., senza che peraltro il lavoro giungesse mai effettivamente in porto. La tomba di Enrico VII fu così realizzata dopo la morte del sovrano (avvenuta nel 1509) per volontà del suo successore Enrico VIII, che ne affidò la responsabilità a Pietro Torrigiano.
In Francia, dopo la morte di Carlo VIII e l’insediamento di Luigi XII, il M. mantenne la posizione di artista di corte, gratificato di un salario importante e di una dimora prestigiosa: ma sono ben poche le opere che egli eseguì sicuramente nel corso del suo lungo soggiorno francese. Gli si possono riferire con solidi argomenti solo il Monumento equestre del sovrano, che si trovava all’ingresso del castello di Blois, distrutto nel 1792 e in seguito sostituito con una copia realizzata nel 1857, ma soprattutto la responsabilità della decorazione in stile rinascimentale, alla maniera italiana, del castello di Gaillon presso Rouen, dove il M. si trova documentato il 25 apr. 1509 e il successivo 25 agosto (ibid., pp. 286 s.).
Il M. tornò a Modena nel 1515, in seguito alla morte di Luigi XII e all’insediamento a Parigi di Francesco I. Nella sua città natale, dove aveva conservato la casa e qualche investimento economico, dettò il proprio testamento l’8 luglio 1518 (ibid., pp. 292-298) e morì il 12 sett. 1518.
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