Vernani, Guido
Frate domenicano riminese, vissuto tra gli ultimi decenni del Duecento e la prima metà del Trecento. Dotto teologo, insegnò nel convento domenicano di Bologna ed ebbe una posizione di riguardo nel clero riminese. L'ultimo documento che lo nomina come vivente è del 20 gennaio 1344. Fu ardente difensore della potestas directa della Chiesa in temporalibus, come testimoniano tre delle sue opere: un commento alla bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII, un trattato De Potestate summi pontificis, e un libello polemico che riguarda direttamente la fortuna di D. nel Trecento: il De Reprobatione Monarchiae compositae a Dante, dedicato a Graziolo de' Bambaglioli (v.).
Due manoscritti ci hanno conservato il De Reprobatione: uno trecentesco, molto corretto, del British Museum (Additional 35225), e uno più tardo e più scorretto della Classense (codice n. 335). Quanto alla data di composizione, il De Reprobatione è da collocare tra il 1327, anno sicuro del De Potestate summi pontificis, nel De Reprobatione più volte citato, e il 1334, anno in cui venne bandito da Bologna Graziolo de' Bambaglioli, menzionato espressamente nella dedica come cancelliere di quel comune. Il De Reprobatione è dunque da porre in relazione certa con la condanna inflitta alla Monarchia dal cardinale Bertrando del Poggetto nel 1328.
Con linguaggio acerbamente polemico il trattatello si studia di sottolineare i molti errori nei quali sarebbe incorso D., tacciato d'ignoranza e di stupidità, bollato come perverso ed eretico: " iste homo copiosissime deliravit et, ponendo os in caelum, lingua eius transivit in terra ". La tesi generale del primo libro della Monarchia (la necessità, cioè, dell'Impero) è accettata dal V.; ma con violenza egli riprende alcune affermazioni particolari da lui attribuite all'Alighieri: lo " error pessimus " per cui " intellectus possibilis non potest actuari, idest perfici, nisi per totum genus humanum " con l'esplicita accusa di averroismo; l' " intolerabilis error " per cui " in substantiis intellectualibus quas nos angelos appellamus, idem est esse et intelligere "; l' " error " per cui si asserisce che il " finis unius hominis est alius et diversus a fine totius humani generis " (cfr. Mn I III 2), ecc. Ma D. avrebbe potuto rispondere che il V. gli attribuiva affermazioni che nel testo della Monarchia non esistono, ovvero che male aveva inteso il suo pensiero. Diversa la situazione per quanto riguarda il secondo libro, la cui tesi generale è assolutamente rifiutata dal V., ben saldo nel difendere l'interpretazione agostiniana della storia di Roma. Con " quaedam verba ampullosa " - dice il V. - D. promette " quod eum observare sua praesumptuosa ignorantia non permittit ", la tesi, cioè, che il popolo romano " de iure et non usurpative imperium acquisivit ".
Gli argomenti usati da D. vengono pertanto puntualmente confutati dal V., perché egli non vede nella storia romana la presenza di Dio. Ed egualmente insensibile al valore dimostrativo di certe argomentazioni di D., mosso da profonda sensibilità giuridica, il V. confuta anche l'ultimo argomento del secondo libro (si romanum Imperium de iure non fuit, peccatum Adae in Christo non fuit punitum, II XI 1), respingendolo come " vile et derisibile argumentum ". Anche del terzo libro il V. si studia di confutare la tesi generale che l'autorità dell'imperatore derivi direttamente da Dio; il che comporterebbe la totale indipendenza del potere temporale della Chiesa. Egli, difendendo invece la pienezza della potestas ecclesiastica in temporalibus, riafferma che " solus dominus Iesus Christus et nullus alius fuit verus monarcha ", e conclude: " Monarcha ergo mundi est summus pontifex Christianorum, generalis vicarius Iesu Christi ". Quanto alla distinzione dei due fini assegnati da Dio all'uomo, asserita da D. per assegnare all'indipendenza del potere imperiale un fondamento razionale, il V. recisamente si oppone all'idea che la beatitudine terrena sia il fine ultimo dell'uomo in questa vita, come è sostenuto in Mn III XV 6. Ma ancora una volta D. avrebbe potuto rispondere che il V. non aveva inteso bene il suo pensiero, assegnando ad ultimum un significato assoluto ed eccessivo.
Bibl. - Secondo la testimonianza di P.M. Domaneschi (De Rebus coenobii Cremonensis Ordinis Praedicatorum, ecc., Cremona 1767, 382) la prima edizione a stampa del De Reprobatione risalirebbe al 1741 (Roma, " apud Palearinios "); ma poiché tale edizione non si è mai trovata, dovremo riferirci, come prima stampa accessibile, all'edizione curata da T.A. Ricchini, con l'aiuto del codice Classense: Fr. Guidonis Vernani Ariminensis Ordinis Praedicatorum De potestate summi Pontificis et De reprobatione Monarchiae compositae a Dante Aligherio Florentino tractatus duo nunc primum in lucem editi, Bologna 1746 (la Reprobatio alle pp. 7-47). Un altro scadentissimo testo, accompagnato da una traduzione italiana, fu pubblicato ai primi di questo secolo da Jarro (G. Piccini), Firenze-Roma-Milano 1906. Fondamentale resta invece l'edizione curata da T. Käppeli, che giustamente si valse soprattutto del manoscritto londinese in " Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken " XXVIII (1937-1938) 107-146. Tale edizione è riprodotta anche da N. Matteini, in Il più antico oppositore politico di D.: Guido V. da Rimini, Padova 1958. Il commentario alla bolla Unam sanctam è stato edito da M. Grabmann, in Studien über den Einfluss der aristotelischen Philosophie auf die mittelalterlichen Theorien iiber das Verhältnis von Kirche und Staat, in " Sitzungsberichte der Bayerische Akademie der Wissenschaften. Philosophischhistorische Abteilung " 1934, 2, pp. 76-106. Si desidera una completa e approfondita analisi del De Reprobatione in rapporto al pensiero politico di D. e alla pubblicistica dei suoi tempi; per analisi parziali si veda, oltre al già citato studio del Grabmann, A. Meozzi, I trattati politici di G. V. e D.A., in " Giorn. d. " XXX (1927) 18-30; B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Milano-Genova 1930, 257 ss. (nuova ediz., Firenze 1967, 230-231, 233, 306, 307); D.A., Monarchia, a c. di G. Vinay, Firenze 1950, 16, 23, 46, 126; P. G. Ricci, Un difficile e importante passo della Monarchia, in " Studi d. " XLII (1965) 361-368.