GUIDUBALDO II Della Rovere, duca di Urbino
Primogenito del duca di Urbino Francesco Maria I e di Eleonora Gonzaga, nacque a Urbino il 2 apr. 1514; il 4 giugno 1516 giunse a Mantova, lì messo in salvo dal padre che, aggredito da Leone X, era ormai prossimo a essere spodestato.
Affidato alle cure educative del pesarese Guido Postumo de' Silvestri, G. trascorse l'infanzia a Mantova anche oltre la partenza della madre, alla quale, a informarla dei suoi progressi, così scriveva, il 16 ott. 1522, Felice da Sora: "egli sta, per Dio gratia, sano; questa septimana ha cominciato a legere o, per dir meglio, ad odire el primo de Vergilio". Lo si avviava al latino con la lettura del primo libro dell'Eneide e nel contempo era già iniziato all'equitazione se, nella stessa lettera, a Eleonora era raccomandato di non scordarsi "de provederli del fornimento del cavallo" di cui G. abbisognava. E intanto - a corollario di un servizio mediceo prospettato al padre - ventilata, per G., l'opportunità di un futuro accasamento con quella Caterina di Lorenzo de' Medici che sarà destinata a nozze ben più prestigiose.
Non vi era però più ragione - dopo che Francesco Maria Della Rovere si era saldamente riattestato nel Ducato usurpatogli - che l'erede rimanesse a Mantova. Sicché nel 1523 G. era alla corte roverasca - e più a Pesaro che a Urbino questa - a proseguirvi una formazione fatta di latino con l'aggiunta di un po' di greco, di nozioni storiche, di una spruzzatura di etica nonché di quotidiani esercizi fisici, specie di scherma ed equestri. E allorché, il 17 febbr. 1525, arrivò - diretta a Loreto - la nonna materna Isabella d'Este fu G. a farsele incontro fuori Pesaro per accoglierla e scortarla, come scriveva, il 18, il segretario della marchesa al figlio di questa, e zio materno di G., Federico Gonzaga.
Con la madre quindi, nel 1527, G. era a Venezia in un piacevole soggiorno che, interrotto in agosto da una puntata alle terme di Abano, dall'inizio di maggio si protrasse per quasi tutta l'estate. Seguì, l'11 apr. 1529, in occasione del rinnovo da parte della Serenissima della condotta paterna, la condotta, a decorrere dal 2 luglio, di G., a capo di 75 cavalieri pesanti oppure - a sua scelta - di 150 cavalleggeri con retribuzione di 1000 ducati annui più un contributo per 25 cavalli della sua stalla. Avvantaggiato G. dal risalto di Francesco Maria è alla volontà di onorare questi con "tuta casa sua" che, il 5 giugno dello stesso anno, G. dovette l'invito, peraltro indirizzato al padre, a far parte dell'appena costituita "compagnia di calza intitulata di Floridi" adunante i primi nobili giovani di Venezia in qualità non di semplice "compagno", ma di "patron e signor di cadauno" dei componenti.
Tutto impegnato Francesco Maria nel riordino del territorio veneto pensato in funzione della guerra difensiva, più assente che presente nel Ducato, non aveva modo di controllare e guidare i comportamenti di Guidubaldo. E questi - nel suo interessarsi a musiche e musicisti, nel suo adunare strumenti musicali, nel suo commissionare recite e organizzare spettacoli, nel suo collezionare orologi, nel divorante piacere di leggere le novità - da un lato dava sfogo alle proprie propensioni, dall'altro, con queste, tendeva a profilarsi diversamente e autonomamente rispetto al padre. Evidente, nel ritratto di lui diciottenne eseguito da Agnolo Bronzino, la determinazione a figurare per conto proprio. Una autovalorizzazione non certo assecondata da Francesco Maria che - lungi dal responsabilizzare il figlio con incarichi precisi o con il riconoscergli un suo spazio - pretendeva solo obbedienza. Sicché si sdegnava se, nel maggio del 1532, G. si portava a Venezia in incognito per l'annuale mostra militare; e vieppiù si adontò nell'apprendere che G., invaghitosi di Clarice Orsini - figlia di Gian Giordano e di Felice Della Rovere -, nutriva addirittura propositi matrimoniali al di fuori della sua approvazione. Li troncò con una lettera sin brutalmente minacciosa. Nozze indegne quelle con la figlia di un "pazzo" e di una bastarda (Felice era figlia naturale di Giulio II - prozio di G. - e in fama di essere fuori di senno il suo defunto marito), da vergognarsi al solo pensarle. Non avrebbe esitato a diseredarlo, a essere con lui il più terribile dei padri. E peggio della minaccia il disprezzo per G. che ne trasuda: "non avendo tu ancora potuto in alcuna parte onorar né exaltar casa tua" - sintomatico non ci sia alcun riconoscimento per la capacità organizzativa di G. in fatto di feste e spettacoli; poco cale a Francesco Maria G. si sia messo in contatto addirittura con L. Ariosto per averne una commedia inedita; né capiva Francesco Maria che la scelta di Bronzino, da parte di G., per il proprio ritratto è indicativa di una committenza tutt'altro che priva di personalità - evita "almeno di abassarla", con un accasamento così ignominioso. Per e pur di sventarlo così, esagerando ad arte, lo definisce Francesco Maria, deciso invece a fare sposare il figlio con la nemmeno decenne Giulia da Varano, unica figlia di Caterina Cibo e del duca di Camerino Giovanni Maria da Varano, scomparso ancora nel 1527. Appetibile come nuora la ancora bambina - poco gli importa sia nata il 24 marzo 1533; G. deve sposarla al più presto - per Francesco Maria, perché succeduta, sotto la tutela della madre, al padre. Indubbiamente conveniente - come spiegherà lo stesso Francesco Maria, il 18 ott. 1533, alla Serenissima - l'acquisizione, per via matrimoniale, di uno "stato" garantente "rendita assai bona" nonché "di popolo numeroso e armigero" e con Camerino "molto forte […] quasi nel mezzo della Marca".
G. si piegò ai voleri del padre, non senza, tuttavia, rispondendogli il 25 dic. 1532, fargli osservare, con pungente sarcasmo, che le nozze impostegli non erano, con il criterio dell'onore adottato a svalutare quelle con la Orsini, gran che meno disonoranti. Notoriamente amante - e già con "saputa" del consorte sinché vivo - di un fratello ecclesiastico di Giovanni Maria la futura suocera. È il cognato, insomma, il marito di fatto di Caterina Cibo. Ad esecuzione del contratto stipulato nell'ottobre del 1533, le nozze di G. con l'appena fanciulla Giulia da Varano furono celebrate il 12 ott. 1534. A G. toccò - per 4 anni - stare a Camerino, ove, costretto dall'angustia delle finanze locali a un tenore di vita modesto e sotto tono, salvo tornare a respirare d'estate quando, come sortito di "preggione", si rinfrancava con le musiche e le feste continue di Urbino. Scarsa, invece, come gli rimproverava il padre, si mostrava la sollecitudine di G. nell'adempimento del debito contratto con la ben pagata condotta veneziana.
Da un lato gli pesava la subordinazione ulteriore a Francesco Maria che la condotta comportava, dall'altro lo feriva la disistima per lui del padre che scrupolosamente evitava di associarlo in iniziative di rilievo, di responsabilizzarlo in qualche scenario con effettivo sentore bellico. Impossibilitato, per il momento, a grandeggiare con il mecenatismo, vagheggiava un allevamento di cavalli pregiati, non rinunciava alla committenza più selettiva, sicché si rivolse a Michelangelo per una saliera d'argento e un sigillo d'oro, volle fosse Tiziano - il rapporto con il quale fu una costante nella vita di G. che potrà vantare una collezione di dipinti tizianeschi tra le più ricche del tempo - a ritrarlo e a dipingere per lui quella "donna nuda" che sarà famosa come Venere d'Urbino. E intanto già guardata con occhio cupido Camerino da Paolo III, il quale - come si premurò di scrivere, ancora il 6 febbr. 1535, G. a Francesco Maria - a un inviato dalla cittadina aveva manifestato la propria opposizione alla possibilità di un suo assorbimento nell'ambito urbinate.
Dopo la morte del padre, del 20 ott. 1538, colpito G. - appena insediatosi il 26 - dal breve papale del 15 novembre privante lui e la moglie - bollati come ribelli - dello Stato di Camerino e minacciati con scomunica quanti, in questo, si fossero ostinati a prestargli obbedienza. Tentato a tutta prima G. a non cedere a un Paolo III che, accusandolo di "mal animo", pur vantando "la bona et sincera mente" propria, assicura che sarà "potente a castigarlo". Ma ben presto indotto a desistere dall'impuntarsi specie dalla madre, se, l'8 marzo 1539, Paolo III si compiacque, per iscritto, con lei sapendola lieta del rasserenamento in corso tra il figlio e la S. Sede. A succedere tranquillamente al padre necessitava la bolla di investitura pontificia del 27 aprile, previa la rinuncia a Camerino contraccambiata con 160.000 scudi e la promessa del cappello cardinalizio per il fratello minore Giulio che, nato nel 1533, avrà in effetti la porpora il 27 luglio 1547. Vassallo pontificio G., la ricondotta paterna del 18 marzo 1534 da parte della Serenissima contemplava, a mo' di corollario, anche la sua partecipazione. E, per riguardo alla memoria di Francesco Maria, conferita a G. il 20 marzo 1539, che, autorizzato il 26 dal papa, iniziò a servire la Serenissima in prima persona, non più ingombrato dalla sovrastante figura del padre. Sicché lo fece di buon grado. E, a sempre migliori condizioni (e giocava a suo vantaggio l'offerta francese della fine del 1541 - stando alla lettera del 29 dicembre del nunzio a Venezia Giorgio Andreassi al cardinale Alessandro Farnese - nella quale gli si proposero 10.000 ducati "pel suo piatto", 100 "huomini d'arme", 200 "cavai leggieri", 200 "fanti per la guardia di Pesaro" con promessa di protezione; e anche se la declinò, poté aumentare le sue pretese colla Serenissima), fu ricondotto nel dicembre del 1542 e di nuovo, il 17 giugno 1546. E in quest'ultima conferma lo si impegnava a servire con il prestigioso titolo di "governatore generale di tutte le genti da guerra" - ma si crucciò, ché voleva la qualifica già del padre di capitano generale - con l'onore dello stendardo e del bastone.
Doveva garantire la disponibilità in tempi di pace di 100 uomini d'arme e 100 cavalleggeri cui si aggiungeranno 200 cavalleggeri in tempi di guerra. Di 15.000 ducati annui il compenso più 5000 per il "piatto dell'eccellenza soa" nonché - in caso di guerra - altri 10.000 ducati e 70 tasse mensili per stalla. Non meramente nominali queste condotte di G. comportanti periodi di residenza a Venezia e a Padova (e qui, nel 1545, prese stanza nella "regia casa" di Giovanni Corner Piscopia, il genero di Alvise Corner, avendo presso di sé l'Aretino) e più ancora a Verona con funzioni ispettive e direttive assolte con scrupolo e competenza, come attesta - in merito alle fortificazioni friulane da lui ispezionate, nel 1543, con Michele Sanmicheli - il relativo Parere (Udine 1859) nel quale la sua valutazione si differenzia in più parti da quella dell'architetto veronese. Se, nell'aprile del 1545 quando rivedeva città e fortezze della terraferma veneta, i deputati di Verona lo omaggiarono, ciò significa che godeva di un certo prestigio. E lo si evince anche dal fatto che - transitando nel 1543 Carlo V per Peschiera - è G., con quattro patrizi veneti e con Aretino costantemente al suo fianco, a riverire l'illustre ospite. Forse quel complesso di inferiorità misto a timore e rancore che aveva reso difficili i rapporti con suo padre non aveva più ragion d'essere. E, comunque, di quello non c'è traccia nel dialogo di Antonio Brucioli Del capitanio, ove G. e il padre sono interlocutori e il primo chiede e il secondo risponde. E con l'andar degli anni ci deve essere, da parte di G., un riaccostamento alla figura paterna se - come osserva nel 1571 l'ambasciatore veneto Lazzaro Mocenigo - G., che "è molto intelligente delle cose di guerra" (un intendimento donde stimola Federico Commandino, entrato al suo servizio alla fine degli anni '40 e al suo seguito quando era nel Veneto, alla matematica applicata; e, grato, Commandino, nel dedicargli l'edizione bolognese da lui curata delle Coniche di Apollonio, del 1566, lo dice padrone dell'arte militare), in queste si avvale non solo del giudizio proprio, ma pure di ricordi e scritture del padre, dalla riflessione sui quali "è molto aiutato".
Indicativo, altresì, che, nel predisporre l'offensiva antiottomana e sin scontato in questa il ruolo di Giovanni d'Austria, ritenendosi opportuno affiancarlo con un collega, si faccia, nella corte madrilena, anche il nome di Guidubaldo. Un minimo di credito evidentemente ce lo aveva, anche se la candidatura fu lasciata cadere perché - come scriveva, il 18 sett. 1570, l'ambasciatore veneto Leonardo Donà - "non è tenuto per soldato". G., infatti, al contrario di Francesco Maria, non diresse mai operazioni in un conflitto, mai combatté in battaglia. E se il padre fu duca intermittente e spesso soldato a tempo pieno, egli di contro fu soprattutto duca, e in ciò impegnato a fortificare di una nuova cinta Senigallia, a proseguire le fortificazioni a Pesaro, ad avviarvi il baluardo del porto - al governo di uno Stato parte montuoso, parte pianeggiante e vallivo, "con pianure e colli dilettevoli", con "terreni molto fertili d'ogni qualità di grani", dall'"aere buono e salutare", giusta la sintetica descrizione, del 1547, dell'inviato veneziano Federico Badoer, in "buona parte" - aggiungerà nel 1571 Lazzaro Mocenigo - "posto alla marina" adriatica. Sette, nel Ducato, i centri vescovili - e altrettante, per questo, le città - e 52 le terre fortificate, mentre i villaggi oltre 200. Di poco superiore ai 100.000 abitanti la popolazione, di cui circa 20.000 a Urbino, 15.000 a Pesaro, almeno 30.000 tra Senigallia (e paventato Paolo III voglia "ad ogni modo far l'impresa di Sinigaglia" contro G., come scriveva, il 7 maggio 1541, il nunzio a Venezia Giorgio Andreassi ad Alessandro Farnese), Gubbio, Cagli, Fossombrone, San Leo, Casteldurante e gli altri sparsi nel contado e nei borghi. G. - già ritratto da Tiziano, suo ospite, con il figlio Orazio, nel settembre del 1545, prima di raggiungere, il 9 ottobre, Roma - agli occhi di Badoer, appariva, quando era sui 33 anni, piuttosto basso di statura, piuttosto tozzo, sano, robusto, "forte e destro" negli esercizi corporali, abitudinario nel comportamento e formalmente religioso e, nell'ortodossia più tranquilla (sarà a sua totale insaputa che il suo segretario a Venezia Gian Francesco Agatone darà ricetto in casa sua a un "redutto d'heretici" come lamenterà, il 12 giugno 1574, il cardinale Scipione Rebiba, presidente dell'Inquisizione romana, in una lettera al nunzio a Venezia Giovan Battista Castagna).
Tutte eguali le sue giornate: iniziano con la messa; proseguono coll'ispezione alle "stalle de' cavalli", quindi una passeggiata premiata dalla colazione; dopo di che "ragiona", visita l'armeria, si intrattiene al gioco della palla con l'archetto; si concede quindi una cavalcata e poi, "negozia", si occupa delle faccende di governo e a fine giornata la cena preceduta da qualche lettura. Passa per ponderato, per prudente, prima di decidere suole consultarsi con i pochi che ritiene capaci di consigliare saggiamente. E, una volta da lui deciso, una volta chiara la risoluzione, non tollera indugi nell'esecuzione. La pretende immediata. Se così non avviene, si adira. Non è, per temperamento, uomo allegro. Facile a incupirsi, stenta a sorridere. "Desiderosissimo" d'onore, su di questo disegna i propri comportamenti, con questo misura i personaggi antichi e moderni. Un'ottica e sinanco un'etica che lo spinge a puntigliosamente chiedersi "qual sia l'officio del buon capitano". Brucioli, allora, era stato verosimile nel farlo dialogare in proposito con il padre. Su quel che, invece, sia l'ufficio del principe G. non s'interroga. Evidentemente - proclamandosi "virtutis amantissimo" - è convinto di saperlo. E l'identifica con il diritto e dovere a tener alto l'"onore". Ma l'onore nella misura in cui costringe a figurare degnamente, imbalsama G. in una contegnosità sussiegosa. Non può essere alla mano, affabile. Non può abbandonarsi a confidenze né tollerarle. È sempre sostenuto, irrigidito, impettito. Artificioso "nel suo parlare", quasi debba apparire eloquente, sentenzioso, quasi debba pronunciare detti memorabili, da tramandare ai posteri. Ciò per ben figurare. Ma con quelli della corte (stando a un registro di spese del 1545, i salariati della "famiglia" roveresca a Pesaro erano circa 158; e 20, tra questi, gli ufficiali, 11 gli staffieri, 12 gli addetti a camera e persona, 23 gli addetti alla cucina, 65, tra stallieri, cocchieri e mulattieri, quelli addetti alla stalla; e stipendiato pure l'architetto Girolamo Genga, al servizio di G., come già di suo padre, sino alla morte, nel 1551), con i cortigiani, con i domestici solo "ragionamenti" dettati dalla necessità, solo ordini come dall'alto di un'"alterezza" chiusa in se stessa, gelida e raggelante.
Questa, almeno, l'impressione di Badoer, spedito da palazzo ducale - e qui l'alterezza non è una virtù personale, anzi è una colpa - a condolersi, a nome della Repubblica, con G., per la morte, a Fossombrone, del 18 febbr. 1547, della giovane moglie Giulia da Varano, che gli aveva dato un figlio morto ancora infante e una figlia, Virginia (1544-71; sposerà nel 1560 Federico Borromeo, nipote di Pio IV e, vedova di questo, nel 1568, il duca di Gravina Ferdinando Orsini). Sino a che punto G. - al quale durante questo suo primo matrimonio nacquero due figlie naturali, Felice che si mariterà con Guidobaldo Del Monte e Camilla che si accaserà con il conte Antonio Landriani e, morto questi, con Pier Antonio Lunati - soffrisse del lutto Badoer non se lo chiede. Nota, piuttosto, che i 10.000 scudi spesi per le esequie della moglie erano tanti, forse troppi per le forze finanziarie del duca. Funzionali le dispendiosissime esequie a un'enfatizzazione del dolore del vedovo che ben poco tale rimase se già il 1° giugno si impegnò a nuove nozze con Vittoria Farnese, nipote di Paolo III e figlia del Pierluigi già collocato dal papa nel Ducato di Camerino sottratto a Guidubaldo. Celebrate per procura, il 29, le nozze a Roma, rispetto a tanta velocità il resto seguì un po' a rilento se solo il 30 genn. 1548 - dopo il trionfale ingresso nel Ducato e il transito per Gubbio e Cagli - la sposa (la cui dote è sugli 80.000 scudi: 60.000 da versarsi in due rate e il resto in gioielli) giunse a Urbino, accolta da G. con grandi apparati. Seguì, esaltata da archi trionfali, il 31 maggio, l'entrata della nuova duchessa a Pesaro. E qui, il 20 febbr. 1549, nacque l'erede Francesco Maria. E dopo di lui videro la luce Isabella (1554-1619), sposa, nel 1565, del principe di Bisignano Niccolò Bernardino Sanseverino, e Lavinia (1559-1638) moglie, nel 1583, del marchese del Vasto Alfonso d'Avalos.
Nominato, il 10 apr. 1550, da Giulio III governatore di Fano, G. continuò a servire la Serenissima. A Verona da metà ottobre a dicembre, dopo la licenza trascorsa a Pesaro, il 9 giugno 1551 fu ricondotto alle condizioni antecedenti, non senza che - circolando la voce i Francesi lo vogliono "lor generale in Italia" - egli ne approfitti per tentare, come informa il nunzio Beccadelli il 10 sett. 1552, di elevare il prestigio del servizio con la qualificante timbratura del generalato. Un'innovazione della condotta in corso che suscitò perplessità e irritazione nei confronti di G., il quale da un lato fece presente che l'impegno gli pesava, dall'altro insistette per la promozione a capitano generale. Sorda a questa richiesta, e sensibile, invece, alla manifestata esigenza "che sua eccellenza se ne possa stare a casa sua in libertà" - così, il 9 nov. 1552, il residente urbinate Giovan Giacomo Leonardi - la Repubblica sciolse il rapporto. Ma non in termini di brusco licenziamento, bensì di comprensione per quel che G. pareva soprattutto desiderare: più stare che andare. Una soluzione consensuale, insomma, non una rottura. E senza strascico di rancori: tant'è che - nel giugno del 1564, in occasione dell'arrivo a Venezia di G. con il figlio e il fratello cardinale - un "teatro del mondo" galleggiò in suo onore, dall'11 al 14, in bacino S. Marco. Sempre lieto G. di far, "per spasso", qualche puntata a Venezia, come quella, dell'ottobre del 1566, di una quindicina di giorni. Designato, in compenso, con bolla papale del 28 febbr. 1553, G. capitano generale della Chiesa, senza obiezioni da parte della Serenissima, laddove, invece, vivo era il disappunto francese. E se, nel 1555, fu Giovanni Carafa a subentrargli in questa carica, gli restava quella di prefetto di Roma, assunta il 19 giugno. La scoperta congiura, del 1550, di Antonio Passeri - un gentiluomo pesarese che tramava l'eliminazione di G. e la conseguente fagocitazione del Ducato da parte dello Stato pontificio - era ben stata un segnale inquietante. Sempre a rischio lo Stato vassallo, sempre sotto tiro. Un'insicurezza di fondo, non tacitata con l'eliminazione del traditore. E nell'allentarsi del legame con la Serenissima - che sottintendeva la sua autorevole protezione - G. si accostò vieppiù a Roma. Ma era strutturale, rispetto a questa, la sua debolezza, anche se - effetto di ricaduta delle sue seconde nozze -, rispetto al titolo ducale conferito per tre generazioni, il 23 ag. 1474, a Federico da Montefeltro, precluso nelle successive formule di investitura di Sisto IV e Adriano VI alla facoltà di subinfeudazione, la bolla del 27 apr. 1548 conferì al titolo una portata più ampia: fu esteso a tutto il territorio dello Stato a vantaggio pure della discendenza maschile; e vietata la subinfeudazione soltanto nei confronti di principi stranieri e di personalità più potenti del duca.
Il G. rimaneva bisognoso di una protezione autorevole esterna rispetto alla S. Sede. Fu benvenuto, allora, il conferimento, da parte di Filippo II, del 4 dic. 1558, della carica (già detenuta da Giovanni Vincenzo di Capua) di capitano generale delle genti d'arme napoletane comportante una compagnia di questo nel Regno e una di "celate" nel Ducato. Non che dovesse far conto sicuro sui 12.000 scudi annui della promessa retribuzione - pessima pagatrice la Spagna -, ma poteva, in compenso, sentirsi garantito con questo cambio di casacca, per il quale soprattutto si adoperò il duca d'Alba Fernando Álvarez de Toledo (il viceré di Napoli che non esitò a muovere contro Paolo IV) e del quale fu intermediario Cosimo de' Medici, rispetto a quella veneziana. E, decorato, ancora il 14 sett. 1557, dell'ispanico Toson d'oro, un po' può pavoneggiarsi. E con il suo situarsi nel quadro della Corona di Spagna G. - pesantemente condizionato nella politica interna nella misura in cui tante sue decisioni dovevano sottostare all'approvazione romana; e, a ogni buon conto, egli stesso, prima di decidere, chiedeva il relativo permesso - faceva, in certo qual modo, della politica estera che un po' alleggerisse l'onere dell'ubbidienza a ogni pontefice. Un po' meno vassallo della Chiesa G., nel dichiararsi servidor del re di Spagna.
Sul versante della gestione dello Stato non pare attribuibile a G. un sistematico disegno d'assieme. Da registrare piuttosto provvedimenti in più direzioni all'insegna di una empiria ora dettata dal buon senso ora suggerita da orgoglio signorile, da un'altra concezione di sé e del proprio onore, fermo restando che questo secondo aspetto è una costante esplicitata anche nel primo caso. Per cui G. è per autodefinizione e per definizione dei sudditi "prencipe prudentissimo giustissimo et ottimo" - conseguentemente "per una lingua", per voce unanime, da tutti i suoi "popoli chiamato padre dei suoi soggetti" - come recita il proemio dei capitoli, del 9 sett. 1555 dell'arte della lana a Urbino, materialmente redatti dal senese Antonio Capacci imposto da G. quale sovrintendente al Comune della città.
Con perentorio interventismo G. dispose che la produzione fosse locale, essendo disdicevole che la capitale del Ducato l'acquistasse da altri centri dello Stato o da città straniere. Trasformati, così, d'un tratto, i mercanti di lana urbinati - tenuti in sei mesi a smaltire le giacenze di magazzino - in imprenditori della lavorazione in proprio, ricorrendo, all'occorrenza, anche a manodopera forestiera. E riserbato, nel contempo, ai mercanti fattisi produttori il diritto esclusivo di vendita in città dei panni, laddove al contado era fatto obbligo a far riferimento - per la collocazione della lana filata, del guado e di altri coloranti - esclusivamente a Urbino. E volendo lavorare, tenuti i contadini a venire nella città a impiegarvisi nella fabbricazione di panni, "rascie", "saie"; concessa a quanti si ostinassero a lavorare nei loro castelli solo la lavorazione di "panni bassi". E, una volta ottenuta da Pio IV, con bolla del 9 marzo 1564, facoltà, per il Collegio urbinate dei dottori, di laureare, G. ne approfittò per decretare, nel 1565, l'obbligo, per i sudditi aspiranti alla laurea, di conseguirla a Urbino, ancorché la parvenza universitaria vi fosse fantasmatica; e vigente, naturalmente, il divieto di laurearsi altrove. Propenso G. a imbrigliare i comportamenti; sicché, nel 1561, non gli bastò fissare in quattro classi la cittadinanza eugubina; concesse soltanto alla prima, quella dei nobili, abbigliamento con stoffe preziose e uso dei gioielli. Trovava inoltre preoccupante l'allargarsi, con le donazioni testamentarie, della proprietà ecclesiastica e depauperanti, per il Fisco, le esenzioni fiscali di cui il clero godeva. G. cercò di contrastare e quello e queste. Ma dovette al consenso, del 1562, di Pio IV, il papa che il 14 febbr. 1561 lo fece cavaliere della milizia aurata, se poté procedere alla tassazione dei beni degli ecclesiastici di Gubbio in via di crescita sin vistosa.
Oscillante l'atteggiamento di G. nei confronti degli ebrei; strattonato dalle esigenze dell'economia locale e dagli ordini della Chiesa, sembra procedere contraddittoriamente quasi barcollando ora pencolando ora accodandosi alla persecuzione romana e, insieme, ai rancori locali. Del 20 ott. 1548 un suo bando che proibiva agli ebrei di Pesaro il prestito a interesse. Del 6 nov. 1549 un altro suo bando favorevole agli ebrei di Urbino. E tuttavia l'11 nov. 1553 decretò la confisca e la distruzione dei testi talmudici. Poi, nel 1555, quando Paolo IV cacciò gli ebrei da Ancona, fu a Pesaro che parecchi di loro ripararono un minimo protetti da Guidubaldo. Però questo era lo stesso che, il 6 ott. 1570, avrebbe emesso un bando contro la coabitazione per colpa della quale "una entrata medesima" era occasione di conversazione e di familiarità tra "ebrei et cristiani". E fu ancora G. che, il 16 ag. 1571, espulse gli ebrei immigrati "da tre o quattro anni in qua". Così si piegò alle insistenze di Pio V. Ma di tanta pieghevolezza un po' dovette vergognarsi - e senz'altro gli dovette dispiacere espellere, nel 1558 coi marrani, Amato Lusitano che, peraltro, lo celebrò l'anno dopo come principe giusto; e si dimostrò benevolo con i medici ebrei a più riprese -, se motivò l'espulsione quale sollecitudine di buon principe per i propri sudditi, cui la concorrenza ebraica avrebbe tolto "il pane di mano". E, forse, per non continuare a intimamente vergognarsi, di lì a poco, il 1° ottobre, vietò alla popolazione ingiurie e molestie agli ebrei. Troppo ricattabile da Roma, a ogni modo, G. - per cui se disattesa a Pesaro la bolla, del 1566, di Pio V Romanus pontifex, dal momento che gli ebrei non vi vivevano in luogo separato e non vi erano costretti ai berretti distintivi, ecco che, ciò denunciato dal visitatore apostolico Girolamo Ragazzoni, G. si affrettò, con bando del 12 maggio 1574, a prendersela con l'"insolenza degli ebrei" e a imporre loro "il segno giallo" - per decidere in reale autonomia. Era troppo congenitamente subalterno per non essere facilmente intimidibile, anche se - lungo il suo governo - la consistenza della milizia ducale sale dai 6000 uomini riscontrabili nel primo '500, a 10-12.000 comandati da una sorta di stato maggiore formato da quattro colonnelli. Ma, al di là di questo - sino a un certo punto a lui imputabile ché la ricattabilità e l'intimidibilità sono connotati permanenti del suo stato, tratti costitutivi persistenti da G. ereditati e da G. trasmessi -, quel che, piuttosto, a G. va addebitata è la sindrome dell'"onore", sin paralizzante a impostare lucidamente un meditato e lungimirante programma di buon governo o, per lo meno, di governo efficiente. Ma alle faccende di Stato G. più che tanto non si dedicava.
Ancora ragazzo vuole un'armatura da parata. E ancora da quando è duca di Camerino sta dietro a Tiziano, lo tallona dappresso perché dipinga per lui, anche se l'artista si fa sempre più caro, anche se tende - pur assicurando che quanto gli fa arrivare è, almeno parzialmente, "di mano soa", profondendosi in autenticazioni di autografia - a rifilargli dipinti di bottega, come capita, nel 1573, con la Madonna della Misericordia richiesta da Guidubaldo. In compenso è tutto di mano di F. Barocci "un quadretto da camera", con la Vergine che, nella fuga in Egitto, si riposa, da G. commissionato. E protetto da G. il pittore Timoteo Viti; utilizzato da G. lo scultore Tiziano Aspetti detto Minio. Merito precipuo di G. è avere costretto Michelangelo a ultimare la tomba monumentale di Giulio II, sia pure con la rinuncia a che tre statue (in compenso aumentate a quattro) delle sei strapagate anni prima in anticipo allo scultore siano da questo personalmente eseguite. È firmato da G., il 6 marzo 1542, il permesso del ricorso ad altro artista. Ma così sbloccata l'inadempienza di Michelangelo vincolato, altresì, a sorvegliare l'altrui lavoro. È nella committenza che G. focalizza la propria personalità. Animato dal "fare di quelle cose" che "ha sempre desiderato", attira artisti, recluta musici, va a caccia di strumenti, promuove musiche e spettacoli, feste e apparati, recite e messe in scena. Propulsiva la consapevolezza che l'incoraggiamento e la protezione di arti e lettere fanno lievitare la sua immagine, la proiettano ben oltre il peso specifico e il peso relativo cui - nel mero terreno dei rapporti di forza politici economici militari - è, altrimenti, inchiodato. Piccolo, piccolissimo G. e in secondo piano nella scena tutta ingombrata dal protagonismo di papi e sovrani. Ma non tanto minuscolo e, quanto meno anch'egli in primo piano in virtù di una surrogatoria visibilità che, culturalmente, è tra le prime della penisola. La committenza artistica e musicale solleva G. agli occhi dei contemporanei. Gli fanno da piedestallo le tante dediche in opere a stampa (di Aretino, di Francesco Sansovino, di Sperone Speroni) e manoscritte (di Annibale Romei, di Gian Giacomo Leonardi, di Pietro Caetano) i tanti versi a lui indirizzati, gli elogi a lui rivolti, le orazioni al suo cospetto pronunciate. Addirittura, nel prologo dell'Orazia d'Aretino, è la Fama a lodare G. e sin conteso e disputato l'onore dei suoi favori, al punto che Anton Francesco Doni - proprio perché li avverte intercettati da Aretino - con questo rompe clamorosamente. "Idol mio", G. per Aretino, deciso a non spartirlo con altri. "Qual più fido albergo oggi è tra noi?". Così la domanda retorica di un giovanile sonetto di Torquato Tasso che non ancora ventenne a G. dedica Il Gierusalemme, primissimo abbozzo del suo capolavoro ove ha modo di asserire che la "quercia d'auro", sua protettrice, è "spiegata a trionfar per l'Asia intorno" e che il "gran Nilo" si inchina "al bel Metauro". Scontata la risposta: il "nido" ai raminghi lo offre la corte roverasca. Già cantata da suo padre Bernardo in un'ode a G. la "cortesia" che l'ha accolto "cacciato". Per oltre due anni, dall'ottobre del 1556 a tutto il 1558, Bernardo Tasso è signorilmente ospitato a Pesaro. Con agio vi ha finito l'Amadigi sottoponendo a G. "le stanze" concernenti la "reputazion" sua e "de' suoi". Prestato il nome di G. a un valoroso capitano che figura nel poema. Questo l'autore lo stamperà a Venezia, sempre memore di come, sballottato "nelle tempeste" della più dura "calamità", è stato "nel tranquillo porto raccolto dalla liberalità e magnanimità" di Guidubaldo. È in atto - non senza enfatizzazione mitizzante; ma è ben per questo che G. gode, nella penisola, di una nomea ulteriore rispetto al suo consistere di duca con modesto Ducato - la celebrazione della "gran quercia d'oro" elargente "alimento, ombra e ristoro" alle "anime belle e di virtute amiche". Così Dionigi Atanagi, per il quale G. è il "signor placido e benigno". Sotto il suo regno fioriscono "le buone arti" e "i nobili costumi", sono valorizzati "senno, fede e valor", muore "il vizio" e la "virtù" splende. Esagerazioni incensatorie di un cortigiano turibolante, che peraltro preferirà di lì a poco trasferirsi a Venezia. Tuttavia non cestinabili nella misura in cui documentano come - agli occhi di una intellettualità ondivaga e infelice o, quanto meno, per tale lamentantesi - G. appaia appiglio salvifico, approdo sicuro, ancoraggio rasserenante. G. ai letterati - nell'accezione di gentiluomini coltivanti le lettere e, pure, di uomini di lettere con tratti da gentiluomo - è venuto incontro effettivamente. E a quelli in difficoltà, in angustie ha dato una mano. E i 50 scudi annui a Torquato Tasso studente a Bologna non sono certo spiaciuti. E il gruppo intellettuale - Girolamo Muzio precettore dell'erede; Antonio Gallo; Giosico Netta; Vincenzo Bartoli; Lodovico Corradi; Federico Commandino; Paolo Animuccia maestro di cappella; Pietro Bonaventura; Paolo Casale; Felice Paciotto; Marco Montano; Bernardo Cappello - stazionato a corte più o meno a lungo non risulta insoddisfatto. Da chiedersi, invece, se ciò vale anche per i sudditi, per quanti hanno avuto la fortuna - se si bada ai versi di Atanagi - di nascere nel Ducato e di vivere durante il governo di Guidubaldo. Di questo è senz'altro scontenta Urbino, che da G., che la usa come dimora solo estiva, si sente e trascurata e fiscalmente pressata. G. non è peraltro dimentico del palazzo ducale: ultimata, per lo meno, sotto di lui la sopraelevazione verso il prospetto orientale; e vari gli interventi dello scultore e stuccatore Federico Brandani specie nella decorazione del sacello presso lo studiolo divenuto cappella di G. e della stanza dell'appartamento degli ospiti in seguito chiamata, per via del soggiorno di Giacomo Stuart, stanza del re d'Inghilterra. Tant'è che gli Urbinati chiamano G. "Guidobaldaccio". Essendo egli "povero" e del pari "poveri noi" abitanti d'Urbino - così riassume la situazione un notabile locale processato per ribellione - "stavamo male insieme"; noi "avevamo bisogno di un principe che avesse bisogno delle persone, non delle ricchezze" come Guidubaldo. Età aurea, nelle affabulazioni della memoria locale, quella federiciana. "Al tempo del duca Federico si trionfava", si esultava, "perché era ricco". In effetti il duca feltresco, strapagato uomo d'armi, poteva permettersi di non calcare troppo la leva fiscale.
Se ad Urbino l'antipatia per G. cresceva, non così avveniva a Pesaro, dove lo si chiamava "padre della patria". Laddove a Urbino a un certo punto diminuì la cura per la stessa manutenzione del palazzo e la vita intellettuale si accontentava del costituirsi della locale Accademia degli Assorditi, Pesaro, sotto G. e anche grazie a G. che decisamente, serbandole le funzioni di nuova capitale già assegnatole dal padre, la privilegiava, fioriva: configurata esagonalmente dalle mura, vi aumentavano le attività, vi ferveva l'edilizia, vi sorgevano chiese e palazzi, il porto aveva una vita promettente, e l'attorniavano ville teatro di amene villeggiature della nobiltà locale con frequenti trattenimenti musicali. E ridondava a beneficio della città tutta la presenza della corte, non solo a palazzo ducale, ma pure alla villa imperiale, sede di vita mondana e di soggiorni, anche invernali, di G. - a villa Miralfiore acquistata da G. e fatta restaurare da Filippo Terzi, l'interprete della politica urbanistica di G. a Pesaro. Se G. spendeva più di quanto la situazione di cassa concedesse, erano peraltro spese di cui Silvestro Gozzolini, in un Discorso del 1559-64 circa sottolineava la funzione, per Pesaro, positiva.
Sin rigogliosa, per Gozzolini, Pesaro è: "piacevole e bella", c'è il "foro"; ci sono "offici"; ci son "mercadanti"; c'è il "monte da prestare"; ci sono "i banchi hebrei", la "pescaria", la "zecca"; bisettimanale il mercato; ci sono "fondachi, merci et artefici"; c'è la "scala del mare"; ma anzitutto, "primieramente" vanta "il palagio e la corte ducale", la quale "tira il denaro a sé da tutto lo stato"; e si deve aggiungere che, specie nel 1555-59, è attiva la tipografia; si intensifica la produzione ceramistica, abbellita dall'impulso dato da G. alla maiolica istoriata. Non così altrove, dove si avverte come vessatorio l'accentuarsi della pressione fiscale. Lungi da Pesaro G. non è il principe benvoluto per il suo paterno governo, ma il duca esoso nelle inasprite sue pretese contributive. Durante il suo governo - per esempio - l'entrata camerale eugubina sale da 3500 scudi annui a 6000. Naturalmente anche Pesaro subisce imposizioni, dazi, prelievi. Solo che se G. - confortato dal consenso dell'aprile del 1552 di Giulio III - esige due bolognini per ogni collo di mercanzia in entrata e in uscita, la città non protesta: comprende che il ricavato servirà alla costosa manutenzione del porto.
Preoccupante, nel 1571, la situazione delle finanze ducali: le entrate annue ammontavano a 45.690 scudi e le uscite a 54.290 scudi; di 8600 scudi il disavanzo annuo. Né alleggeriva l'esposizione debitoria la rendita annua di 10.000 scudi che competeva alla nuora di G., Lucrezia d'Este entrata solennemente a Pesaro il 9 genn. 1571. Non era una spesa accantonabile, rimandabile. L'"onore" gli imponeva - se non altro a sgravio di "coscienza" - di onorare, appunto, i debiti, di "non far patire più tanti creditori". Ne conseguiva, per i "buoni sudditi", così a essi si rivolse G. il 28 sett. 1572, il "debito" e l'"obbligo" di "aiutare nei bisogni i loro padroni". Forte delle larghissime facoltà impositive concessegli, ancora nel 1562, da Pio IV, G. fece piombare su tutto il territorio, il 28 sett. 1572, la perentoria imposizione del dazio di due bolognini per ogni soma di vino di due "barili", di un grosso per ogni staio di grano, di un quattrino per ogni libbra di carne salata venduta, di un giulio per ogni maiale esportato, di uno scudo per ogni bestia grossa. Puniti, nel decreto, i trasgressori con il pagamento del doppio della gabella dovuta, con il sequestro della merce, con la multa di 25 scudi da destinarsi metà alla Camera, un quarto all'accusatore - con il che il decreto incentiva la delazione - e un quarto all'esecutore. Il provvedimento, tassante generi di largo consumo quali il grano, il vino, la carne salata, i bovini e i suini, calò sui sudditi come un'improvvisa grandinata.
La costernazione fu generale. E differenziata la reazione, pur nello scontento di tutti, più forte all'interno del Ducato che nei centri costieri. Pesaro subisce anzi: vi è chi - come il gentiluomo e letterato pesarese Ludovico Agostini, che pure, nel 1560-62, è stato personalmente danneggiato dalla requisizione di frantoi con cui G. aveva impoverito la sua famiglia - caldeggia la severità nella punizione della disobbedienza. Gubbio mugugna rassegnata. Urbino, ferita nei suoi commerci, protesta a gran voce per l'offensivo spregio dei privilegi a suo tempo concessi al Comune e ratificati dallo stesso Guidubaldo. Il municipalismo alza la testa contro il duca dispotico. Il particolarismo si oppone alla logica uniformante di un accentramento appiattente. Contro il parere del luogotenente Niccolò Tenaglia (che, nativo di Fossombrone, d'un tratto è percepito come elemento estraneo), il 26 dicembre il Consiglio cittadino elegge una delegazione di 40 nobili che protesti direttamente con Gregorio XIII. Ma non si osa scavalcare immediatamente il duca. Sicché la rappresentanza, il 27, si porta a Pesaro a sottoporgli le rimostranze di per sé indirizzate al pontefice.
G. si riservò di decidere e, intanto, inviò in tutta fretta a Urbino il conte di Montebello Antonio Stati a pubblicarvi un editto di momentanea sospensione del decreto del 28 settembre. Quel che paventava era il dilagare della protesta. Mirava perciò a circoscriverla a Urbino, sicché, anziché capeggiare una disobbedienza generalizzata, fosse in questa isolata. Diffidente Urbino della dicitura "dazi sospesi". Li voleva aboliti. E contava sull'interessamento comprensivo dell'erede Francesco Maria. Sordo però G. all'accenno del figlio aspirante mediatore. Rinviò la risposta e, intanto, preparò un corpo di spedizione contro Urbino che, a sua volta, mentre Stati se ne andò ormai "ribelle", si accinse a resistere: serrate le porte, ammassati i viveri, distribuite armi. Così a fronteggiare l'eventualità dell'assedio, non senza, per sventarla, spedire un'ambasciata a Gregorio XIII, che si limitò a un generico auspicio di pace. Fatto, comunque, proprio l'invito pontificio, Urbino - non senza che così già iniziasse la smobilitazione - era disposta a ricevere, per un colloquio di chiarimento, G. o il cardinale Giulio suo fratello. Arrivò, invece, il 29 genn. 1573, Vittoria la duchessa, e non già a trattare ma a pretendere che la città si prosternasse.
A tale punto Urbino non si umilia. E Vittoria torna a Pesaro sdegnatissima. Ma svuotante, per la combattiva determinazione alla resistenza della città motivata dalla convinzione di essere nel giusto, il breve papale del 7 febbraio ingiungente la deposizione delle armi e, insieme, la supplica di perdono. Nel frattempo circondata da truppe e bloccata, Urbino non osa disubbidire al papa. Atterrita dalla prospettiva del sacco, si arrende, mentre G. - a tutta prima limitandosi alla destituzione dei magistrati comunali -, avvolto da impenetrabile silenzio, recita la parte della maestà offesa che muta assiste, da fuori, alle genuflessioni della città pentita. G. assapora la vendetta e, insieme, la rimanda. Piantonata in albergo, a Pesaro, dai suoi sgherri la folta delegazione di nobili urbinati per tre giorni. Quindi l'umiliarsi di questa prosternandosi in fila, due alla volta, prima di rientrare - non al completo; sei vengono trattenuti, rinchiusi nella rocca Costanza e qui, senza processo, giustiziati - in una Urbino avvilita e tremebonda. In questa sono decapitati altri due nobili. La vendetta continua a incrudelire. E il panico dilaga. Parecchi si danno alla fuga. E atterrate le case e confiscati i beni degli indiziati. A questo punto G. ritiene di essersi adeguatamente vendicato. E, intascato da G. il dono propiziante di 20.000 ducati, a fine anno un'altra delegazione urbinate può rientrare da Pesaro ad annunciare il perdono del duca. E ripristinati, allora, in una Urbino riportata all'ordine, il Collegio dei dottori e il Consiglio, mentre non ricompaiono i disciolti Assorditi.
Sfiorato dal dubbio di star troppo infierendo, G., a ogni buon conto, aveva chiesto lumi a Roma. Approva, tutto sommato, il breve del 24 luglio 1573 di Gregorio XIII. Se aveva agito con rigore - lo rasserenò il papa - non l'aveva fatto per acrimonia vendicativa, ma per, appunto, rigoroso senso di giustizia. E fu con la coscienza sgombra da rimorsi che - dopo essersi preoccupato a che il carnevale avesse le sue recite nella corte pesarese: e rappresentata, in effetti, l'Aminta di Tasso e l'Erofilomachia di Sforza Oddi - G., il 14 giugno 1574, gratificò Urbino della sua benevola presenza. Rientrato a Pesaro, vi cadde malato, sicché non poté - come avrebbe voluto - portarsi, nel luglio, a omaggiare a Venezia o a Ferrara Enrico III, il nuovo re di Francia.
A Pesaro G. morì - come riferisce nel Diario il figlio Francesco Maria - di febbre, pare quartana, il 28 sett. 1574: solenni le esequie seguite da sepoltura nella chiesa del Corpus Domini, come disposto da G. nel testamento per riaffermare la propria predilezione per Pesaro.
Scontata, nell'orazione funebre di Iacopo Mazzoni, la celebrazione della sua figura. Ma se il figlio, nel succedergli, si sentì in dovere di promettere il "buon governo" - e a prova dell'intento licenziò i ministri del padre taluno sin condannandolo -, è evidente che così segnalò la volontà di prendere le distanze dal malgoverno paterno. E abolì, con editto del 13 ottobre, le gabelle e i dazi per cui questo era divenuto odioso.
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