GUITMONDO
Pur essendo ignoti luogo e data di nascita di G., teologo e vescovo di Aversa a partire dal 1088, il suo nome, alquanto raro - l'originario Geirmundr, latinizzato in Guimundus / Wimundus -, rinvia sicuramente a un'origine normanna. Prima di giungere in Italia negli ultimi anni Settanta del secolo XI, egli fu monaco nell'abbazia francese di La Croix-Saint-Leufroy, in diocesi di Évreux. Dopo una solida formazione filosofico-teologica acquisita a Bec, dove fu allievo di Lanfranco da Pavia, G., stando a Orderico Vitale, fu proposto una prima volta come vescovo di una sede inglese dal re Guglielmo il Conquistatore, al quale tuttavia egli oppose un rifiuto che nella narrazione del cronista sembra acquistare un significato polemico nei confronti di quel potere assoluto che il re avrebbe poi reclamato nei confronti dello stesso papa Gregorio VII. Ancora Orderico Vitale ricorda la proposta fatta a G. di un secondo episcopato, questa volta a Rouen, dopo la morte dell'arcivescovo Giovanni (II) nel 1079, ma in tal caso l'accettazione gli sarebbe stata preclusa dal fatto che alcuni avevano diffuso la notizia che suo padre era stato presbitero, un motivo di impedimento canonico che in realtà, come si apprende dall'epistolario gregoriano, sembra che gravasse sull'effettivo successore di Giovanni, l'arcivescovo Guglielmo (1079-1110), figlio di Roberto vescovo di Séez (ora Sées), fatto che rende dubbia la veridicità della notizia trasmessa dal cronista.
Dopo questi fatti ritroviamo G. nel suo monastero, dal quale infine ripartì con il consenso dell'abate Odilone. Si potrebbe pensare a una sorta di seconda conversione, come lascerebbe ritenere il nuovo nome di Christianus, appellativo di sapore nettamente gregoriano, confermatoci da più fonti, assunto da G. quasi a testimoniare la piena adesione al programma ideologico e politico-religioso della riforma sostenuta dalla Chiesa di Roma.
Appartenente ormai all'ambiente dei riformatori, G. fu presente nel 1077 alla Dieta di Forchheim, in veste di consigliere dell'abate di S. Vittore di Marsiglia, Bernardo, il quale, insieme col cardinale diacono anche lui di nome Bernardo, entrambi legati papali, approvò l'elezione del duca di Svevia Rodolfo di Rheinfelden da parte dei principi della fazione antisalica, contraria al destituito re Enrico IV. A tal proposito nel Chronicon di Bertoldo si legge che al ritorno dalla missione in Germania l'abate Bernardo di S. Vittore e il suo accompagnatore "Christianus sapientissimus monachus", che non è altri che G., per ritorsione furono oggetto di sequestro da parte del conte Ulderico di Lenzburg, fautore di Enrico IV, per poi essere liberati solo grazie all'intervento dell'abate Ugo di Cluny presso lo stesso Enrico.
Mancano notizie su G. per il periodo che va dalla fine della legazione in Germania (1078-79) al 1083, allorché egli prese parte ai negoziati di pace tra i rappresentanti di Gregorio VII e quelli di Enrico IV, dopo le accuse lanciate dal re tedesco al pontefice, ritenuto ostacolo alla pace, e il conseguente invito rivolto al popolo romano di giudicare pubblicamente Gregorio. È probabile che tra gli "alii per plures" che, secondo il Chronicon di Bertoldo (p. 313), dopo la battaglia di Melrichstadt (7 ag. 1078) accompagnarono l'abate Bernardo di Marsiglia a Roma per riferire circa i risultati della missione in terra tedesca, ci fosse anche G., e che pertanto egli sia stato presente al sinodo romano del 1079, ove fu discussa la questione della dottrina di fede eucaristica relativa a Berengario di Tours e si giunse alla formulazione definitiva del giuramento berengariano.
Tra il 1073 e il 1078 G. aveva elaborato la sua principale opera teologica, dedicata al mistero eucaristico, il De corporis et sanguinis Christi veritate in eucharistia, un testo che senza dubbio esercitò un peso dottrinale decisivo nella condanna di Berengario allo stesso sinodo, dal momento che G. vi sosteneva chiaramente, mediante l'uso dell'avverbio substantialiter, il principio della conversione sostanziale del pane e del vino nel corpo e sangue di Cristo, al quale si sarebbe poi ispirato Alberico di Montecassino nel suo trattato De corpore Domini contro lo stesso Berengario, fino a oggi considerato perduto e ora identificato da Radding e Newton nel cod. 106 della University Library di Aberdeen.
Una fonte di parte imperiale, lo Iudicium de regno et sacerdotio (contenuta nel Chronicon di Ugo di Flavigny), riferisce che nel dicembre 1083 a S. Maria in Pallara, dipendenza di Montecassino in Roma, G., insieme con l'abate cassinese Desiderio e altri cardinali e diaconi, assistette a un giudizio di Dio - la prova dell'acqua - per accertare la validità o meno dei diritti vantati da papa Gregorio contro re Enrico. Dalla narrazione emerge soprattutto la tenacia con la quale G. difese la posizione gregoriana, al punto di dubitare della correttezza con la quale la prova stessa, di esito sfavorevole a papa Gregorio, era stata condotta. In questa circostanza nessun contrasto sembra trasparire però tra G. e l'abate Desiderio, il quale tuttavia, divenuto papa Vittore III, a dire del cronista Ugo di Flavigny, che riporta una lettera dell'arcivescovo Ugo di Lione a Matilde di Canossa, sarebbe stato oggetto di un violento attacco da parte di G. al concilio di Capua nel marzo 1087.
In quell'occasione G., su consiglio di Oddone cardinale vescovo di Ostia, il futuro Urbano II, avrebbe accusato papa Vittore di "infamia", essendo stato oggetto di scomunica per un anno da parte di Gregorio VII senza aver sostenuto la penitenza canonica, e pertanto privo dei requisiti necessari all'elezione pontificia. Pur escludendo l'attendibilità della notizia relativa alla scomunica a Desiderio, di cui nessun cenno appare né nella Chronica monasterii Casinensis di Leone Marsicano né nell'epistolario gregoriano, non è da sottovalutare tuttavia l'immagine di un G. antidesideriano, che sembra riflettere e quasi incarnare le idee dei circoli antimperiali francesi, in particolare dello stesso Ugo di Lione, fortemente critico verso la politica di equilibrio e di pacificazione sostenuta da Desiderio, prima come abate e poi come papa, nei confronti di Enrico IV e della scismatica fazione vibertina. Del resto tale atteggiamento da parte di G. sarebbe del tutto in sintonia sia con la sua sperimentata avversità a ogni condizionamento da parte del potere politico nei riguardi di quello ecclesiastico, sia con la veridicità di quanto narra il cronista Ugo di Flavigny almeno nel II libro del Chronicon basato su testimoni diretti, sia, infine, con l'assoluto silenzio delle fonti cassinesi circa la persona di G., che, data la prospettiva filodesideriana della Chronica di Leone come dei suoi continuatori Guido e Pietro Diacono oltre che di tutta la letteratura storica del Medioevo cassinese, ben si spiegherebbe.
Sorge a questo punto una questione centrale della biografia di G., relativa allo status ecclesiastico nel quale egli sostenne, durante il pontificato di Gregorio VII, le sue idee teologiche e soprattutto politico-religiose. Se infatti Paolo di Bernried nella Vita Gregorii VII o anche il menzionato anonimo Iudicium de regno et sacerdotio, o ancora lo stesso Ugo di Lione nella già citata lettera a Matilde concordano nel designare G. con il solo titolo di monachus, a eccezione del primo che ne precisa, senza però alcuna indicazione cronologica, il successivo episcopato aversano, altre fonti (Orderico Vitale) fanno invece di G. un cardinale o già, negli stessi anni gregoriani, vescovo di Aversa, come riferiscono l'Anonimo di Melk e l'inscriptio "Gregorius VII Wimundo Aversano episcopo", che si legge in un frammento di lettera conservato nelle collezioni canoniche di Ivo di Chartres (cfr. Gilchrist). D'altra parte un unico dato positivo affiora con chiarezza pur nell'intreccio di notizie divergenti: la consacrazione episcopale di G. avvenuta nel 1088 per le mani di papa Urbano II, come ci attestano lettere di questo all'arcivescovo di Napoli, al clero di Aversa e a Giordano principe di Capua, e specialmente il privilegio di papa Callisto II, datato a Benevento il 24 sett. 1120 e indirizzato a Roberto vescovo di Aversa (Kehr, pp. 284 s. n. 16): "Siquidem dominus predecessor noster sanctę memorię Leo papa nonus primum ibi episcopum Azolinum videlicet consecravit, porro Urbanus Guimundum, Gelasius Robertum episcopos consecrarunt" (cfr. Dell'Omo, p. 26 n. 44).
Secondo Ughelli, seguito da Gams, Parente e Gallo, almeno due, se non tre vescovi aversani avrebbero portato il nome di Guitmondo, il primo dei quali peraltro, che sarebbe stato consacrato da Vittore II nel 1056, non essendo in alcun modo documentato viene opportunamente respinto da Kehr, mentre il secondo sarebbe stato eletto vescovo da Gregorio VII e potrebbe identificarsi con il Guitmondo consacrato da papa Urbano II, oppure esserne distinto. In un tale quadro di fonti e notizie divergenti Tirelli ha ritenuto di poter identificare nel vescovo che sarebbe stato eletto da Gregorio e consacrato da Urbano il Guitmondo al quale si rivolgerebbe Gregorio VII nell'inscriptio del già citato frammento epistolare, nel quale il pontefice afferma il principio di origine patristica secondo cui la consuetudine deve essere sempre sacrificata alla verità ("qualibet consuetudo, quantumvis vetusta, quantumvis vulgata, veritati est omnino post ponenda et usus qui veritati est contrarius abolendus"): a G., che, secondo Tirelli, gli avrebbe chiesto d'essere consacrato da lui personalmente, com'era avvenuto per il primo vescovo di Aversa Azzolino, ordinato da Leone IX, papa Gregorio avrebbe addotto come argomento contrario il fatto che la verità prevale sempre sulla consuetudine, stante la disputa circa l'autonomia della diocesi aversana rispetto alle metropolitane di Napoli e Capua, che avversavano infatti l'immediata dipendenza della Chiesa aversana dalla Sede apostolica. In realtà la questione, del tutto assente dall'epistolario gregoriano, trova una prima eco solo nelle tre menzionate lettere di Urbano II inviate in occasione della consacrazione episcopale di Guitmondo. E sono appunto quella diretta al clero aversano e l'altra inviata al principe di Capua che sottolineano un primo elemento di natura giuridica contrastante con ciò che opina Tirelli, secondo cui sarebbero trascorsi almeno dieci anni (1078-88) tra il momento dell'elezione e quello della consacrazione episcopale di G.: Urbano II in realtà ribadisce che la ordinatio di G., pur essendo insoluto il conflitto tra Capua e Napoli, è avvenuta per non protrarla oltre i termini dettati dalle disposizioni canoniche, secondo cui non era lecito differire oltre tre mesi l'intervallo tra electio e consecratio, fatta eccezione in caso di inevitabile necessità. Ma c'è un dato ulteriore e decisivo, inspiegabilmente sfuggito a Tirelli, e che ne invalida la tesi: G. è da lui supposto eletto vescovo "almeno dal 1078" (p. 994), e perciò erroneamente identificato con l'anonimo presule di Aversa che, secondo quanto narra Amato nella Historia Normannorum, poté assistere in punto di morte il principe Riccardo di Capua (m. 1078); al contrario, invece, in un diploma, tradito in originale, datato a Capua il 18 sett. 1080 e destinato al monastero di S. Lorenzo di Aversa, viene menzionato ancora, quale vescovo in carica della stessa città, Goffredo. È il segno più evidente che ancora nell'ultimo quarto del 1080 G. non era affatto vescovo eletto della città normanna. Dunque l'unico dato certo di cui si dispone è che la sua consacrazione avvenne tra il marzo e il luglio del 1088, cioè nell'arco dei tre mesi prescritti dalla norma canonica. Il 12 marzo infatti ebbe inizio il ministero pontificale di Urbano II, che già nel luglio dello stesso anno, scrivendo all'arcivescovo di Napoli Giovanni, giustifica la consacrazione di G. affermando di aver agito non per avversità ma solo perché costretto dalla necessità e affinché, differendone ancor oltre l'ordinazione, la Chiesa di Aversa non perdesse un tale uomo da lui stesso eletto ("tale virum a nobis electum": cfr. Ewald; Kehr, p. 449 n. 81): un segno di stima per G. e soprattutto la conferma che Urbano II e non Gregorio VII lo aveva eletto alla diocesi di Aversa. Del resto gravi dubbi erano stati avanzati già da Kehr (p. 282 n. 2), Ladner (Two Gregorian letters, pp. 674 s.) e Gilchrist (p. 62) sulla genuinità dell'inscriptio relativa al frammento di lettera, che al mittente Gregorio VII associa il destinatario G. in qualità di vescovo. È invece piuttosto probabile che tale qualifica, sostituita a quella di semplice monaco, si debba allo stesso Ivo di Chartres, il solo che ce l'abbia trasmessa nelle citate collezioni canoniche, e che deve averla preferita in quanto più corrispondente alla fama con cui G. era ormai universalmente noto; ciò spiegherebbe anche perché una fonte alquanto tardiva (metà del secolo XII), come l'Anonimo di Melk, attribuisca già agli anni di Gregorio l'episcopato di Guitmondo. Si può pertanto giudicare superata la cronotassi stabilita dall'Ughelli che distingue due o tre vescovi di nome G. succedutisi sulla cattedra aversana nel giro di trent'anni, come anche Kamp ha confermato di recente.
Un solo G. fu dunque vescovo di Aversa a partire dal 1088 fino al 1094. Egli nel marzo 1091 partecipò al sinodo di Benevento; nello stesso anno è menzionato in un atto di permuta; infine nel 1094 insieme con altri sollecitò Bernardo, vescovo di Carinola, a traslare il corpo del beato Martino da una grotta del monte Massico, ov'era sepolto, nella cattedrale di quella stessa diocesi.
G. morì presumibilmente nel 1094 in quanto già in quell'anno, come appare in calce a un diploma del duca Ruggero Borsa, Aversa risulta avere un nuovo vescovo nella persona di Giovanni.
Edizioni delle opere di G.: De corporis et sanguinis Christi veritate in eucharistia libri tres, in J.-P. Migne, Patr. Lat., CXLIX, coll. 1427-1494; Confessio de sancta Trinitate, Christi humanitate, corporisque et sanguinis Domini nostri veritate, ibid., coll. 1495-1502; Epistola ad Erfastum, ibid., coll. 1502-1508; G. Morin, La finale inédite de la lettre de Guitmond d'Aversa à Erfast, sur la Trinité, in Revue bénédictine, XXVIII (1911), pp. 95-99; J. Leclercq, Passage authentique inédit de Guitmond d'Aversa, ibid., LVII (1947), pp. 213 s.; La "verità" dell'eucaristia, a cura di L. Orabona, Napoli 1995.
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