TOMBESI, Gurlino
TOMBESI (de Tombisiis, Tombesi dall’Ova), Gurlino. – Nacque in data imprecisata attorno alla metà del Quattrocento o poco dopo, dato che già nel 1486 è documentato al soldo di Venezia come connestabile di fanteria.
Scarse anche le informazioni sulla famiglia: originari di Ferrara i Tombesi si trasferirono a Ravenna intorno alla metà del Trecento, dove, nelle fonti locali, vennero chiamati Tombesi dall’Ova (ab Ovis, de Ovibus). Il padre di Gurlino, Giacomo, morì prima del 1474.
Tombesi ebbe almeno tre fratelli, Riguccio, Stefano e Giovanni (morto ante 1488) e una sorella, Lieta, tutti possessori di diverse case a Ravenna, nel quartiere di Porta di Ursicina, presso la chiesa di S. Agata, oltre a diversi fondi nel contado. Non fu l’unico della famiglia a dedicarsi al mestiere delle armi: il fratello Riguccio nel 1476 prese parte, nelle file veneziane, alle operazioni contro i turchi in Albania e poi morì durante la campagna in Toscana a difesa di Pisa (1498), quando anche un secondo fratello (forse Stefano) rimase ferito.
Le prime notizie sulla sua carriera risalgono al 1487. Durante la guerra tra Venezia e il conte del Tirolo Tombesi, conestabile di fanteria, radunò alcune migliaia di armati in Vallarsa e predispose un campo fortificato presso Foppiano, con l’obiettivo di soccorrere Rovereto, allora assediata. Rimase al servizio della Serenissima anche negli anni successivi, dato che in un atto del 1488 (con il quale affittava una casa a Ravenna nella zona di S. Agata a un marinaio) è menzionato come conestabile di fanti e, con il medesimo incarico, nel 1492, scortò da Rovereto a Trento gli ambasciatori veneziani che si recavano dall’arciduca Sigismondo d’Austria per trattare la pace.
Nel 1495 prese parte alla battaglia di Fornovo guidando, insieme a Giovanni del Matto, la terza schiera di fanti veneziani composta da circa duemila uomini. Successivamente partecipò all’assedio di Novara, dove si distinse, insieme al marchese di Mantova, nell’assalto del bastione realizzato dai francesi nel borgo di Sant’Agapito, presso la porta di S. Nazzaro. Nel 1496 tornò di nuovo a Rovereto al comando di cento fanti; l’anno successivo gli furono affidati duecentocinquanta provvisionati per operare in Liguria contro i francesi. Con queste forze combatté ad Albenga, nel Genovese e prese il castello di Ceva. Nel mese di maggio fu protagonista di un episodio di insubordinazione e di una grave controversia, esemplare della difficile gestione dell’esercito da parte dei governi rinascimentali.
Senza aver ottenuto licenza dai provveditori Andrea Zancani e Niccolò Foscarini, Tombesi si spostò da Genova al campo veneziano di Felizzano (Alessandria) per reclamare alcune paghe che non gli erano state ancora versate. Dopo un’aspra lite con Foscarini, corredata da reciproci insulti e minacce, fu rispedito a Rovereto, ove per ordine del consiglio dei Dieci il podestà Girolamo Gritti cercò di arrestarlo per inviarlo a Venezia. Fuggito in un primo tempo a Trento, poi a Mantova e infine a Milano, dopo qualche mese ottenne un salvacondotto tramite il fratello Riguccio e si recò a Venezia per affrontare il giudizio. Nella città lagunare, dopo alcuni giorni di incarcerazione fittizia (dato che gli era stato concesso di poter tornare la notte a dormire nella sua casa) fu ascoltato dal consiglio dei Pregadi e assolto.
Nel gennaio del 1498, al comando di duecento provvisionati, fu inviato in Toscana, dove Pisa, alleata della Serenissima, era in guerra contro la Repubblica fiorentina. Nel maggio dello stesso anno, con trecento fanti, si unì a trecentottanta stradiotti provenienti dalla Garfagnana, per poi prendere parte alla battaglia di San Regolo, dove i fiorentini furono sconfitti. Nel settembre dello stesso anno, partecipò alla difesa di Vicopisano.
Insieme a Giacomo Tarsia, con ottocento fanti prese la chiesa di S. Michele sulla Verrucola, presso Vicopisano, catturò il connestabile nemico Ceccone da Barga con cento dei suoi uomini, e fece un ricco bottino (corazze, artiglierie e vettovaglie). Con Giacomo Tarsia e mille uomini Tombesi tentò poi la conquista del bastione della Dolorosa presso Vicopisano, ma fu respinto e, ferito alla testa da una pietra scagliata dai fiorentini, si ritirò gettandosi nell’Arno. Più fortunate furono, nel mese di novembre, le operazioni contro Calci, dove la guarnigione fiorentina si arrese dopo l’impetuoso attacco condotto da Tombesi, nonché l’assalto al bastione di Stagno vicino a Livorno.
Nel gennaio del 1499, insieme ad altri comandanti veneziani, con fanti e cavalleria leggera guadò l’Arno presso Pontedera e attaccò a sorpresa il borgo di Montopoli, che venne, a eccezione della rocca, preso e saccheggiato. Partecipò poi all’incursione in Maremma condotta da duecentocinquanta cavalieri, tra stradiotti e balestrieri a cavallo, e cento fanti veneziani, giungendo fino alle mura di Volterra e predando diverse centinaia di capi di bestiame.
Quando (aprile 1499) la Repubblica fiorentina si accordò con la Serenissima per la pace e le forze veneziane lasciarono la regione, Tombesi e altri condottieri rimasero al servizio di Pisa. Nella città toscana Tombesi si occupò in primo luogo del rafforzamento delle difese urbane, sopraintendendo alla riparazione delle mura, creando nuovi apparati difensivi come il bastione della porta Calcesana e facendo demolire edifici e borghi suburbani che potevano prestarsi ad alloggiamenti per i nemici. Nel luglio del 1499 i fiorentini, guidati da Paolo Vitelli, iniziarono l’assedio di Pisa, durante il quale Tombesi si distinse nella difesa del fortilizio di Stampace, poi perso da pisani, rimanendo ferito a una spalla da un colpo d’archibugio e alla coscia da un verrettone.
Lasciata Pisa, tornò al servizio di Venezia che, nel marzo del 1500, lo inviò (insieme a Gianpaolo Manfroni, comandante di cavalleria, a due patrizi veneti e a quattro ingegneri) a ispezionare le fortificazioni del Friuli. Successivamente fu inviato nel Levante, dove era in atto la guerra tra la Serenissima e l’Impero ottomano. In maggio Tombesi raggiunse Corfù, per proseguire poi verso Nauplia, dove partecipò alla difesa della città. Successivamente combatté a Modone nel Peloponneso e spostatosi nell’Egeo orientale presso la costa turca contribuì alla conquista di Tenedo, Lesbo e di altre isole, per dedicarsi poi, con molta abilità, al rafforzamento delle fortificazioni di Nauplia.
Nell’ottobre del 1500, insieme al contingente inviato dai sovrani di Spagna in aiuto ai veneziani, partecipò all’assedio del castello di Cefalonia (isole Ionie), dove si erano asserragliati duecentocinquanta turchi. Durante tali operazioni, nel mese di dicembre rimase ferito a un ginocchio da una scheggia di pietra proveniente dal ‘fuoco amico’: una palla sparata da un pezzo d’artiglieria spagnolo. Secondo Marino Sanudo e Girolamo Priuli la lesione provocò, in pochi giorni, la morte di Tombesi, che fu successivamente sepolto, con tutti gli onori, a Corfù.
Meno affidabile l’opinione di alcuni eruditi ravennati del Seicento secondo i quali Tombesi, dopo essere stato ferito, fu portato a Ravenna, dove morì solo nella primavera del 1501, venendo tumulato nella chiesa di S. Nicolò; l’epigrafe fu poi trasportata in un’altra chiesa ravennate, S. Carlino. La Repubblica Veneta decise di onorare Tombesi concedendo una provvigione di 12 o 17 ducati mensili a ognuno dei suoi figli e una dote di 150 ducati alle sue figlie.
Priuli definì Tombesi «homo prudente et savio, praticho et valente» e totalmente fedele a Venezia (G. Priuli, I Diarii, a cura di R. Cessi, 1933-1937, p. 90); Sanudo ne riconobbe le doti militari, ma forse anche pensando alle diverse liti nelle quali fu coinvolto sentenziò «è valente, ma consumeria il Paradiso» (M. Sanudo, I Diarii, II, a cura di G. Berchet, 1879, p. 717).
Va sottolineata la complessiva professionalizzazione, almeno a partire dalla generazione di Gurlino, della famiglia Tombesi nel mestiere delle armi, e in specifico nel comando di reparti di fanteria: fu conestabile, in un primo tempo sotto le bandiere veneziane, anche il figlio Gurlotto. La specializzazione permise a Tombesi di acquisire numerose cognizioni tecnico-militari, che, in Trentino, come a Pisa o a Nauplia, utilizzò nella realizzazione di opere difensive e nel rifacimento delle fortificazioni esistenti.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Ravenna, Archivio Notarile Distrettuale di Ravenna, notaio Francesco Ghinibaldi, vol. 63, cc. 188r-188v; notaio Antonio Bonfili, vol. 73, cc. 117rv, 176r, 198rv; vol. 74, cc. 50v-51r, 120r, 184v, 224v-225v; F. Guicciardini, Storia d’Italia, II, Paris 1837, pp. 92, 94 s.; D. Malipiero, Annali Veneti, a cura di F. Longo, in Archivio storico italiano, VII (1843), p. 487; La guerra del millecinquecento, a cura di R. Roncioni, in Archivio storico italiano, VI (1845), p. 364; A. Benedetti, Il fatto d’arme del Tarro, Novara 1863, p. 67; M. D’Atri, Croniche del marchese di Mantova, a cura di E. C. Visconti, in Archivio storico lombardo, VI (1879), p. 335; M. Sanuto, I Diarii, I, a cura di F. Stefani, Venezia 1879, ad ind., II, a cura di G. Berchet, Venezia 1879, ad ind., III, a cura di R. Fulin, Venezia 1880, ad ind.; G. Priuli, I Diarii, a cura di A. Segre, in RIS, XXIV, 3, 1, Città di Castello-Bologna 1912-1921, p. 318; G. Priuli, I Diarii, a cura di R. Cessi, in RIS, XXIV, 3, 2, Bologna 1933-1937, pp. 90, 104; I. Arrosti, Cronica di Pisa, a cura di M. Grava, Pisa 2016, pp. 339 s., 343 s., 346, 350.
S. Pasolini, Lustri ravennati, III, Bologna, 1680, p. 145; F. Mordani, Operette, I, Firenze, 1874, pp. 65-68, 397-400; G. Onestinghel, La guerra tra Sigismondo conte del Tirolo e la repubblica di Venezia nel 1487, in Tridentum, VIII (1905), pp. 206 s.; G. Coniglio, I Gonzaga, Varese 1967, pp. 144, 160; M.M. Mallet, L’organizzazione militare di Venezia nel ’400, Roma 1989, pp. 126 s.; S. Bernicoli, Tesoretto, Ravenna 1999, pp. 262 s.; B. Crevato Selvaggi, Cefalonia veneziana: le vicende e l’amministrazione, in Cefalonia ed Itaca al tempo della Serenissima, Milano 2013, pp. 15-40 (in partic. pp. 25, 27).