Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Balzac, Stendhal e Mérimée, sia pure in maniere alquanto diverse, sono i fautori del realismo nei generi del romanzo e del racconto. Pur proseguendo in tale direzione, Flaubert si differenzia da questi scrittori per la maggiore attenzione agli esiti stilistici; la sua prosa più matura, infatti, aspira costantemente e quasi ossessivamente a un’oggettività elegante e impeccabile.
La poetica e le ossessioni di un pessimista
Gustave Flaubert rappresenta certamente una delle figure determinanti nella storia del romanzo moderno: ben cinque dei sei volumi che egli pubblica in vita sono diventati classici imprescindibili per ogni biblioteca e, soprattutto, per la biblioteca mentale di ogni critico.
Introverso, malinconico, ciclotimico, pieno di sé, verboso, violento e collerico, questo "omaccione normanno", come lo apostrofa Cesare De Lollis, non brilla per simpatia, finezza e affabilità. Perennemente in uno stato di disperazione, Flaubert – come ha sottolineato Massimo Colesanti (1996) – prova sentimenti davvero negativi non solo nei confronti della pur detestata borghesia, ma dell’umanità in generale; molte sue osservazioni manifestano rabbia, disgusto, disprezzo e perfino odio verso gli uomini, che gli appaiono egoisti, cinici, superbi, crudeli e – quel che è peggio, dal suo punto di vista – stupidi. Non soltanto nell’ultimo romanzo (Bouvard et Pécuchet) ma nella totalità dei suoi scritti, Flaubert satireggia amaramente le varie forme in cui si estrinseca l’imbecillità dei suoi simili e l’assurdo di una realtà da cui si sforzerà sempre di fuggire.
Nelle composizioni giovanili, Flaubert aderisce pienamente e appassionatamente alla poetica romantica di Francia, che gli consente di esprimere le passioni e i travagli della sua possente e frenetica fantasia. Chi leggesse pagine di Memorie di un pazzo o di Novembre senza conoscerne l’autore ben difficilmente potrebbe pensare che siano state scritte da quello che oggi viene comunemente considerato il primo propugnatore della cosiddetta teoria dell’impersonalità dell’arte. A tali posizioni Flaubert approda durante gli anni in cui lavora strenuamente a Madame Bovary.
Contrariamente a Balzac, a Stendhal, a Manzoni e, in generale, ai narratori della prima metà dell’Ottocento, egli si astiene, d’ora in avanti, dal commentare gli avvenimenti raccontati e, tanto più, dall’identificarsi con uno dei personaggi della vicenda, convinto che la perfetta espressione dei fatti sia sufficiente per interpretarli. Flaubert rifiuta quindi di parlare di se stesso e delle sue idee, di comunicare al lettore i “palpiti del suo cuore”; egli vuole, al contrario, "dimenticarsi" e vivere soltanto in funzione dell’opera. Se da un lato l’immergersi totale e ascetico nella scrittura angoscia e affligge Flaubert, dall’altro gli elargisce un piacere profondo, una “gioia voluttuosa” che considera l’unica cosa davvero soddisfacente nel deserto del vivere. Non meraviglia per nulla, dunque, che abbia trascorso anni e anni raffinando, armonizzando, rendendo eufoniche e ben ritmate le sue prose, dalle quali non riesce, d’altro canto, a estirpare del tutto certi tratti di sapore squisitamente romantico.
Alla base di tutti i romanzi di Flaubert sta una lunga e paziente ricerca storica, filosofica e documentaria: prima di rielaborare in proprio un soggetto, egli vuole conoscerlo scientificamente nel suo contesto sociale e ideologico; a questa prima fase segue una tormentata, dolorosa ricerca del mot juste, della parola in grado di rendere con efficacia ed esattezza le sue percezioni e i suoi pensieri.
Nel corso dei laboriosi anni di volontario isolamento, Flaubert si costruisce gradualmente uno stile oggettivo di originalità ed energia davvero straordinarie: pochi scrittori, per esempio, sono stati capaci di alternare con altrettanta sapienza slanci lirici (non di rado vera e propria poesia in prosa) e rigore descrittivo. Oltre che per la forza espressiva e per la penetrazione psicologica riscontrabili nelle scene corali, i romanzi flaubertiani spiccano per l’accuratezza nelle descrizioni di certi comportamenti e di certi oggetti che apparentemente insignificanti e ordinari, rivelano in realtà elementi fondamentali del carattere dei personaggi. Soprattutto l’Educazione sentimentale e Madame Bovary pullulano di questi particolari determinanti e quanto mai eloquenti, grazie agli sforzi di una penna scaltrita e calibratissima.
Momenti di un’esistenza consacrata all’arte
Flaubert nasce nel 1821 a Rouen (che più di due secoli prima aveva dato i natali al grande Corneille) da Achille Cléophas, medico primario presso l’ospedale maggiore della città, e da Caroline Fleuriot, figlia di proprietari terrieri. Il padre, insensibile alle lettere e tutt’altro che religioso, si dimostra più affettuoso col primogenito, ragazzo modello che diverrà poi un abile chirurgo; Gustave, assai meno brillante, comincia ben presto a credere di essere stupido e incapace,"l’idiota della famiglia"; si lega molto, invece, alla sorella Caroline, nata nel 1824.
Solitario, annoiato, scarsamente attivo nello studio, il giovane Flaubert ama tuttavia la storia e la letteratura: fra le sue letture giovanili ricordiamo il Don Chisciotte e il ciclo rabelaisiano, Ronsard e Montaigne, il teatro di Shakespeare e il Faust, opere di Rousseau, Chateaubriand, Lamartine e Musset, e alcuni poemi di Byron.
Nel 1836 incontra l’affascinante Elise Foucault che sposerà poi l’editore musicale Schlesinger. Quantunque inconfessato e inappagato, l’amore per questa bellezza matura e florida sarà l’unica passione autentica e costante della sua vita, ricca peraltro di avventure erotiche.
La rielaborazione di questa esperienza, tanto ardente quanto impossibile, costituisce il tema centrale delle Memorie di un pazzo (1838), breve scritto in cui è palese l’influsso di certo romanticismo, e soprattutto dell’ Educazione sentimentale (prima stesura 1843-1845; seconda stesura 1863-1869).
Gustave Flaubert
Frédéric Moreau torna a Nogent-sur-Seine
L’educazione sentimentale, Parte I, Cap. I
Un giovane di diciotto anni, dai capelli lunghi, stava immobile vicino al timone tenendo un album sotto il braccio. Vedeva passare, attraverso la nebbia, campanili ed edifici di cui non sapeva il nome; poi, con un’ultima occhiata, abbracciò l’Île Saint-Louis, la Cité, Notre-Dame; infine, scomparendo Parigi, mandò un gran sospiro.
Frédéric Moreau, diplomato da poco baccelliere, se ne tornava a Nogent-sur-Seine, dove avrebbe languito per due mesi prima di ripartire per intraprendere gli studi giuridici. Sua madre lo aveva mandato a Le Havre, con i soldi contati, per far visita a uno zio dal quale sperava che il figlio avrebbe ereditato; Frédéric ne era tornato soltanto il giorno prima, ed ora, mentre ritornava nella sua provincia per la via più lunga, si rammaricava di non poter vivere nella capitale.
Gustave Flaubert, Tutti i romanzi, a cura di M. Colesanti, Roma, Newton Compton, 1996
Altro "esperimento" narrativo importante è Smahr (1839), racconto filosofico ispirato al Goethe più "mefistofelico", che contiene i motivi essenziali della futura Tentazione di Sant’Antonio e rappresenta la prima opera di qualche impegno appartenente a quel filone fantastico-esotico che Flaubert coltiverà parallelamente a quello realistico-borghese.
In seguito Flaubert compone Novembre, breve romanzo per molti aspetti riuscito e convincente – l’unico libro giovanile che lo scrittore non rinnegherà del tutto – nel quale, per il personaggio della prostituta protagonista, Flaubert si ispira a una marsigliese con cui ha intrattenuto una relazione.
Costretto ad abbandonare la facoltà di giurisprudenza di Parigi, che sta frequentando svogliatamente, a causa di un attacco epilettico, nel 1844 Flaubert si ritira nella piccola proprietà familiare di Croisset, dove comporrà, con tormentosa e laboriosissima lentezza, tutti i suoi capolavori.
Durante un viaggio in Italia (1845), a Genova Flaubert rimane profondamente colpito dal Sant’Antonio attribuito a Bruegel: tre anni dopo rielabora in proprio i travagli del "padre del deserto" nella Tentazione di Sant’Antonio, la cui prosa sfavillante e oratoria viene giudicata negativamente dai suoi amici letterati Bouilhet e Du Camp, che lo orienteranno verso una ben più piatta e arida materia borghese.
In seguito alla morte del padre e della diletta sorella (1846), Gustave piomba in un grave stato depressivo; poco dopo intesse una relazione con la celebre scrittrice Louise Colet, sentimentalmente vicina, fra l’altro, a Victor Cousin e ad Alfred de Vigny.
Dopo un faticoso ma entusiasmante viaggio in Medio Oriente, Grecia e Italia (1849-1851), Flaubert per più di quattro anni si dedica anima e corpo alla stesura di Madame Bovary che esce in volume nel 1857.
Dal 1857 al 1862 Flaubert lavora intensamente a Salammbô, romanzo storico ambientato a Cartagine negli anni che seguono alla prima guerra punica; fedele al principio della scientificità nella documentazione, accumula un enorme patrimonio di dati storici, filosofici, religiosi e archeologici. Fondendo suggestivamente erudizione e fantasia, Flaubert realizza un vivido affresco storico, la cui cesellata e compiaciuta raffinatezza attrarrà diversi esponenti del decadentismo. In questo periodo Flaubert frequenta regolarmente personaggi della levatura di Sainte-Beuve, Gautier, Renan e i fratelli Edmond e Jules de Goncourt; la Parigi intellettuale ormai lo considera il propugnatore di una nuova e rivoluzionaria dottrina letteraria, il realismo.
Gustave Flaubert
La luna su Cartagine
Salammbô, Cap. III
La luna sorgeva sul filo delle onde, sulla città ancora immersa nelle tenebre, brillavano chiarori, punti luminosi: il timone di un carro in un cortile, qualche straccio di tela appeso, l’angolo di un muro, una collana d’oro sul petto di un dio. I globi di vetro sui tetti dei templi risplendevano, qua e là, come grossi diamanti. Ma confuse rovine, mucchi di terra nera, giardini, formavano masse più scure nell’oscurità e, in fondo a Malcua, reti di pescatori si stendevano da una casa all’altra, come giganteschi pipistrelli ad ali spiegate. Non si udiva più lo stridere delle ruote idrauliche che portavano l’acqua all’ultimo piano dei palazzi; e in mezzo alle terrazze i cammelli riposavano tranquillamente, coricati sul ventre come gli struzzi. I portinai dormivano nelle vie contro la soglia delle case; l’ombra dei colossi si allungava sulle piazze deserte; di tanto in tanto, in lontananza, il fumo di un sacrificio ancora ardente sfuggiva dalle tegole di bronzo, e la brezza pesante portava insieme alla fragranza degli aromi i sentori della marina e l’esaltazione delle mura scaldate dal sole. Intorno a Cartagine le onde immobili splendevano, poiché la luna diffondeva la sua luce sul golfo circondato di montagne e sul lago di Tunisi, dove i fenicotteri tra i banchi di sabbia formavano lunghe linee rosa, mentre al di là, sotto le catacombe, la grande laguna salata riluceva come una lastra d’argento. La volta del cielo turchino sprofondava all’orizzonte, da una parte nel polverio delle pianure, e dall’altra nelle brume del mare. Sulla cima dell’Acropoli i cipressi a forma di piramide che contornavano il tempio di Esmun ondeggiavano e mormoravano, come le ondate regolari che battevano lentamente il molo, ai piedi dei bastioni.
Gustave Flaubert, Tutti i romanzi, a cura di M. Colesanti, Roma, Newton Compton, 1996
Dopo il vasto successo di Salammbô (1862), Flaubert diviene un’autentica celebrità e comincia a frequentare più assiduamente i salotti della capitale. Nell’arco di tempo che va dal 1864 al 1869, riscrive L’educazione sentimentale che con l’omonima opera di venti anni prima ha in comune soltanto alcuni temi e motivi. Quest’ampia narrazione costituisce una liquidazione lucidissima e ironica degli ardori romantici: il suo fulcro è l’amore – tanto intenso quanto irrealizzabile – di Frédéric Moreau, uomo sensibile e ambizioso ma debole, per Marie Arnoux, moglie elegante e garbata di un commerciante la cui cordialità è pari alla sua rozzezza. Il protagonista come l’intera generazione della quale fa parte non riesce a coronare i suoi generosi progetti a causa dell’educazione romantica ricevuta, ormai del tutto inadeguata alle esigenze della mutata realtà. Di rara fedeltà e minuziosa accuratezza sono inoltre le numerose descrizioni dei fermenti ideologici e della vita sociale relative al periodo che va dalla monarchia di luglio all’inizio della seconda repubblica. La forte depressione che nel 1869 tormenta il già precario equilibrio dello scrittore viene ulteriormente aggravata dalla guerra franco-prussiana (i nemici occupano anche la villa di Croisset).
Dal 1871 al 1874 ritorna sulla Tentazione di sant’Antonio, che considera “l’opera della sua vita”, poiché dopo aver contemplato il dipinto di Genova non aveva mai cessato di interrogarsi e documentarsi sul suo soggetto. L’opera si presenta come una sorta di "sacra rappresentazione" delle tentazioni di sant’Antonio abate e offre non pochi e originali spunti di riflessione su alcuni dei massimi enigmi dell’esistere, anche se ottiene modestissimi consensi.
Ottima accoglienza ricevono invece i Tre racconti (1877): mentre il primo (Un coeur simple) è una storia realistica e meticolosamente analitica delle vicende di una domestica ed è prossimo a Madame Bovary, il secondo (Saint Julien l’Hospitalier) e il terzo (Hérodias) possono essere ricondotti, per temi e stilemi, alla Tentazione e a Salammbô, nei quali trovano ampio spazio effusioni liriche, esotismo e mistero.
Nel 1874 Flaubert comincia a scrivere Bouvard et Pécuchet, ambiziosa e grottesca epopea della bêtise umana, che molti hanno considerato il suo testamento morale e spirituale; rimasto incompiuto, verrà pubblicato postumo, a puntate, sulla "Nouvelle revue" (1880). In questo libro, scritto in uno stile lento e pesante con il preciso intento di annoiare il lettore, Flaubert denuncia senza pietà la stoltezza di una borghesia che fonda la sua vita su falsi valori e orienta le sue scelte basandosi su luoghi comuni fuorvianti e assurdi. I protagonisti della vicenda sono, ancora una volta, due falliti: copisti ormai stanchi di una routine che giudicano vuota e sterile, Bouvard e Pécuchet percorrono superficialmente l’intero scibile umano, decidendo infine di riprendere la loro misera occupazione di sempre, perché ogni disciplina ha riservato loro soltanto sventure, preoccupazioni, amare delusioni e prove infinite dell’umana stoltezza. Opera estrema di un’individualità intrisa di pessimismo, Bouvard et Pécuchet non è soltanto la caricatura della mediocrità di due poveri impiegati, di due "idiots", ma anche lo spaccato della condizione dell’uomo, il cui operare si rivela sempre vano e doloroso.
L’8 maggio del 1880, Flaubert muore stroncato da un’emorragia cerebrale. Viene sepolto a Rouen.
Le sue riflessioni sulla letteratura e sull’arte sono contenute nella vasta Corrispondenza che, oltre a una miriade di preziose informazioni sull’uomo, contiene riflessioni sulla sua opera. Fra le lettere più dense e rivelatrici dei suoi dubbi e travagli compositivi, vi sono senza dubbio quelle inviate a George Sand e a Louise Colet.
Madame Bovary
Dietro consiglio degli amici Bouilhet e Du Camp, Flaubert si persuade a passare dalle meraviglie esotiche, remote e attraenti, della Tentazioni di Sant’Antonio alla bassa, monotona quotidianità della vita di provincia. Dopo ben cinque anni di intenso lavoro e inquieto isolamento nella villa di Croisset, nel 1856 Flaubert pubblica – a puntate, sulla "Revue de Paris" – Madame Bovary, capolavoro dell’"arte del romanzo", in cui sono felicemente incarnati gli ideali di scientificità e impersonalità cui questo scrittore sempre dubbioso e insoddisfatto mai cesserà di tendere. L’anno seguente il testo esce in volume, riscuotendo ampi consensi presso il pubblico anche a causa del clamoroso scandalo provocato dall’incriminazione dell’autore per oltraggio alla morale pubblica e religiosa; il processo si conclude, comunque, con un’assoluzione.
Alieno da quelle finalità educative che tanto stanno a cuore, per esempio, a Vigny, a Hugo e a molti romantici italiani, questo perfezionista infaticabile ritiene che “la morale dell’arte” stia “tutta nella sua bellezza” e “stima al di sopra di ogni cosa prima lo stile e poi il vero”.
Protagonista dell’opera – che rappresenta senza dubbio una delle analisi più acute e implacabili del vivere, del sentire e del pensare borghesi – è Emma Bovary, una donna di provincia assai insoddisfatta della mediocrità banale e tediosa dell’esistenza che le circostanze le impongono e bramosa di vivere all’altezza degli ideali chimerici e romanzeschi che popolano la sua irrequieta immaginazione.
Gustave Flaubert
Emma e Parigi
Madame Bovary, Parte I, Cap. IX
Com’era questa Parigi? Che nome smisurato! Se lo ripeteva sottovoce, per goderselo. Il nome le risuonava negli orecchi come una grande campana di cattedrale e le fiammeggiava davanti agli suoi occhi persino sulle etichette dei vasi di pomata.
La notte, quando i venditori di pesce passavano sotto le sue finestre con i carri cantando la Marjolaine, si destava e, ascoltando il rumore delle ruote ferrate che, all’uscita del paese, si spegneva subito sulla terra nuda:
– Domani – si diceva – saranno là!
E li seguiva con la mente, salendo e scendendo per le colline, attraversando villaggi, filando sulla strada maestra sotto il chiarore delle stelle. Alla fine di un tratto indeterminato, si trovava sempre in uno slargo confuso dove il sogno spirava.
Comprò una pianta di Parigi e, con la punta del dito che scorreva sulla carta, faceva passeggiate per la capitale. Risaliva i boulevards, fermandosi a ogni angolo, tra le linee delle strade, o davanti a quei riquadri bianchi che, nelle piante, rappresentano le case. Alla fine, chiudeva le palpebre sugli occhi stanchi: e allora, nel buio, vedeva le fiammelle dei lampioni a gas torcersi nel vento, e vedeva file di carrozze scorrere con fracasso davanti ai peristili dei teatri.
Si abbonò alla "Corbeille", giornale femminile, e al "Sylphe des Salons". Divorava, senza lasciarsi sfuggire niente, tutti i resoconti delle prime rappresentazioni, delle corse e delle serate mondane; s’interessava al debutto di una cantante, all’apertura di un negozio. Conosceva le nuove mode, l’indirizzo dei migliori sarti, i giorni di appuntamento al Bois o all’Opéra. Studiò nei libri di Eugène Sue le descrizioni degli arredamenti, lesse Balzac e George Sand, cercando appagamenti immaginari alle sue bramosie. Persino a tavola portava il libro e ne voltava le pagine mentre Charles, mangiando, parlava con lei. (...)
Parigi, più vasta dell’Oceano, brillava agli occhi di Emma in un’atmosfera vermiglia. La vita numerosa che si agitava in quel tumulto, era tuttavia divisa in parti, classificata in quadri distinti. Emma riusciva a distinguerne soltanto due o tre: questi le nascondevano tutti gli altri, rappresentavano da sé soli l’umanità intera. C’erano gli ambasciatori: camminavano sui lucidi pavimenti di legno, in saloni con le pareti di specchi, intorno a tavole ovali ricoperte di velluto frangiato d’oro. E vestiti con lo strascico, e profondi misteri, e angosce nascoste sotto il sorriso. C’era la società delle duchesse, pallide, che si alzavano alle quattro del pomeriggio; le donne, poveri angeli! portavano sottane con gli orli ricamati a punto inglese, e gli uomini, ingegni misconosciuti sotto le frivole apparenze, facevano sfiancare i loro cavalli in grandi cavalcate di piacere, andavano a trascorrere l’estate a Baden e, quando si avviavano alla quarantina, sposavano una ricca ereditiera. Nei salotti particolari dei ristoranti dove si cena dopo la mezzanotte, alla luce delle candele, rideva la folla variopinta dei letterati e delle attrici. Gente prodiga come re, piena di ambizioni ideali e di deliri fantastici. Una vita superiore, tra cielo e terra, tra le tempeste, sublime. Il resto dell’umanità era perduto, non aveva una situazione precisa, era come inesistente. D’altra parte, più le cose le erano vicine, più il suo pensiero se ne distoglieva. Tutto ciò che la circondava immediatamente, campagna noiosa, piccoli borghesi imbecilli, esistenza mediocre, le sembrava un’eccezione nel mondo, un caso particolare nel quale ella si trovava presa: di là, si stendeva a perdita d’occhio l’immenso paese delle felicità e delle passioni. Nel suo desiderio, confondeva le sensualità del lusso con le gioie del cuore, l’eleganza delle abitudini con la delicatezza dei sentimenti. Forse l’amore non aveva bisogno, come le piante indiane, di terreni preparati, di una temperatura speciale? I sospiri al chiaro di luna, i lunghi abbracci, le lacrime scorrenti sulle mani che si abbandonano, tutte le febbri della carne e i languori della tenerezza non si separavano per lei, dunque, dal balcone di un grande castello pieno di piaceri, da un salottino con le tende di seta e il tappeto morbido, da una giardiniera fiorita, da un letto alto su una pedana, dallo scintillio delle pietre preziose e dai galloni di una livrea.
Il ragazzo di scuderia che tutte le mattine veniva a governare la cavalla attraversava il corridoio con i suoi grossi zoccoli. Portava un camiciotto tutto bucato e aveva i piedi nudi nelle ciabatte. Questo era il groom in calzoni corti di cui bisognava contentarsi! Finito il suo lavoro, non tornava più per tutto il giorno. Perché Charles, quando rientrava, portava da sé la bestia nella stalla, le toglieva la sella, le infilava la cavezza, mentre la serva portava un fastello di paglia e lo buttava là, nella mangiatoia. (...)
Nel fondo della sua anima, Emma aspettava che qualche cosa accadesse. Come i marinai in pericolo, volgeva gli occhi disperata sulla solitudine della sua vita e cercava, lontano, una vela bianca tra le brume dell’orizzonte. Non sapeva che cosa l’aspettava, qual vento avrebbe spinto quella vela fino a lei, su quale riva l’avrebbe portata, né sapeva se sarebbe stata una scialuppa o un vascello a tre ponti, carico di angosce o pieno di felicità fino ai bordi. Ma tutte le mattine, svegliandosi, sperava che fosse il giorno buono, ascoltava ogni rumore, si alzava di colpo, si stupiva che non accadesse niente. Al tramonto, sempre più triste, desiderava di essere già al giorno successivo.
Venne di nuovo la primavera. Ai primi caldi, quando i peri cominciarono a fiorire ella ebbe qualche sensazione di soffocamento.
Fin dai primi giorni di luglio cominciò a contare sulle dita quante settimane dovevano passare perché arrivasse ottobre: pensava che, forse, il marchese di Andervilliers avrebbe dato un altro ballo alla Vaubyessard. Ma passò tutto settembre senza una lettera né una visita.
Dopo la noia succeduta a questa delusione, il suo cuore restò nuovamente vuoto, e allora ricominciò la serie delle giornate tutte uguali. Dunque, si sarebbero ormai susseguite così, una come l’altra, innumerevoli, senza niente di nuovo! Le altre esistenze, anche le più piatte, avevano almeno la possibilità di un avvenimento. Un’avventura si tirava dietro, talvolta, una infinità di peripezie. La scena cambiava. Ma a lei non accadeva niente. Dio aveva voluto così. L’avvenire era un nero corridoio: e, in fondo, c’era una porta chiusa.
Abbandonò anche la musica. Perché suonare? Chi sarebbe stato ad ascoltarla? Non valeva la pena di studiare, tanto lei non avrebbe mai potuto suonare in un concerto con un bel vestito di velluto a maniche corte su un pianoforte Érard, sfiorando con dita leggere i tasti d’avorio, sentendo intorno a sé, come una brezza, un mormorio d’estasi. Lasciò nell’armadio anche i cartoni per il disegno e il ricamo. A che cosa serviva? a che cosa? Cucire la irritava.
"Ho letto tutto", diceva a sé stessa.
E rimaneva a vedere le molle arroventarsi sul fuoco o a guardare la pioggia cadere.
Che tristezza la domenica quando sonava il vespro. Ascoltava in un’assorta ebetudine i rintocchi chiocci della campana che battevano a uno a uno. Un gatto se n’andava passo passo sui tetti, inarcando la schiena ai pallidi raggi del sole. Sulla strada principale, il vento sollevava nugoli di polvere. Di tanto in tanto, in lontananza, un cane ululava. E la campana continuava a intervalli regolari il suo rintoccare monotono, che si perdeva nella campagna.
La gente intanto usciva di chiesa. Le donne con gli zoccoli lucidati, i contadini con il camiciotto nuovo e, poi, i ragazzi saltellavano a testa nuda davanti a loro. Tutti tornavano a casa. Solo cinque o sei uomini, sempre gli stessi, restavano a tirare ai sugheri davanti al portone dell’albergo.
L’inverno fu freddo. I vetri delle finestre, la mattina erano coperti di ghiaccioli. La luce, attraversandoli, diventava biancastra come se passasse attraverso vetri smerigliati, talvolta rimaneva uguale per tutto il giorno. Alle quattro del pomeriggio, bisognava accendere la lampada.
Quand’era bel tempo, Emma scendeva in giardino. La brina aveva lasciato una trina d’argento sui cavoli e lunghi fili chiari tesi tra l’una e l’altra pianta. Non si sentivano gli uccelli, tutto pareva addormentato, anche gli alberi delle albicocche coperti di paglia, anche la vite, che pareva un grande serpente ammalato sotto l’aggetto del muro: se ci si avvicinava, si vedevano i millepiedi trascinarsi su tutte le loro zampine. Tra i piccoli abeti vicino alla siepe, il curato in tricorno che leggeva il breviario aveva perso il piede destro, e il gesso, che si squamava sotto il gelo, gli aveva incrostato una rogna bianca sul viso.
Poi rientrava in casa, chiudeva la porta, attizzava il fuoco e, quasi venendo a meno al calore del caminetto, sentiva la noia ripiombarle addosso, ancora più pesante. Le sarebbe piaciuto scendere a parlare con la serva, ma un pudore la tratteneva. (...)
Ma era soprattutto nelle ore dei pasti, in quella piccola stanza a pianterreno, con la stufa che fumigava, la porta che cigolava, i muri che trasudavano, il pavimento umido che ella sentiva di non poterne più; le sembrava che tutta l’amarezza della vita le venisse servita sul piatto; col fumo del lesso, salivano fiotti di disgusto dal fondo dell’anima sua. Charles mangiava con lentezza. Ella rosicchiava qualche nocciola o, appoggiata sul gomito, si divertiva a tracciare strisce con la punta del coltello sulla tela cerata.
Gustave Flaubert, Tutti i romanzi, a cura di M. Colesanti, Roma, Newton Compton, 1996
Flaubert tratteggia con rigore impassibile e serrata precisione i diversi fallimenti della sua "eroina" (il matrimonio con Charles – uomo tutt’altro che brillante e raffinato –, la deludente maternità, la breve relazione platonica con il giovane Léon, l’intenso amore per il leggero Rodolphe), tristi e pietose avventure cui Emma, in preda alla disperazione, porrà fine col suicidio.
In alcune delle pagine più riuscite del romanzo, mettendo alla berlina le vaghe e ambiziose aspirazioni di una Emma che si è nutrita fin dall’adolescenza dei grandi libri di Bernardin de Saint-Pierre, Chateaubriand e Scott, il narratore attacca indirettamente quel romanticismo che lo aveva entusiasmato all’epoca delle prime prove letterarie e che ora avverte come retorico, ripetitivo e inadeguato alle sue esigenze di rappresentazione artistica. Fra i non pochi personaggi memorabili del romanzo, è d’obbligo ricordare il farmacista Homais, la cui individualità gretta, meschina e appagata ben compendia le caratteristiche borghesi più aborrite dal sarcastico prosatore di Rouen. “Homais” – ha scritto Sainte-Beuve in un articolo, per certi versi ambiguo e modesto, dedicato a Madame Bovary – “l’abbiamo conosciuto e incontrato tutti, ma mai sotto un aspetto così florido e così trionfante: è l’uomo importante del luogo, degno di considerazione, a frasi fatte, che si vanta sempre, che si crede senza pregiudizi, enfatico e banale, abile, intrigante, che si avvale della stupidità stessa per il savoir faire; Homais, il Proudhomme della mezza scienza”.