Handicap
Handicap deriva dal nome di un gioco d'azzardo (hand in cap, "la mano nel cappello") con monete che si estraevano a sorte da un cappello. Il termine è passato poi nel linguaggio sportivo a indicare competizioni in cui vengono prese disposizioni di gara (per es. abbuoni di distanza) o di punteggio per ridurre lo svantaggio dei concorrenti manifestamente inferiori, e di qui, in senso traslato, è venuto a significare lo svantaggio, la situazione che mette in condizione di inferiorità e la condizione stessa di inferiorità. Attualmente handicap è il termine, notevolmente aspecifico, con cui si indica ogni difetto fisico o mentale o sensoriale che determina una minorazione nel soggetto che ne è portatore, nonché lo stato di bisogno che esso genera e alla cui correzione o compenso devono mirare gli interventi di carattere soprattutto sociale e psicologico.
di Giancarlo Urbinati
Per ovviare agli inconvenienti di una terminologia equivoca - i termini e le locuzioni descrittivi della minorazione dotati di una capacità definitoria abbastanza precisa vengono infatti spesso evitati, perché nella mentalità comune sono andati socialmente qualificando una qualche 'diversità' che si vuole in tal modo esorcizzare, e sostituiti con altri più sfumati, più involuti o del tutto eufemistici - l'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha elaborato una Classificazione internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli svantaggi esistenziali (WHO 1980), che rappresenta uno strumento culturale e operativo in grado di soddisfare le necessarie esigenze di omogeneità interpretativa e definitoria. Secondo questa classificazione, mentre per menomazione si deve intendere qualsiasi perdita o anormalità a carico di una struttura o di una funzione psicologica, fisiologica o anatomica, e per disabilità qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a menomazione) della capacità di compiere un'attività nel modo o nell'ampiezza considerati normali per un essere umano, l'handicap va invece considerato come la condizione di svantaggio, secondaria a una menomazione o a una disabilità, che in un certo soggetto limita o impedisce l'adempimento del ruolo ritenuto normale per esso in relazione all'età, al sesso e a fattori socioculturali.
La valutazione dell'handicap è condizionata da tre elementi principali: lo scostamento dalla normalità organica, funzionale e operativa, valutato come tale sia dal soggetto interessato sia dai membri del gruppo di cui egli è parte; valori culturali, quali il tempo, il luogo, la condizione sociale e il ruolo, per cui un individuo può essere considerato handicappato in un gruppo e non in un altro; la presenza di uno svantaggio per la persona colpita. Per l'incapacità o impossibilità del soggetto che ne è portatore di corrispondere ai modelli del suo particolare gruppo di appartenenza, l'handicap assume quindi carattere di fenomeno sociale, prima ancora che di ordine medico-biologico, e si connota per la sua neutralità riguardo ai fattori che l'hanno originato. È dunque l'allontanamento dalla norma la vera sostanza dell'handicap, anche nel caso in cui si tratti di un fenomeno non intenzionale e non avvertito dal soggetto o dovuto invece a una scelta consapevole: ne deriva sempre, comunque, una situazione di svantaggio. La sequenza di eventi che unisce la malattia alle sue conseguenze (menomazione-disabilità-handicap) può interrompersi a uno stadio qualsiasi, ovvero saltare alcuni passaggi. Così, si possono avere menomazione senza disabilità né handicap, oppure menomazione e handicap senza l'intermediario della disabilità, o ancora menomazione e disabilità senza handicap, o finanche handicap senza disabilità. Esempi di queste diverse situazioni sono rappresentati, rispettivamente: dalla presenza di una lieve malformazione che non comporti implicazioni funzionali o socialmente rilevanti; dalle alterazioni funzionali causa di disabilità, ma suscettibili di correzione, e che però in determinati contesti possono costituire condizioni di svantaggio; dalle menomazioni con disabilità che provocano svantaggio soltanto in dipendenza da fattori estrinseci; dalle fasi di remissione di condizioni morbose anche gravi, come per es. accade per talune psicosi, che in occasione degli episodi acuti sono causa di notevole disabilità, mentre al di fuori di questi danno luogo a svantaggio soltanto a motivo del marchio con cui segnano l'individuo che ne è portatore.
Notevole importanza deve essere assegnata ai fattori estrinseci (situazionali e ambientali), tanto che uno stesso handicap può essere il risultato di disabilità diverse, in rapporto alle differenti situazioni in cui è insorto. Comunque, esiste sempre un'interazione tra fattori intrinseci (rappresentati da qualsiasi menomazione o disabilità) e fattori estrinseci. La classificazione proposta dall'OMS ha cercato di portare chiarezza, soprattutto a livello concettuale ma anche terminologico, come precedentemente accennato, in una materia certamente assai complessa, e ancora più intricata dalla rete di relazioni che intercorrono tra i diversi momenti relativi alle conseguenze della malattia (menomazione, disabilità, handicap) nella loro successione logica e temporale, e tra questi (elementi intrinseci) e i fattori estrinseci. Poiché ciascuno di questi elementi fa riferimento a una normalità di cui rappresentano scostamenti, occorre dare una definizione della 'norma' in questione. Per i fenomeni di ordine quantitativo può risultare utile, soprattutto in quanto rispondente a criteri di rigorosa obiettività, il ricorso al concetto statistico di normalità, il quale permette di valutare il grado di conformità rispetto a un modello ideale, che presuppone l'esistenza di un livello-soglia; per quanto concerne quelli di tipo discreto, si potranno stabilire dei criteri standard per l'assegnazione alla classe dei casi conformi e di quelli divergenti. Non va però dimenticato che altri criteri di normalità sono determinati dalle relazioni sociali, che contribuiscono a produrre la situazione di svantaggio. A tale riguardo, tuttavia, l'OMS pone in rilievo come recentemente si sia osservata "una tendenza alla diffusione del concetto di handicap sociale, e ciò ha favorito l'attenzione verso problemi quali la povertà e le inadeguate condizioni abitative in misura sproporzionata rispetto alla loro diretta influenza sullo stato di salute", sottolineando però che "questa diluizione del concetto di handicap non è di aiuto, perché tende a rendere più ardua l'identificazione sia delle evenienze legate direttamente allo stato di salute che dei mezzi attraverso i quali esse possono essere controllate" (WHO 1980, trad. it., p. 26).
La classificazione si basa su tre diversi codici. Quella delle menomazioni (codice I, impairments) fa in linea generale riferimento alla International classification of diseases, prescindendo peraltro dalle cause, in quanto sono qui in primo piano le conseguenze funzionali delle varie condizioni morbose, indipendentemente dalla loro eziologia. La classificazione delle disabilità (codice D, disabilities) tiene invece conto dei comportamenti e delle attività più significative della vita di ogni giorno, non trascurando quindi la specificazione dell'ambiente, il cui rapporto con la persona è importante per valutare le potenzialità funzionali di questa. La classificazione degli handicap (codice H, handicaps), infine, si basa fondamentalmente sull'analisi di sei diverse dimensioni (orientamento, indipendenza fisica, mobilità, occupazione, integrazione sociale, autosufficienza economica), definibili come 'funzioni della sopravvivenza', mentre si occupa scarsamente delle forme di svantaggio che non siano quelle correlate con tali funzioni. Essa fa inoltre giustizia dell'identificazione dello svantaggio con la dipendenza in generale, in quanto ritiene che questa identificazione finisca con il nascondere quelle necessità sociali che, se affrontate, possono invece contribuire a superare almeno in parte la condizione di svantaggio. Seguendo l'impostazione concettuale che sta alla base della classificazione proposta, quella umana viene definita piuttosto come una condizione di interdipendenza in cui, ai fini della sopravvivenza, le relazioni sociali hanno un'importanza altrettanto grande della soddisfazione dei bisogni fisiologici primari. In ciascuna delle sei dimensioni elencate, gli handicap vengono classificati secondo scale categoriche.
Così, gli handicap dell'orientamento (inteso come capacità soggettiva di orientarsi in relazione all'ambiente circostante) prevedono una scala di categorie comprendenti: i disturbi dell'orientamento completamente compensati grazie al ricorso a sussidi o farmaci, le alterazioni discontinue dell'orientamento (per es., vertigini, diplopia, epilessia, balbuzie), i disturbi dell'orientamento solo parzialmente compensati, quelli di grado moderato, quelli gravi, la perdita dell'orientamento, il disorientamento e, infine, gli stati di incoscienza. Gli handicap nell'indipendenza fisica, cioè nella capacità individuale di mantenere un'esistenza effettivamente indipendente, si classificano nelle seguenti categorie: l'indipendenza assistita, l'indipendenza subordinata (a condizioni ambientali e culturali), la dipendenza situazionale, la dipendenza periodica rarefatta, la dipendenza periodica ravvicinata, la dipendenza da emergenza critica, la dipendenza da peculiare aiuto, e la dipendenza da assistenza intensiva. Anche per quanto riguarda gli handicap nella mobilità, vale a dire nella capacità del soggetto di muoversi con proprietà nel suo ambiente, si ravvisano diverse categorie, che vanno dalla limitazione di grado variabile alla compromissione e alla riduzione di tale capacità, alla relegazione nell'ambiente circostante o nell'abitazione o su di una sedia, fino alla limitazione assoluta della mobilità. Gli handicap occupazionali, che riguardano l'abilità dell'individuo a impiegare il proprio tempo in modo appropriato rispetto al suo sesso, alla sua età e al suo grado di istruzione, si classificano secondo una scala che comprende vari gradi di interessamento dell'impegno occupazionale: periodicamente impedito, incompleto, modificato, limitato, relegato, assente, e impossibile per l'assoluta incapacità di occupare sé stessi in una qualsiasi ragionevole maniera. Gli handicap nell'integrazione sociale, cioè nella capacità individuale di partecipare e di mantenere le usuali relazioni sociali, vengono distinti nei differenti livelli di partecipazione (inibita, limitata, diminuita) e di relazioni (ridotte e disturbate), ma comprendono anche le categorie degli alienati e dei soggetti socialmente isolati. Altri handicap si configurano negli svantaggi di grado minore (emendabili con il ricorso a sussidi o medicazioni per il controllo delle disabilità che li generano), in quelli non specificati, cioè di carattere generale (per es., il morbo celiaco o lo stato di salute cagionevole), e in altri specificati ma non classificabili in nessuna delle categorie riguardanti le diverse funzioni della sopravvivenza. Infine, gli handicap nell'autosufficienza economica, ovvero quelli riguardanti la capacità di mantenere un'attività socioeconomica e un'indipendenza grazie al lavoro o all'utilizzo di beni materiali, vengono classificati secondo una scala di possibilità progressivamente decrescente, culminante nella completa inattività economica; questa categorizzazione prende in considerazione anche l'autosufficienza della famiglia, in modo da non dovere tener conto della condizione di dipendenza del soggetto. In complesso, la classificazione proposta dall'OMS non pretende di esaurire tutte le possibilità di inquadramento delle situazioni di svantaggio, ma certamente copre almeno quelli che possono essere considerati i livelli più bassi e prioritari della scala dei bisogni, e che corrispondono alle necessità fisiologiche, sociali, nonché di sicurezza. Infatti, è soltanto dopo che tali necessità siano state soddisfatte che potranno venire affrontate esigenze di tipo superiore, rappresentate, al grado massimo, dalla realizzazione di sé.
di Olga Capirci
I.
Nelle società agricole primitive la persona con handicap aveva un suo ruolo e una sua identità: come i vecchi, così gli invalidi fisici o le persone affette da disturbi psichici erano tollerati, se non accettati, senza eccessivi problemi. Nel cristianesimo medievale la persona colpita dal 'male' diventava oggetto di beneficenza, elemosina, assistenza, in quanto si riteneva, grazie a tale aiuto, di ottenere meriti per la salvezza eterna e di estinguere i peccati. Il problema era visto solo in termini caritativi, non in una dimensione sociale, e quindi di competenza della Chiesa e non dello Stato. Soltanto a partire dal 15° secolo, con lo sviluppo della società urbana, l'assistenza assunse le prime forme giuridiche, anche se in senso puramente negativo. La persona disabile, nel contesto dei nuovi fenomeni di pauperismo e di mendicità, non venne più tollerata perché fonte di turbamento dell'ordine pubblico. Le prime risposte degli Stati europei ai bisogni assistenziali si configurarono in un'ottica puramente repressiva e si espressero in interventi polizieschi e reclusioni di massa dei poveri e dei diversi, compresi quanti avevano deficit fisici e psichici. In Italia, in assenza di un forte potere statale, pie fondazioni, ospizi e ospedali divennero il punto di forza della terapia-isolamento, volta soprattutto a salvare gli altri dal 'contagio'.
Per la prima volta, tra 18° e 19° secolo, nell'ambito della cultura illuminista e positivista, alla concezione caritativo-repressiva fu contrapposta quella dell'assistenza come diritto del cittadino e dovere dello Stato. Nacque anche un interesse educativo nei confronti dell'handicap, che potremmo rintracciare nella sfida pedagogica che animò, alla fine del Settecento, J.-M.-G. Itard nei confronti di Ph. Pinel, direttore dell'ospedale psichiatrico parigino di Picètre, sul caso del ragazzo sauvage trovato nei boschi dell'Aveyron e dichiarato da Pinel irrecuperabile a causa di lesioni irreversibili agli organi cerebrali, laddove Itard chiese e ottenne il suo affidamento per avviare un'azione rieducativa. Il dibattito sull'handicap si è dunque sviluppato intorno a due concezioni, a volte contrapposte oppure alla ricerca di una integrazione: una di derivazione medico-sanitaria e l'altra di impostazione educativo-culturale. Secondo l'ottica medica, prevalente nel passato, la persona handicappata viene analizzata solo dal punto di vista del deficit e viene valutato quanto si avvicini o meno a un modello di persona 'normale': ci si è posti cioè solo dalla parte della mancanza o anomalia fisica o mentale. Partendo da questa prospettiva, bisogna preoccuparsi soprattutto di 'riparare' o 'ricostruire' la parte deficitaria, mediante interventi chirurgici, farmacologici o strumentali (quali occhiali, apparecchi acustici, protesi di vari tipi). Secondo l'ottica educativo-culturale, invece, ridurre l'handicappato al suo deficit, per cercare di compensarlo con interventi incentrati soltanto sulla minorazione, è un errore. In questo modo, infatti, si perde di vista la globalità della persona e si indirizzano le attenzioni più ai suoi limiti che alle sue possibilità. Bisogna piuttosto lavorare per fare in modo che, partendo da un determinato deficit, ne consegua il minimo numero di handicap possibili; vale a dire che la persona possa avere il più ampio accesso alla vita sociale.
Nella pratica operativa questo si traduce, in primo luogo, nell'impostare un percorso di educazione o rieducazione che faccia leva innanzitutto sulle capacità e potenzialità del soggetto piuttosto che sulle sue incapacità o impossibilità, e che quindi sia indirizzato alla ricerca di canali e modalità comunicative e didattiche diversi e a lui più congeniali. In secondo luogo, vista la natura sociale dell'handicap, l'attenzione deve essere indirizzata non solo all'individuo portatore di deficit, ma anche e soprattutto all'intera società che, lontana da un'ottica assistenzialistica e pietistica, deve piuttosto riconoscere i diritti di tutti i cittadini e, quindi, ricercare e approntare mezzi per permettere anche ai portatori di deficit il completo accesso alla vita sociale.
Nel corso del tempo queste due ottiche si sono progressivamente avvicinate, sino a fondersi in una nuova prospettiva che affronta l'handicap con un approccio interdisciplinare. Possiamo dunque individuare sul piano dell'evoluzione storica degli ultimi due secoli (19° e 20°) tre grandi periodi. Gli orientamenti teorici e pratici del secolo scorso concepivano l'uomo come semplice macchina biologica. I problemi delle menomazioni e delle patologie funzionali erano visti quasi esclusivamente da un punto di vista medico, come accennato, ossia erano assoggettati a criteri vitalistici, a misure igieniche e alle conquiste farmacologiche e strumentali della medicina. Si faceva ricorso a classificazioni della malattia in base al danno fisico o alla sua eziologia, trascurando i risvolti psicologici e sociali. Veniva quindi separato il concetto di malattia dal soggetto che ne è portatore, e questo significava operare una distinzione non solo tra il corpo e la mente, ma anche nelle relazioni che intercorrono fra il deficit, la disabilità e l'handicap, cioè tra le reazioni dell'individuo e quelle di coloro che lo circondano.
Tra gli anni Venti e gli anni Sessanta del 20° secolo si è assistito, accanto alle interpretazioni più specifiche delle sindromi deficitarie, al fiorire della sperimentazione di alcune tecniche riabilitative, grazie ai progressi scientifici della pediatria, della psicologia e della psicoanalisi. Sul piano operativo l'accento si è spostato da una fase di misconoscimento a una considerazione dell'handicap come malattia che deve essere curata in strutture separate. Dagli anni Sessanta in poi sul piano della ricerca, per la convergenza di nuove discipline in campo scientifico, l'analisi delle minorazioni, della patologia e dei problemi di riabilitazione si è collocata in zone di confine tra scienze biologiche e scienze umane. I contributi significativi di discipline quali l'epistemologia genetica, la psicolinguistica, la neuropsicologia, portano a una certa unitarietà di orientamenti e scopi nuovi. La ricerca si muove in direzione clinico-psicologica e riabilitativa verso l'individuazione di modelli interpretativi e quadri nosografici sempre più coerenti tra competenze funzionali e abilità prestazionali. Sul piano dei mutamenti socioculturali, a partire dagli anni Settanta, il movimento di integrazione sociale degli handicappati ha influenzato la politica socioassistenziale, determinando il passaggio da una visione medica e classificatoria della minorazione a una presa di coscienza degli aspetti psicologici individuali e relazionali dell'handicappato, e facendo sorgere l'esigenza di coniugare la prognosi clinica con l'intervento educativo e sociale. A questa nuova prospettiva, che vede in una concezione psicopedagogica e interdisciplinare il problema dell'handicap, si sta allineando anche l'indirizzo di alcuni documenti legislativi che sono stati elaborati nell'ultimo decennio del 20° secolo.
2.
Percorrere le tappe che hanno segnato la storia della legislazione per i disabili, significa anche capire come, quando e quanto è cambiata la concezione sull'handicap. Si è trattato di un'evoluzione lenta, frammentaria e talora contraddittoria, la cui disorganicità e lacunosità sono evidenziate, ancora una volta, dalla confusione terminologica espressa, da un lato, dalla proliferazione di diverse denominazioni all'interno di provvedimenti legislativi anche recenti (subnormali, minorati, disabili, inabili, portatori di menomazioni fisiche e sensoriali) e, dall'altro lato, dal continuo ricorso, nell'immediato passato, alla terminologia anglosassone. Locuzioni e termini quali persona handicappata e disabile hanno fatto la loro apparizione solo recentemente e hanno trovato una prima definizione di carattere giuridico soltanto con la legge-quadro 5 febbraio 1992, nr. 104. Lo Stato era intervenuto per la prima volta con specifici provvedimenti diretti ai portatori di handicap soltanto nel 1917. Le caratteristiche fondamentali della legislazione di questo primo periodo furono la settorialità e la specificità degli interventi (divisione dei cittadini con handicap in categorie), la 'monetizzazione' dell'handicap (assistenza quasi esclusivamente consistente in erogazione di denaro) e la logica della separazione dal contesto sociale. Le leggi riguardarono inizialmente soltanto la categoria degli invalidi e dei mutilati di guerra, cui in seguito si aggiunsero altre categorie (invalidi per lavoro e per servizio, ciechi e sordomuti) per le quali furono previste differenti forme di assistenza. Nel settore educativo-scolastico, con la Riforma Gentile del 1923 si estese l'istruzione obbligatoria ai ciechi e ai sordomuti e, nel 1928, furono istituite le classi differenziali e le scuole speciali.
La Costituzione repubblicana (1948) riconobbe precisi e uguali diritti a tutti i cittadini (artt. 3 e 34), compresi gli 'inabili' e 'minorati' (art. 38). Tuttavia, almeno fino agli anni Sessanta del 20° secolo i principi costituzionali non trovarono un completo riscontro nella legislazione ordinaria. Fra gli anni Cinquanta e Settanta si avvicendarono provvedimenti settoriali e specifici, che riguardavano ancora una volta per lo più forme di assistenza economica, sanitaria e di inserimento al lavoro. Soltanto agli inizi degli anni Settanta si ebbe una crescente produzione legislativa che, a livello sia statale sia regionale, allargava le conquiste dei cittadini disabili. Alla fine degli anni Ottanta era dunque presente una legislazione vasta ma settoriale, disorganica, frammentaria e largamente inapplicata. Maturò così l'esigenza di formulare un intervento legislativo organico che definisse tutti i diritti dei portatori di handicap e che coordinasse l'attività legislativa delle regioni. La legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate (l. 104/92) ha segnato un'inversione di tendenza rispetto al passato e aperto un nuovo capitolo per l'effettiva integrazione dei disabili. La legge per la prima volta esprime una concezione sociale della persona con handicap, la pone nella sua globalità, considerandola nel suo sviluppo unitario dalla nascita alla presenza nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nel tempo libero, segnando dunque il passaggio dallo Stato assistenziale allo Stato sociale. Nell'esplicitazione delle finalità della legge, oltre a garantire il pieno rispetto dei diritti e della dignità della persona disabile, si insiste sulla necessità di rimuovere le situazioni invalidanti e di predisporre interventi che evitino processi di emarginazione e permettano, invece, la massima autonomia e partecipazione. I diritti civili delle persone con handicap riguardano tutti gli aspetti della vita sociale: assistenza; integrazione scolastica; formazione professionale; inserimento nel mondo del lavoro; mobilità, tempo libero, sport e vacanze; accesso all'informazione e alla comunicazione. Sul piano istituzionale e organizzativo, la legge rappresenta il superamento della frammentazione delle competenze e della settorialità delle prestazioni, prevedendo l'azione coordinata delle istituzioni centrali accanto a una maggiore responsabilizzazione degli enti locali e al coinvolgimento di istituzioni sociali all'interno di una struttura integrata di rapporti.
3.
Il problema dell'inserimento scolastico dei bambini handicappati fu affrontato per la prima volta in Italia a livello statale nel 1974, anno in cui una commissione del Ministero della Pubblica Istruzione iniziò i lavori sul tema. Il documento conclusivo fu la base per l'emanazione di circolari, decreti e leggi, al fine di avviare gradualmente il processo integrativo. Il 4 agosto 1977 fu emanata la l. nr. 517 che regolamentava, tra l'altro, il numero degli alunni per classe, l'attività di sostegno che doveva essere svolta da insegnanti specializzati e l'attività delle équipe specialistiche. Successivamente, la l. 20 maggio 1982, nr. 270, previde l'inserimento dei bambini handicappati anche nelle scuole materne statali. Infine, dal 1992 la legge-quadro nr. 104, già ricordata, sancisce il diritto allo studio e l'integrazione in tutti i gradi di istruzione: asili nido, scuola materna, scuola dell'obbligo, scuole superiori e università. Si afferma, inoltre, il principio che il diritto allo studio debba essere esercitato senza limiti, riserve e condizioni: "L'integrazione scolastica ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell'apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione" (art. 12, comma 3). La legge non si limita a enunciare principi, ma comprende anche innovative disposizioni operative e indica le specifiche procedure da seguire. Tali disposizioni chiamano in causa direttamente le principali istituzioni extrascolastiche che devono concorrere all'attuazione dei processi di integrazione e, in particolare, la famiglia e l'Azienda sanitaria locale (ASL).
I problemi dell'educazione del bambino handicappato sono a volte più complessi per l'incomprensione e l'isolamento della famiglia e dell'ambiente in cui egli cresce. Molto spesso la nascita di un bambino con difficoltà fa scattare nei genitori un senso di colpa non giustificato e meccanismi di rifiuto nei confronti del dolore e dell'obbligo di affrontare una lunga via faticosa e incerta. In molti casi tale rifiuto si stempera e dà luogo a un rapporto sufficientemente equilibrato e sereno che essi riescono a stabilire con il proprio figlio, favorendone un armonico sviluppo. In altri contesti, invece, può accadere che sia impossibile liberarsi di questo sentimento, con conseguenti tensioni familiari, accuse reciproche, abbandono affettivo del figlio, o, al contrario, con il rischio di sviluppare un amore esagerato, iperprotettivo, che può nascondere l'ansia di cancellare la minorazione. Per il bambino le conseguenze di questi comportamenti sono, in genere, l'isolamento, con il pericolo di perdere la possibilità di interagire con la realtà, oppure la disponibilità di tempo per il gioco, a favore di un sovraccarico di impegni nello studio e nella terapia riabilitativa.
L'elaborazione e l'accettazione del deficit da parte dei genitori si esprimono anche negli investimenti e aspettative verso il proprio figlio. Se essi accettano il deficit non tendono ad abbassare le loro aspettative e i loro investimenti sul bambino, ma continuano con costanza e coerenza a offrire un contesto comunicativo ed educativo stimolante e ricco. Al contrario, se manca una reale accettazione della diversità, tendono o ad aspettarsi troppo dal loro bambino, idealizzandolo e negando le sue difficoltà e fatiche, oppure non si aspettano nulla, trascurando le sue reali capacità e sono portati a fare delle scelte (per es. educativo-scolastiche) troppo limitanti. Allo stesso tempo, il genitore che non ha elaborato e accettato il deficit del proprio figlio avrà delle reticenze o difficoltà a favorirlo e stimolarlo verso una crescita autonoma, o per un eccesso di protezione o per paura di un allontanamento del bambino. L'atteggiamento della famiglia può dipendere in larga misura dalla quantità e qualità delle informazioni che essa riceve circa la causa e lo sviluppo dell'handicap. Per questo motivo è di fondamentale importanza offrire alle famiglie, nel momento della 'scoperta' del deficit, tanto un sostegno psicologico per agire sui sensi di impotenza e di colpa, quanto una chiara e completa informazione, che sappia indicare i punti su cui realizzare un quadro di vita utilmente impegnato, in modo tale da permettere al genitore di mobilitare tutte le sue risorse e assumere un atteggiamento di valorizzazione delle anche piccole abilità del bambino.
Molto spesso è alla scuola che viene demandato il compito di avviare a una vera integrazione sociale della persona handicappata. L'istituzione scolastica rappresenta un momento centrale dell'educazione in generale, ed è proprio in riferimento a essa che si organizzano altri momenti educativi, fra cui anche l'educazione familiare. Di fronte alla presenza di un alunno handicappato, nell'insegnante il più delle volte scattano ancora ansia, conflitti emozionali, senso d'impotenza, paura del nuovo, perché, come il genitore, è anch'egli vittima di pregiudizi storici e sociologici a causa della mancanza di una corretta informazione e preparazione professionale specializzata. L'insegnante può allora sviluppare delle reazioni, più o meno consapevoli, di non accettazione del bambino, e quindi di rinuncia all'impegno educativo: può non ritenersi preparato per il compito e quindi delegare agli specialisti, medici o insegnanti di sostegno; può ritenere impossibile l'intervento educativo nei confronti di quel bambino, riconoscendogli un livello di competenza inferiore agli altri e riducendo le aspettative nei suoi confronti; può, ancora, sviluppare un'accettazione pietistica fondata su luoghi comuni consolatori e gratificanti, sviluppando così atteggiamenti materni di protezione, come se la bontà e l'amore, anche senza impegno educativo, potessero di per sé compiere il miracolo. Ognuno di questi atteggiamenti comporta delle conseguenze fortemente negative nei confronti del bambino handicappato a danno della sua reale integrazione, intesa nei termini di pieno sviluppo sia scolastico sia sociale.
L'assunzione di responsabilità e l'accettazione dell'identità del bambino, da parte degli insegnanti, sono dunque la condizione indispensabile per impostare ogni rapporto educativo altrimenti destinato al fallimento. La semplice presenza di un alunno con handicap in una classe di 'normali' non costituisce, in realtà, la testimonianza di un'integrazione riuscita. Una persona è integrata non solo quando appartiene nominalmente a un gruppo che la accoglie, ma quando di questo gruppo condivide le attività e gli obiettivi. Immettere un 'diverso' in un insieme di uguali non significa, quindi, compiere un'operazione di puro e semplice inserimento, né attivare una dinamica di generica socializzazione: il verbo 'integrare' si riferisce all'azione di rendere intero, compiuto, un individuo, aggiungendo ciò che a lui manca. L'integrazione, come progetto e come traguardo di pieno sviluppo dell'individuo, presenta un aspetto scolastico e uno sociale. In realtà, gli aspetti socioaffettivi e quelli didattici dell'integrazione sono complementari, dal momento che le relazioni instaurate all'interno del gruppo classe devono essere inserite fra le variabili che intervengono nel processo globale di maturazione di ogni alunno. Il bambino handicappato, che con la sua diversità rompe gli schemi rigidi e abitudinari, può contribuire a rinnovare la scuola e il ruolo tradizionalmente attribuito all'insegnante, non soltanto sul versante didattico-pedagogico, ma soprattutto nelle modalità di lavoro individuale. Quando la scuola supera l'isolamento e gli insegnanti escono dalla 'loro' classe, comunicano e socializzano le esperienze, programmano e verificano insieme gli interventi, allora diminuiscono l'ansia e la paura dell'insuccesso personale e aumentano le capacità di affrontare le situazioni nuove. In questa prospettiva (aperta dalla l. 104/92 che prevede la presenza di 'gruppi di lavoro' cui partecipano, insieme agli insegnanti, gli operatori delle ASL, le famiglie, le associazioni delle persone handicappate), in cui diventano più flessibili i ruoli e i rapporti genitori/insegnanti/specialisti, si passa dalla delega alla collaborazione in un contesto di responsabilità collettiva.
di Paolo Casini
I problemi della disabilità fisica o mentale sono stati affrontati negli ultimi decenni con sensibilità nuova e hanno ottenuto grande attenzione soprattutto sul piano medico, assistenziale, legislativo, organizzativo. Un momento importante di presa di coscienza di questi problemi fu segnato, in senso non soltanto simbolico ma operativo, dall'OMS, che proclamò il 1981 'anno dell'handicappato'. Negli ultimi decenni del 20° secolo, come ricordato sopra, molte cose sono cambiate. È stato accantonato l'inveterato costume di indifferenza e di emarginazione nei confronti dei disabili; si sono modificati i trattamenti, si sono corrette le leggi e sono state introdotte facilitazioni a loro vantaggio. Tuttavia - come dimostra l'ampia letteratura fiorita sull'argomento - la sensibilità diffusa, le pratiche d'intervento, lo slancio filantropico che hanno concorso ad avviare una miglior presa di coscienza dei problemi di assistenza agli inabili, non esauriscono gli spinosi e difficili quesiti di fondo che si pongono sul terreno della morale sociale e della bioetica. Da quesiti di questa natura dipendono le scelte più difficili, a volte radicali, che non riguardano soltanto la vita quotidiana e la qualità della vita di singoli, famiglie o intere comunità, ma implicano un rapporto conflittuale con valori giuridici, filosofici, etici (o etico-religiosi) non di rado sottaciuti o formulati in modo vago e contraddittorio. Da tutto ciò scaturiscono le diatribe confuse e spesso inconcludenti circa i principi, i valori, i codici dei diritti e doveri, e di conseguenza le azioni di prevenzione, gli interventi terapeutici, le misure assistenziali e correttive, e le difficilissime scelte tra la sfera del lecito e quella dell'illecito. Come sempre accade quando sono in gioco i 'massimi problemi', si generano controversie e conflitti.
È inevitabile guardare a un orizzonte più vasto e porsi alcune domande di natura teorica. Una scuola di pensiero dominante ha tradizionalmente sottoposto le regole di comportamento, le norme giuridiche, i principi morali socialmente accettati, a coppie di giudizi dicotomici - per es., giusto/ingiusto, bello/brutto, sano/malato, lecito/illecito, normale/anormale e così via - come se si trattasse di alternative immutabili, da sempre inscritte nella natura umana oppure imposte da una 'legge di natura'. La tradizione filosofica su cui si fonda lo ius naturae di tradizione romanistica (giusnaturalismo) ha ritenuto di collocare sulla solida roccia dell'assoluto i suoi criteri di valore metastorici, ipostatizzandoli come veri e propri modelli del vero e del falso, del giusto e dell'ingiusto, del buono e del cattivo, validi in ogni tempo, luogo, società. Altre scuole di pensiero, di tendenza empirista, scettica, o comunque attente alla relatività dei sistemi di valori, hanno invece posto tali alternative sul terreno assai più friabile delle credenze, opinioni, usanze, dei costumi, pregiudizi o modelli di fattura umana, soggetti al flusso delle incessanti vicissitudini storiche. Da questo secondo punto di vista, i criteri di comportamento e di giudizio si riferiscono a valori contingenti o a semplici convenzioni. Ancora, da circa un secolo e mezzo il lavoro degli etnologi e degli antropologi ha contribuito a documentare la relatività e provvisorietà di quella che un tempo veniva definita in astratto 'natura umana'. All'antico orgoglio eurocentrico, che misurava il mondo con il proprio metro, è subentrata la capacità di valutare secondo criteri adeguati l'altro, il diverso, l'esotico, il primitivo, il selvaggio: ovvero le società, i sistemi di valori, le mentalità prelogiche, le religioni, i costumi, che un tempo erano considerati aberranti rispetto alla norma occidentale.
Anche la ricerca scientifica moderna ha contribuito a tale svolta. I paradigmi dominanti della scienza antica riflettevano in natura pure astrazioni logiche: si pensi, per es., ai concetti di genere e specie della zoologia e botanica aristoteliche che hanno condizionato per venti secoli i tentativi di creare una tassonomia dei viventi. In origine, erano tipi ideali legati a concetti metafisici, quali la plenitudo delle forme nella sfera dell'assoluto e la scala naturae. Ciascun essere occupava in natura una nicchia precisa; ogni lieve variazione che discostasse un individuo dal genus proximum e dalla differentia specifica già fissati era ritenuta un dato trasgressivo, fuori della normalità, tutt'al più degno di osservazione teratologica. Abbondavano i lusus naturae e i mirabilia, quali i reperti fossili irriducibili alle forme note; gli Anfibi, al confine tra gli esseri terrestri e i marini, e le loro proiezioni mitologiche; i Molluschi, le conchiglie e gli Zoofiti, un po' vegetali e un po' animali (per es. l'idra d'acqua dolce, con il suo curioso modo di riprodursi per gemmazione). Questi scherzi di natura intermedi tra le specie erano ritenuti deviazioni 'mostruose' dalla norma; si trattava, in realtà, di un pregiudizio, connesso alla limitatezza delle conoscenze sperimentali e all'angustia delle classificazioni. Ci sono voluti secoli - dalle congetture dei primi 'trasformisti' (P.-L. Maupertuis, G.-L. Buffon, J.-B. Lamarck) fino alla pubblicazione dell'Origine delle specie di Ch. Darwin (1859) - per comprendere la precarietà dei criteri tassonomici di origine aristotelica e reinterpretare i generi e le specie come stadi effimeri di un immenso processo evolutivo dotato di certi meccanismi di selezione naturale e di adattamento all'ambiente. Fu così possibile far rientrare nell'albero della vita anche i fossili e le forme viventi fino allora considerate come devianti, gli scarti e i mostri. Considerazioni analoghe si potrebbero fare a proposito delle illusioni platonico-pitagoriche riguardo ai numeri perfetti, agli accordi musicali perfetti, ai cinque solidi regolari e alla sfera, che dominarono l'astronomia fino a Galileo e Keplero. Soltanto all'inizio del 17° secolo svanì l'antica fede nelle forme 'perfette' dei corpi celesti, considerati oggetti privilegiati della scienza stereometrica e modelli della creazione nel contesto dell'armonia cosmica; mentre nel mondo sublunare le meteore e le aurore boreali figuravano come fenomeni aberranti, imputabili a processi di generazione e di corruzione privi di leggi precise.
Tornando alle dicotomie nette sopra esemplificate - per es., sano/malato, normale/patologico - gli schemi di giudizio che trascurano le sfumature intermedie si trovano non solo nella 'materia medica' come espressione di una certa idealizzazione delle funzioni vitali e della natura, che ha pure una sua precisa normatività naturalistica e terapeutica, ma anche nei domini ben più antropomorfi e arbitrari delle arti figurative e delle teorie del bello. Si pensi, infatti, alle nette distinzioni, vigenti nella tradizione artistica 'classica', tra il normale e l'anormale, il conforme e il deforme, il perfetto e il degenere e via dicendo. È ben noto, per es., che i criteri della bellezza o perfezione della figura umana, raffigurati dall'arte greca, poi canonizzati dal gusto neoclassico, erano paradigmi costruiti mediante un'intensa opera di idealizzazione e di astrazione rispetto al reale; si trattava di proiezioni immaginarie che in origine avevano dato corpo a immagini umane-divine della religione olimpica, nel quadro di una creazione estetica destinata a scopi rituali e sacrali. All'altro estremo della scala dei valori c'erano i demoni e i mostri, oggetti di rappresentazioni orride e apotropaiche. Dal punto di vista del gusto classico, non poche creazioni delle arti plastiche e figurative medievali furono per lungo tempo ritenute 'gotiche', appellativo che implicava un giudizio di disvalore, una riprovazione per ciò che appariva in esse di irregolare e deforme.
Questi accenni dovrebbero far riflettere sul fatto che in tutti i campi della conoscenza vi sono abitudini di pensiero che nascono, convivono e diventano obsolete in modi più o meno consimili. Nel mondo antico, la cultura di Sparta non produsse in proprio rilevanti immagini artistico-religiose, ma impose - ispirandosi alla rigida etica eroica e militare della costituzione di Licurgo - i noti, proverbiali criteri di eugenetica e di educazione. Lo scopo delle pratiche selettive e pedagogiche spartane era di ottenere esemplari di esseri umani quasi perfetti, destinati alla riproduzione, alla competizione sportiva e alla guerra. Tutto quello che non era conforme agli standard veniva inesorabilmente rigettato. Tra quelli che appaiono a noi artifici bizzarri dell'educazione spartana, riferiti da Plutarco e da altri scrittori, si possono citare queste celebri e crudeli parole della Vita di Licurgo (par. 16): "Il figlio nasceva, ma il padre non era padrone di allevarlo, bensì lo portava in un edificio pubblico, chiamato λέσχη, ove gli anziani di una tribù, riuniti in consesso, esaminavano accuratamente il bambino. Se lo trovavano di costituzione sana e robusta, lo facevano allevare e assegnavano per il suo mantenimento uno dei novemila lotti di terra; se invece sembrava loro malformato e deforme, lo spedivano a una voragine presso il monte Taigeto, chiamata ἀποθήκη, ossia deposito, nella persuasione che quando uno non è stato dotato dalla natura fin dall'inizio degli elementi necessari per essere sano e robusto, non è vantaggioso né per lui né per la città di vivere". Si può riflettere sull'estrema rozzezza dei criteri selettivi spartani, i quali non erano certo privi di valori, ma risultavano piuttosto ispirati a paradigmi 'aristocratici' o pseudoascetici, dei quali facevano parte anche l'ossessiva volontà di sopraffazione del nemico in guerra, l'orgoglio municipale, la gratificante appartenenza a una casta che escludeva la plebe e gli iloti: tutti elementi che fanno parte dell'immagine di un'umanità dura, arcaica, primordiale, nutrita di egocentrismo e di istinti regressivi.
Come si sa, analoghe tentazioni si sono riaffacciate nell'Europa moderna. Vi fu tra fine Ottocento e primo Novecento una variante della teoria dell'evoluzione - il darwinismo sociale - che mise a punto gli ingredienti di una concezione razzista e pseudoscientifica destinata a giustificare, all'interno delle civiltà occidentali, la naturale superiorità delle élite vincenti, aggressive, avide di profitti, rispetto alle classi deboli e subalterne; e a diffondere, sul piano mondiale, le ideologie colonialiste e schiaviste, offrendo un supporto pseudoteorico al secolare pregiudizio dell'eccellenza eugenetica della razza bianca rispetto alle popolazioni di colore. Un'ulteriore variante del darwinismo sociale fu l'ideologia 'ariana' dei nazisti: il tristemente noto fanatismo razzista che pretese di darsi un fondamento scientifico per praticare lo sterminio di massa e il genocidio su milioni di 'estranei'. L'arcaico mito spartano si ripresentava in un contesto irrazionalistico inquietante, con l'esaltazione pseudopagana della prestanza fisica e sportiva, l'eliminazione dei deboli, il massacro degli innocenti, la proscrizione dei diversi e dei meno adatti.
Queste riflessioni su casi estremi giovano a farci comprendere come anche la quotidiana violenza o la semplice indifferenza nei confronti dei diversi, l'emarginazione dei deboli che di fatto discrimina le vittime di menomazioni fisiche o mentali, dipendono non di rado da alcuni pregiudizi ben radicati, da convinzioni immemorabili, delle quali si ricerca una giustificazione a livello cosciente mediante ragioni che tentano di spacciare valori e disvalori definiti senza sfumature, in modo, come si è visto, rigidamente dogmatico e dicotomico.
Risulta inevitabile che la campagna di persuasione muova proprio dalla rimozione dei pregiudizi, dalla sensibilizzazione ai valori alternativi, come il riconoscimento della sostanziale unità della condizione umana su scala evolutiva, la solidarietà, il dovere della reciprocità nei rapporti sociali. I diritti-doveri verso gli inabili devono essere fondati su ragioni di natura scientifica e insieme bioetica, quali la provvisorietà e aleatorietà delle distinzioni tra sano e patologico, normale e anormale, perfetto e imperfetto. La teoria evoluzionistica e la genetica moderna hanno prodotto straordinarie conferme alle prime intuizioni degli evoluzionisti predarwiniani: dopo la scoperta del codice genetico, la biochimica è riuscita a penetrare nelle complicatissime strutture della cellula e nei delicati meccanismi dell'ereditarietà biologica, rivelando il complesso - e spesso imprevedibile - gioco del caso e della necessità. Le nozioni di leggi e regolarità della natura, soprattutto nell'evoluzione delle specie viventi, non escludono quella di potenzialità latente di errori. Ampliatasi la sfera del noto, e quindi del prevedibile, la sfera dell'imprevisto e dell'accidentale non si contrappone più a essa come un'aberrazione. In altri termini, l'immagine tradizionale di una natura obbediente a leggi semplici è entrata in crisi e a essa va sostituendosi l'immagine dell'estrema 'complessità' dei fenomeni, a cominciare dal dominio della biologia. Ciò che appariva come uno scarto e un errore dalla norma rientra in una concezione flessibile e articolata dell'ordine della natura. Da un tale punto di vista non risulta più tanto ostico, sul piano razionale e su quello etico, accettare quello che sembra 'diverso', abnorme, frutto del caso oppure del destino. In tal modo il processo di crescita delle conoscenze influisce sulla lenta trasformazione dei pregiudizi e dei valori. Altre modifiche provengono inoltre dal mutare degli standard di vita, dallo sviluppo economico e dall'aumentato benessere, dalle fluttuazioni demografiche, dall'accrescimento della vita media e delle aspettative di sopravvivenza. A un alto tasso di mortalità infantile faceva riscontro, un tempo (e tuttora nei paesi del Terzo mondo), l'ansia di partorire molti figli allo scopo di 'colmare i vuoti', con la conseguente discriminazione dei disabili, che erano destinati a una sopravvivenza marginale, relegati in istituti caritativi oppure in appositi ghetti, nei quali erano tenuti nascosti, quasi vittime sacrificali di una crudele rimozione psicologica che avvolgeva la minorazione in un sentimento di censura nonché di colpa.
Questi stati d'animo erano coerenti con sistemi di valori ormai obsoleti non solo grazie all'incidenza di fattori esterni, come la ridotta natalità e mortalità infantile che responsabilizza le famiglie, l'accresciuto livello di benessere, i progressi della medicina, ma anche a causa del mutare della sensibilità sia morale sia sociale, dal quale è scaturita la presa di coscienza di una dignità umana che la minorazione non può cancellare.
Si è affermata però, d'altro canto, una valutazione di tipo 'utilitaristico', che tiene presenti soprattutto i costi sociali dell'handicap, la difficoltà per il portatore di inserirsi nel mercato del lavoro e nel processo produttivo e i rispettivi rimedi. Tuttavia è stato da più parti obiettato che un'impostazione di questo tipo umilia gravemente la dignità personale del portatore di handicap, il diritto, che egli peraltro condivide con tutti i 'sani' e 'normali', di esser trattato non come mezzo ma come fine. Nel caso dell'impostazione utilitaristica, la premessa dipende da una morale di tipo efficientistico, che giova a dare un concreto aiuto a non pochi casi di disabili recuperabili, ma che rischia di comportare un'ulteriore discriminazione nei confronti di coloro le cui condizioni non sono recuperabili. A questi ultimi si volge dunque la concezione personalistica che si preoccupa anzitutto della salvaguardia dei valori, ma che può ridursi, in estrema analisi, a un tradizionale appello alla solidarietà etico-religiosa, all'assistenza caritativa conforme all'imperativo evangelico di amare il nostro prossimo come noi stessi.
Anche una morale laica, tuttavia, può condividere questi valori e svilupparli in modo autonomo. Usando questo approccio, si lasciano da parte le dicotomie e le antitesi di giudizi che impongono schematizzazioni per immedesimarsi nella singola persona, comprenderla nella sua solitudine, sofferenza e dignità. Soltanto in questo modo si tempera l'approccio oggettivo e freddo, necessariamente generalizzante e uniformante della medicina, che interviene con rimedi efficaci, dà prescrizioni e fa previsioni entro i limiti della ragione sperimentale. La tecnica riabilitativa deve limitarsi a prendere in considerazione il caso singolo, a mediare tra teoria e pratica; e tuttavia non può evitare, muovendosi sul confine del regno dell'etica e dei valori, di trovarsi di fronte a problemi insolubili sul piano della conoscenza naturale. Quale sapere, se non quello proprio del senso morale laico o della pietas religiosa, può consigliare il medico, l'educatore, il genitore oppure il parente dell'handicappato, specialmente mentale, a non attenersi a un identikit 'tecnico' del soggetto? In che modo si può comprendere sia l'elemento tipico e generale presente nel disturbo sia l'elemento proprio, individuale, irripetibile che fa del malato, di 'quel' malato, una persona di dignità pari a tutte le altre, pari nei diritti, probabilmente superiore nella sensibilità e nella suscettibilità? Il rischio consiste nel rendere stereotipo il rapporto con una tale persona, identificata surrettiziamente con la sua malattia. In generale l'handicap non coincide con l'identità del suo portatore. Occorre rivolgersi a quanti si occupano di lui per "invitarli, iniziarli, educarli ai rischi, alle difficoltà, agli insuccessi della vita di una persona handicappata; dar loro la speranza, il coraggio, la forza necessaria per affrontare questa realtà" (Davin-Delvin-Le Polain de Waroux 1989, trad. it., p. 202). Praticando queste semplici massime si può sperare di far uscire i nostri simili colpiti da handicap dalla loro condanna - così spesso aggravata dai pregiudizi sociali e morali -, aprire loro un futuro imprevedibile, aiutarli a conquistarsi una 'propria' normalità, forse una pienezza di vita e di sentimenti che a non tutti gli abili è concessa.
A. Canevaro, Educazione e handicappati, Firenze, La Nuova Italia, 1979.
A. Canevaro, C. Balzaretti, G. Rigon, Pedagogia speciale dell'integrazione, Firenze, La Nuova Italia, 1996.
Classificazione delle malattie, traumatismi e cause di morte. IX revisione, Roma, ISTAT, 1986.
G. Conte Oberto, L. Paschetta, Handicappati e scuola. Il bambino cieco nella scuola di tutti, Torino, Stampatori, 1978.
C. Cornoldi, R. Vianello, Handicap e apprendimento. Ricerche e proposte di intervento, Bergamo, Junior, 1995.
J. Davin, E. Delvin, V. Le Polain de Waroux, Une vie à vivre, avec les personnes handicapées mentales, Paris, Centurion, 1989 (trad. it. Una vita possibile. Handicap mentale e famiglia, Torino, SEI, 1991).
M.L. Favia, S. Maragna, Una scuola oltre le parole. Manuale per l'istruzione dei sordi, Firenze, La Nuova Italia, 1995.
Handicap e legislazione. Diritti in gioco, a cura di D. Massi, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1996.
H. Lane, The wild boy of Aveyron, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1976 (trad. it. Padova, Piccin-Nuova libraria, 1989).
B. Mottez, Ostinarsi contro i deficit significa spesso aggravare l'handicap: l'esempio dei sordi, in M. Montanini Manfredi, Dal gesto al gesto, Bologna, Cappelli, 1979, pp. 245-62.
C. Pontecorvo, M. Pontecorvo, Psicologia dell'educazione. Conoscere a scuola, Bologna, Il Mulino, 1986.
R. Rosenthal, L. Jacobson, Pygmalion in the classroom, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1968 (trad. it. Milano, Angeli, 1972).
Stili di insegnamento, stili di apprendimento, handicap, a cura di R. Vianello, C. Cornoldi, Bergamo, Juvenilia, 1991.
WHO, International classification of impairments, disabilities and handicaps, Geneva, WHO, 1980 (trad. it. Milano, Centro Lombardo per l'Educazione Sanitaria, 1980).