Heckroth, Hein
Pittore e scenografo tedesco, nato a Giessen il 14 aprile 1901 e morto ad Alkmaar (Paesi Bassi) il 6 luglio 1970. All'inizio la sua attività fu fortemente influenzata dallo stile espressionista, sconfinando qua e là nell'astrazione cubista, caratterizzata da semplici e squadrati elementi base (blocchi, scale, rampe); si evolvette poi sempre più in senso pittorico, in direzione di un uso quasi astratto, o comunque libero, del colore. Per la meravigliosa fantasmagoria scenografica di The red shoes (1948; Scarpette rosse) di Michael Powell ed Emeric Pressburger, tratto da una favola di H.C. Andersen, H. vinse l'Oscar nel 1949.
Dopo aver studiato pittura a Francoforte sul Meno, lavorò come scenografo teatrale, a partire dal 1922, a Francoforte, Gottinga, Essen e Münster, specialmente per i balletti del grande coreografo Kurt Joos. Lasciata la Germania alla presa del potere di A. Hitler (1933), si recò dapprima in Francia e dal 1935 si stabilì in Inghilterra, cominciando a lavorare nel cinema per The Archers, la casa di produzione fondata da Powell e Pressburger. In seguito restò sempre legato a questi due autori, che non avevano remore nell'utilizzare fondali dipinti, scene volutamente 'false', al di fuori d'ogni naturalismo, perseguendo una valorizzazione del teatro nel cuore stesso del cinema. H. disegnò così i costumi per A matter of life and death (1946; Scala al Paradiso) e Black narcissus (1947; Narciso nero), le cui scene erano state ideate da un altro transfuga tedesco, Alfred Junge. Nel primo film, la grandiosa scala che porta al Paradiso era di Junge, ma H. poté sbizzarrirsi a ideare la grande varietà di costumi indossati dalla schiera dei beati di tutti i Paesi e di tutte le epoche, che, sedendo in una specie di tribunale celeste, devono decidere la sorte definitiva di un pilota (David Niven), abbattuto con il suo aereo dai tedeschi e rimasto vivo per un disguido della burocrazia angelica. Il momento di H. arrivò nel 1948, quando tra Junge e il duo Powell-Pressburger si verificò un'insanabile divergenza di opinioni artistiche a proposito delle scenografie per The red shoes, con particolare riguardo a quella del balletto che dà il titolo al film. In disaccordo con Junge, il quale riteneva che l'impianto del décor dovesse restare sostanzialmente realistico, senza travalicare i limiti di quanto è possibile realizzare su un palcoscenico di teatro, Powell e Pressburger si rivolsero al talento pittorico di Heckroth.
Quello per The red shoes (in cui H. fu accreditato come production designer, avvalendosi di Arthur Lawson come art director), rimase forse il suo miglior lavoro. H. si divertì a ideare per la ballerina Victoria (Moira Shearer) costumi sontuosi, come uno spettacolare mantello verde, sormontato da un cappello che è un diadema a forma di corona, o la vestaglia del dispotico Lermontov (Anton Walbrook), dai colori cangianti. E sottopose l'enorme scalinata di villa Leopolda a Villefranche, scelta come dimora di Lermontov, a una rielaborazione fantastica, evocazione di un esterno teatrale sormontato dalla figura profetica di un angelo librata sul vuoto. La fantasia però si scatenò nel balletto delle 'Scarpette rosse': ad apertura di sipario, in un silenzio magico, su quello che sembra un piccolo palcoscenico compare solo una finta scaffalatura, sulla quale un personaggio inquietante (e diabolico) espone il suo campionario di scarpini da ballo, tra i quali le magiche scarpette rosse, destinate a non lasciar mai più riposare o sostare la donna che avrà la sfortuna di calzarle finché non cadrà morta, stroncata dalla fatica. Naturalmente, oltre alla musica, qui sono della massima importanza le coreografie di Léonide Massine, ma il ruolo fondamentale è svolto dal décor. Subito, infatti, il palcoscenico sembra allargarsi, diventa la grande piazza di un paese in festa, tra luminarie e bandiere, suoni e danze, mentre appaiono sullo sfondo alcune torri stilizzate, quasi espressioniste. Nella notte che man mano scende, Victoria resta sola a ballare, non può fermarsi, per quanto lo voglia, in un'atmosfera che si è fatta impercettibilmente cupa. Tra sovrimpressioni di colori e forme astratte, Victoria sembra fluttuare nell'aria, precipitare in vortici inaspettati di vuoto, ballare con un vecchio giornale portato dal vento, che si trasforma in un'apparizione diabolica. Il palcoscenico diventa montagna, salone di un palazzo ricoperto di veli e tendaggi, infine è invaso dal mare in tempesta, in quella che è un'autentica apoteosi della contaminazione cinema/teatro.
Nello stesso anno di The red shoes, H. si dimostrò a suo agio anche nell'ideare gli ambienti realistici di The small back room (I ragazzi del retrobottega), ancora di Powell e Pressburger, in un sobrio bianco e nero che rievoca i tempi della guerra, e si permise l'unica bizzarria di una scena d'incubo, nella quale il protagonista (a un passo dal diventare alcolizzato) immagina d'essere inseguito da una gigantesca bottiglia di whisky. Sempre per Powell e Pressburger, lavorò in The elusive Pimpernel (1950; L'inafferrabile Primula Rossa), Gone to earth (1950; La volpe) e specialmente The tales of Hoffmann (1951; I racconti di Hoffmann). Per i tre episodi di quest'ultimo film, scenograficamente ricchissimo, H. preparò circa duemila bozzetti e, poiché la costruzione della scalinata sulla quale avrebbe dovuto ballare Moira Shearer sarebbe risultata troppo costosa, si ingegnò a preparare un enorme tappeto sul quale i gradini, solo dipinti in finto rilievo, ripresi dall'alto sembrano veri.
Più tardi H. tornò in Germania, dove però non ebbe più occasioni di particolare interesse, salvo un film per la televisione, ancora diretto da Powell nel 1964 (Herzog Blaubarts Burg, dall'opera di B. Bartók). Nel 1966, assieme a Frank Arrigo, supervisionò le scenografie di Torn curtain (Il sipario strappato) di Alfred Hitchcock, in cui alcune scene di balletto (con Tamara Toumanova) ricordano alla lontana i tempi gloriosi di The red shoes.
M.L. Stephens, Art Directors in cinema, Jefferson (NC) 1998, pp. 157-58.