Treitschke, Heinrich von
Nato a Dresda il 15 settembre 1834 e morto a Berlino il 28 aprile 1896, personalità tra «le più possenti» della seconda metà dell’Ottocento (F. Meinecke, Erlebtes 1862-1919, 1964, trad. it. Esperienze 1862-1919, a cura di F. Tessitore, 1971, p. 147), T. fu uno dei maggiori esponenti di quella generazione di storici nazionalliberali che, soprattutto all’indomani del 1871, assunsero un ruolo decisivo nel processo di legittimazione dello Stato nazionale tedesco secondo i paradigmi della concezione borussica.
Ispirata da ragioni per lo più pratiche, la sua lettura del pensiero di M. si pone in termini di sostanziale continuità rispetto al canone che si era consolidato nella prima metà dell’Ottocento con le interpretazioni in chiave patriottica e storicistica di Johann Gottfried Herder, Johann Gottlieb Fichte e Leopold von Ranke. Non per questo priva di spunti originali, essa merita attenzione soprattutto perché consente di ricostruire una porzione rilevante delle contraddizioni cui andò incontro la cultura politica tedesca nel corso dell’Ottocento, con specifico riferimento a questioni cruciali come il rapporto tra politica e morale.
Al pari di M., anche T. intraprese la propria riflessione politica post res perditas, cioè a partire dalla denuncia dell’esperienza fallimentare del biennio rivoluzionario 1848-49. La sua lettura del Principe fu in tal senso strettamente funzionale all’analisi dell’attualità politica e, al tempo stesso, condizionata a fondo dagli eventi a lui contemporanei. Lo testimonia con chiarezza un passaggio (1856) delle sue lettere, in cui, accennando al rapporto tra potere e morale, affermò:
[M.] è sicuramente un politico ‘pratico’, adatto più di ogni altro a distruggere l’illusione secondo cui sarebbe possibile riformare il mondo per mezzo di cannoni caricati con idee di verità e giustizia. Eppure la stessa politica di questo tanto disprezzato teorico della forza bruta mi sembra più morale di quella attualmente praticata in Prussia. Egli sacrifica il diritto e la virtù sull’altare di una grande idea, la potenza e l’unità del suo popolo, cosa che certo non si può dire del partito che attualmente governa la Prussia (Briefe, hrsg. M. Cornicelius, 1° vol., 1834-1858, 1913, p. 352).
Se, sullo sfondo del richiamo alla crisi dell’Italia cinquecentesca, la denuncia della frammentazione politica tedesca fu lo spunto decisivo che spinse T. ad aggiornare la lezione del realismo machiavelliano, non può sorprendere che, sempre nel 1856, egli arrivasse infine a riconoscere che M.
è divenuto per me, e senz’altro non solo per me, uno degli scrittori politici preferiti. La sua spregiudicata risolutezza e il suo ardente patriottismo mi fanno spesso dimenticare del tutto la sua deprimente mancanza di moralità (p. 359).
Già in questi anni è però possibile riscontrare nel suo giudizio su M. una certa ambivalenza che si manifesta laddove T. abbinò all’elogio del suo «ardente patriottismo» la denuncia delle sue «molte opinioni riprovevoli» (p. 352). Si tratta di un’ambivalenza che rinvia in buona parte al carattere strumentale della sua lettura, la quale, restando circoscritta al solo Principe, finì non solo per soffrire di una certa parzialità, ma anche per impedirgli di apprezzare fino in fondo il pensiero machiavelliano (cfr. Briefe, cit., 2° vol., 1859-1866, 1913, p. 14). Una riserva circa la presunta amoralità del Segretario è quanto rivela una lettera dell’ottobre 1866, in cui T., reagendo alle polemiche suscitate dal suo Bundesstaat und Einheitsstaat (in Id., Historische und politische Aufsätze, 1° vol., 1864, pp. 444-95) e alle accuse di machiavellismo rivoltegli, riaffermò sì la propria ammirazione per il «grande Fiorentino», ma, al tempo stesso, non mancò di mettere in guardia nei confronti della sua «grandiosa amoralità», e di riconoscere, sia pure implicitamente, la pericolosità di fondo delle sue idee politiche, ritenute capaci di ispirare sia le azioni delittuose di un attentatore come Oscar Becker, sia quelle di uno statista come Camillo Benso conte di Cavour o di un eroe nazionale come Daniele Manin (Briefe, cit., 3° vol., 1866-1896, 1920, p. 97).
Questa riserva fu destinata a riemergere negli scritti più maturi e, in particolare, nel saggio Das politische Königtum des Anti-Machiavell. Rede («Preussische Jahrbücher», 1887, 59, pp. 341-541) e nella raccolta postuma delle sue lezioni berlinesi, Politik. Vorlesungen gehalten an der Universität zu Berlin (hrsg. M. Cornicelius, 2 voll., 1897-1898). Qui, in linea con la tradizione storicistica, T. ribadì anzitutto come «per capire» M. fosse necessario collocarlo nel suo tempo. E, in polemica con le letture pregiudiziali accumulatesi nei secoli, riconobbe al Segretario il merito di aver identificato l’essenza dello Stato nel principio della forza, di averne definiti i compiti a partire dalla sua natura mondana e, dunque, di aver contribuito a fondare «la moderna scienza dello Stato» (Das politische Königtum, cit., p. 345; cfr. anche Politik, trad. it. 1918, 1° vol., pp. 86-87).
Sia nel saggio – composto per il novantesimo genetliaco dell’imperatore Guglielmo I (1797-1888) – sia nelle lezioni postume, T. osservò, tuttavia, che l’autore del Principe era rimasto con un «piede sulla soglia del Medioevo» (Politik, cit., p. 87), precisando che, pur avendo cooperato con Martino Lutero nel processo di emancipazione dello Stato, il «geniale Fiorentino» non era riuscito a infondere in esso un nuovo contenuto morale.
Per quanto singolare, l’accostamento con Lutero non era casuale, ma, anzi, rispose a due precisi obiettivi. Da un lato, venendo incontro alle esigenze politico-diplomatiche di allora, T. si sforzò di mettere in risalto come, nelle loro rispettive concezioni, M. e Lutero incarnassero il ‘destino comune’ delle due grandi nazioni culturali dell’Europa centrale, l’Italia e la Germania. Dall’altro, in risposta al proposito di natura squisitamente ideologica di rimarcare la superiorità della via tedesca all’unità, egli sottolineò come, per via di quella sfrenatezza pagana già denunciata da Fichte, la concezione machiavelliana dell’autonomia della politica fosse rimasta per lo più «turbata e confusa». E ciò essenzialmente perché, «dopo aver contribuito a liberarlo dalla tutela della Chiesa», M. aveva spinto «lo Stato al di fuori del mondo dell’etica», finendo così per concepire il potere esclusivamente come fine a sé. In ciò e non in altro risiedeva, a suo avviso, la «profonda immoralità della sua teoria dello Stato»:
Non già che egli ci ripugni per la sua perfetta indifferenza riguardo ai mezzi della forza, ma perché in lui tutto si aggira intorno al modo di acquistare e preservare il supremo potere, senza che poi in lui questo potere abbia un contenuto. Che il potere acquistato si giustifichi in quanto sia impiegato ai supremi beni morali dell’umanità, di ciò in lui non si ritrova vestigio (p. 88).
Si tratta di un giudizio controverso, che può risultare perfino contraddittorio se solo si pensa al tono degli accenni a M. nelle lettere degli anni Cinquanta (cfr. Briefe, 1° vol., cit., pp. 99, 260, 333, 352). Nella fase più giovanile del suo itinerario intellettuale, T. si era accostato a M. con la sensibilità tipica di un ardente nazionalista, disposto a sacrificare sull’altare dell’unità nazionale ogni altra considerazione. All’indomani del 1871, tale prospettiva fu però rideclinata alla luce di un nuovo proposito: giustificare eticamente gli obiettivi di potenza della Prussia nel quadro di quello sviluppo storico giunto a compimento con la fondazione del Reich.
Più ancora delle sue lezioni postume, è soprattutto il citato saggio del 1887 a rivelarsi, da questo punto di vista, oltremodo significativo. In quelle pagine, infatti, T. legittimò la Machtpolitik prussiana nel segno di una continuità storica portatrice di un superiore significato morale e, nel quadro di una trasfigurazione ideologica dell’esistente, offrì una sanzione idealistica della potenza. In linea con una concezione che assegnava allo Stato una funzione cruciale in vista dello sviluppo morale dell’umanità, egli non poté che prendere dunque le distanze dalla tesi machiavelliana dell’amoralità della politica e, con l’intento di «unificare il mondo della potenza e il mondo delle idee sotto il primato delle idee» (F. Meinecke, Die Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte, 1924, trad. it. L’idea della Ragion di Stato nella storia moderna, 1977, p. 406), riabilitare la tesi opposta, quella della moralità della politica.
In altre parole, per T., la dottrina dello Stato di M. aveva sì rappresentato, quale presupposto per la formazione delle grandi monarchie continentali, una tappa decisiva nell’evoluzione del pensiero politico, ma aveva ormai cessato di dare risposta ai grandi interrogativi del presente. Tale risposta era stata invece trovata in Germania, dove, per ironia della sorte, era toccato proprio al più illustre tra gli allievi tedeschi di M., Federico II di Prussia, confutarne le idee tra le pagine di un pamphlet che, a dispetto del suo scarso valore sotto il profilo critico, si era invece rivelato fondamentale in quanto programma di governo (Politik, cit., 1° vol., p. 90). A differenza del Fiorentino, il cui principale difetto era stato quello di non aver compreso che «una forza che calpesta ogni diritto deve finalmente andare in rovina, perché nel mondo morale nulla si regge che non abbia la virtù di resistere» (p. 88), Federico II aveva infatti dimostrato che
tutto il potere è solo un mezzo in vista di un fine [...], tutto il potere deve cioè essere inteso solo quale mezzo per il conseguimento dell’ordine e del benessere materiale e spirituale di popoli più felici e morali – con un termine federiciano, quale mezzo per la promozione dell’umanità (Das politische Königtum, cit., p. 348).
Bibliografia: Das politische Königtum des Anti-Machiavell. Rede, «Preußische Jahrbücher», 1887, 59, pp. 341-54; Politik. Vorlesungen gehalten an der Universität zu Berlin, hrsg. M. Cornicelius, 2 voll., Leipzig 1897-1898 (trad. it. La politica, 4 voll., Bari 1918); Briefe, hrsg. M. Cornicelius, 3 voll., Leipzig 1913-1920.
Per gli studi critici si vedano: F. Meinecke, Die Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte, München 1924 (trad. it. L’idea della Ragion di Stato nella storia moderna, Firenze 1977); A. Norsa, Treitschke e Machiavelli, «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 1927, 7, pp. 517-24; G. Ritter, Die Dämonie der Macht. Betrachtungen über Geschichte und Wesen des Machtproblems im politischen Denken der Neuzeit (5a ed. di Machtstaat und Utopie. Vom Streit um die Dämonie der Macht seit Machiavelli und Morus, München 1940), München 1948 (trad. it. Il volto demoniaco del potere, Bologna 1958, pp. 157-60); E. De Cristofaro, Letture di Machiavelli nella cultura di area tedesca tra fine Ottocento e inizio Novecento: Burckhardt, Treitschke, Meinecke, in Machiavelli nel XIX e XX secolo, a cura di P. Carta, X. Tabet, Padova 2007, pp. 125-43; F. Trocini, Machiavellismus, Realpolitik und Machtpolitik. Der Streit um das Erbe Machiavellis in der deutschen politischen Kultur der zweiten Hälfte des 19. Jahrhunderts, in Machiavellismus in Deutschland. Chiffre von Kontingenz, Herrschaft und Empirismus in der Neuzeit, hrsg. C. Zwierlein, A. Meyer, München 2010, pp. 215-31.