Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
“Prima di lui, nella pittura, era il buio” scrive il poeta Aragon. E Picasso: “Matisse ha il sole nel ventre”. Per Matisse il colore diventa il fine stesso della pittura; lo induce ad astrarre, a dematerializzare oggetti e persone, a tessere un’immagine fluida, in cui le relazioni fra le forme contano più delle forme. In questa dimensione creativa del colore Matisse rappresenta l’altro polo rispetto a Picasso, l’antagonista senza il quale la cosmologia di Matisse rimane mutila e indecifrabile. Perché “Pôle Nord, Pôle Sud”, la battuta di Picasso tante volte citata, sarà forse soltanto lo stereotipo di una conflittualità fra di loro un po’ costruita, ma anche di queste battute è fatta la critica, se sono intrise di significati. E Matisse versus Picasso è l’asse intorno a cui ruota molta pittura del Novecento.
Il colore, la vita
Nasce nel 1869. Ha dunque l’età di Bonnard e Vuillard, e 11 anni più di Picasso. All’inizio, nei suoi modi incerti di fare pittura – è il 1890, Matisse ha compiuto 20 anni – un intervento chirurgico lo costringe al letto. In dono ha una scatola di colori: dipinge nature morte e interni in penombra, come i realisti olandesi e il francese Chardin, di cui condivide il bisogno di familiarità con gli oggetti: sempre quelli, per tutta la vita.
Poco dopo (1892) a Parigi, nell’atelier simbolista di Gustave Moreau, raccoglie preziosità e iridescenze dei decadenti di fine secolo: “ Sulla tavolozza avevo prima solo i bistri e le terre”. Ecco invece l’ocra e i violetti, l’acidità dell’arancio, indaco, e verdi innaturali e vibranti come nei quadri preraffaelliti.
Poi, come tutti, anche Matisse rende omaggio a Cézanne, alla ricerca di una forma palpabile, nelle dominanti di massa e volume. E lavora coi bronzi, con la scultura. Il secolo è appena agli inizi e lui ha solamente 30 anni, ma la sua parabola è a questo punto tracciata. Sarà, per tutta la vita, la sfida a saldare gli inconciliabili estremi che per lui erano “Cézanne e l’Oriente”, la struttura e la luce, lo spazio tridimensionale e prospettico e i fondali decorativi dell’Asia: miniature e ceramiche dell’antica Persia, labirinti e arabeschi dell’arte islamica. Protagonista naturalmente il colore, quel colpo di gong – scriveva Matisse – che fa vibrare intorno lo spazio: “Questo soggetto nero, si può anche vederlo come una cattedrale [...] ma è bene ricordarsi che prima di tutto è un Nero. E non va perduto [...]”.
Prima dell’affermazione dei fauves (ed è Matisse il più grande dei fauves: Lusso, calma e voluttà, 1904-1905, Parigi, Musée d’Orsay; La joie de vivre,1905-1906, Merion, Pennsylvania, Barnes Foundation), il colore non era mai stato una forma, un’entità in grado di determinare i rapporti, mobili e fluttuanti, nell’intarsio luminoso delle cose. Ecco invece le localizzazioni di verde, di rosso, di blu, formare, per infallibili accordi, quel cerchio apollineo che è poi La danse nelle due versioni del MoMA e dell’Ermitage di San Pietroburgo (1909-1910), quattro metri di base ciascuna. Ghirlande di braccia tagliate nel vivo di un colore modulato impercettibilmente, che stabilisce una circolarità fra le cose. Un colore astratto, mai imitativo, che difficilmente farà perdonare Picasso – se davvero fu lui – per il cinismo di un giudizio terribile: “Matisse? È una cravatta”. Come dire scintillante, virtuoso. Una battuta che si fa minacciosa, se si continua a mostrare Matisse a pezzi e a tronconi, nei suoi quadri più colorati e godibili come è accaduto in alcune mostre recenti. Solo rileggendo Matisse tutto intero si può coglierne il lascito di pittore moderno che, a partire dagli anni Sessanta, gli artisti (color field painters, minimalisti e pop) hanno mostrato di riconoscere con un’esposizione che l’avanguardia a New York ha voluto intitolare After Matisse (1986).
La modernità semplifica
La modernità di Matisse è anche nella sua vocazione versatile, così vicina al teatro e ai balletti russi di Diaghilev, per il quale progetta le scene e i costumi (Le Chant du Rossignol di Stravinskij, 1919).
E ancora la modernità di Matisse, nell’arco di una vita che lo vede spostarsi fra Nizza e Parigi, si avverte nella sua capacità di rinuncia. Rinuncia alle annotazioni narrative, realistiche, da cui ogni volta il suo lavoro procede, per cogliere il valore espressivo del vuoto, che è cancellazione di qualcosa che non si racconta ma è percepibile nella sua assenza (L’atelier in rosa, 1911, Mosca, Museo Puškin). Quante volte la tela è a nudo, lasciata apposta senza pittura, fino ad assumere un valore semantico analogo al “silenzio” di Mallarmé, poeta a lui molto caro. Infine, temerario, l’estro incontenibile degli ultimi anni: la decorazione della Cappella del Rosario di Vence (1951, mosaici, vetrate, sculture, perfino le vesti liturgiche in poplin di seta, sacrali e bellissime) e i suoi geniali papiers découpés, le carte ritagliate e dipinte quando, malato su una sedia a rotelle (a 85 anni, nel 1954) va incontro alla morte stringendo in mano una canna flessibile per disegnare ancora sul muro.
Matisse disegna “con le forbici dentro il colore”, ritaglia cioè delle carte, colorate già prima dai suoi aiutanti. Plasma in tal modo, simultaneamente, il campo cromatico e il suo contorno. E costruisce un universo di segni iconici, che divengono alghe, foglie, nudi, coralli, librati nello spazio delle stanze d’albergo, dove, malato e costretto al letto, si concede di continuare a inventare.
Emozioni complesse e strumenti fra i più elementari, come nella sequenza incantata della Piscina (1952), découpage modulare di quasi otto metri, un tempo sulle pareti dell’Hôtel Régina di Nizza. Uomini blu su un fondo bianco e marrone, che si propagano come onde, nuotando liberi, senza cornici. Così Matisse – scriveva il critico del “Washington Post” – riusciva a trasformare in capolavoro cose modeste con cui, sì e no, noi potremmo decorare una scatola di canditi.
Cercava, nell’universo dei segni, il momento catartico della condensazione, il momento in cui dalla percezione analitica avrebbe estratto l’essenzialità dell’immagine. E procedeva adagio, per spogliazione. Je gratte beaucoup, scrive di sé con disarmante candore. “Sottraggo, elimino”, alla ricerca di quella sintesi che non è mai per lui folgorante, immediata. 40 sedute per dipingere un nudo e più di 100 per una natura morta, scrive in una lettera al pittore Bonnard. E addirittura 500 pose gli costa, nell’arco di anni (1900-1903), la realizzazione della scultura Le serf (Lo schiavo). “Ancora una volta, debbo aspettare”, confessa nel 1940. Come per dire che esistevano tempi, certo un po’ amari, d’insoddisfazione e di attesa. E dipinti di transito, provvisori. Lui d’altra parte vuole incantare. Come se la vita fosse davvero “un mondo intatto, senza cesure fra l’orizzonte e l’interno della mia stanza-atelier [...] dove la barchetta che corre sul mare vive lo stesso spazio degli oggetti che mi stanno intorno”.
Mentre il secolo si fa grave, Henri Matisse continua ad amare, in modo esclusivo e quasi imbarazzante, quello che fa, cioè la pittura. In un desiderio di conciliazione fra i regni separati della vita e dell’arte. Vuole essere, più di ogni altra cosa, pittore, con dedizione quasi inumana se, nell’ottobre del 1944 – la moglie torturata dalla Gestapo e Marguerite, la figlia amatissima, sulla via della deportazione – pretende di continuare a difendere “almeno due ore al giorno di lavoro effettivo”.