Bolingbroke, Henry St. John
Nacque nel 1678 da una famiglia di proprietari terrieri ed ereditò dal padre, membro della Camera dei comuni, anche la vocazione politica. Eletto una prima volta al Parlamento nel 1701, fu ministro della guerra nel 1703, segretario di Stato nel 1710 e negoziatore per la pace di Utrecht. Dopo essere stato nominato visconte di Bolingbroke, le sue fortune politiche precipitarono con la morte della regina Anna e la vittoria dei Whigs. Accusato di tradimento, nel 1715 fuggì in Francia, legandosi per breve tempo alla causa stuardista.
Nel primo periodo trascorso oltremanica (fino al 1725: ma lunghi soggiorni seguirono tra il 1735 e il 1744) svolse un ruolo chiave di promotore del newtonianismo e fu a sua volta influenzato dal dibattito ideologico francese, stringendo rapporti con Voltaire e frequentando anche il Club de l’Entresol, l’esclusiva ‘accademia’ dove poté seguire il dibattito (che coinvolgeva anche Montesquieu) sui modelli politici classici e le nuove forme di rappresentanza. Morì nel 1751.
Il fervore interpretativo che aveva caratterizzato, fin dal secolo precedente, la ricezione inglese delle opere di M. fa supporre che B. vi si fosse accostato già prima dell’esilio. A uno studio sistematico del Principe e dei Discorsi dovette però dedicarsi solo post res perditas, via via che si andava definendo la sua strategia di opposizione al governo di Robert Walpole e ai gruppi di potere finanziario suoi sostenitori. Già nella prima fase di questa attività, condotta attraverso il «Craftsman» (periodico fondato nel 1726), e poi in seguito, quando vide cadere il progetto di risanare il sistema politico attraverso la battaglia parlamentare, l’opera di M. rappresentò per lui un modello imprescindibile. Ponendosi in continuità rispetto alla linea di James Harrington (→), B. accolse infatti l’idea di un M. repubblicano e ricavò dai Discorsi sia un esempio preclaro di metodologia storiografica sia alcuni capisaldi della propria teoria politica. Secondo John G.A. Pocock (1975; trad. it. 1980, 2° vol., p. 806), le pagine che egli «scrisse tra il suo primo e secondo esilio» (1725-35) rappresenterebbero addirittura «la formulazione più clamorosa degli aspetti costituzionali» assunti dal pensiero politico inglese di ispirazione machiavelliana.
Le considerazioni di B. sullo studio della storia sono affidate soprattutto ai Remarks on the history of England (pubblicati sul «Craftsman», 1730-1731) e alle Letters on the study and use of history (1735). In una pagina di queste ultime è appunto ricondotta a sintesi la lezione (desunta da M. sulla scia di Francesco Bacone: cfr. Procacci 1965, pp. 260-61) circa la necessità di ‘discorrere’ gli esempi storici risalendo dall’esperienza particolare a una conoscenza complessiva (general knowledge), da porre concretamente al servizio della società e dei business of mankind, l’‘industria umana’ (The works of lord Bolingbroke, 1841, 2° vol., p. 191).
Proprio alla storia politica della Gran Bretagna (nella cui tradizione costituzionale scorgeva il retaggio delle antiche virtù repubblicane) B. poté quindi appellarsi per contrastare il moneyed interest, com’egli definiva il sistema di potere fondato sulla speculazione finanziaria e sugli interessi ‘privati’ di un partito trasversale, «intrinsecamente corruttore dei costumi, della mentalità e persino dei gusti dei sudditi britannici» (M. Truffelli, introduzione a Una dissertazione sui partiti, 2013, p. 32). Nella campagna di opinione volta a smascherare questa minaccia, in nome della pace e della libertà, B. si rifece quindi ad alcuni principi espressi da M. e consacrati dalla sua fama di maestro «del realismo e del naturalismo politico» (Procacci 1965, p. 260).
In A dissertation upon parties già l’argomento cardine (il rischio letale rappresentato dalla lotta fra partiti avversi) è sviscerato tenendo sullo sfondo il libro I dei Discorsi, benché il giudizio globalmente negativo di B. sui conflitti interni allo Stato finisca per svuotare la distinzione machiavelliana (Discorsi I iv e xxxviii) tra scontro di fazioni e conflitto politico.
La lezione machiavelliana, poi, è messa a frutto nell’ampio ragionamento sulla corruzione dei corpi politici: la polemica di B. andava a colpire in primo luogo la prassi per cui i membri del governo solevano concedere benefici ed emolumenti ai parlamentari al fine di assicurarsene il sostegno; una consuetudine che alimentava la ricchezza privata a scapito del bene pubblico, rovesciando così il principio aureo su cui si erano fondate già la libertà e la grandezza di Roma (cfr. Discorsi I xxxvii 8) e minacciando di «dissol[vere] in una volta sola» il «nobile edificio» della moderna costituzione inglese (Una dissertazione sui partiti, cit., Lettera X, p. 267).
In base a questa analisi B. appoggiò con energia la battaglia parlamentare condotta invano dall’opposizione, nel 1734, per far abrogare il Septennial Act (1716) e tornare a un rinnovo più frequente del Parlamento (al tema specifico è dedicata la Lettera XI, in Una dissertazione sui partiti, cit., pp. 275-91). Anche in questo caso le sue argomentazioni poterono appoggiarsi all’auctoritas di M., che soprattutto col paragone oppositivo tra dittatura e decemvirato (Discorsi I xxxiv segg.) aveva mostrato la pericolosità delle cariche concesse (benché attraverso «suffragi publici e liberi») per un tempo troppo lungo.
Di chiara matrice machiavelliana, inoltre (sulla scia di Discorsi III i), è l’appello a un ritorno periodico ai principi costituzionali, unico baluardo contro la degenerazione del corpo politico: appello già formulato nei Remarks, ripreso nella seconda parte della Dissertation e infine in The idea of a patriot king. In quest’ultima opera (del 1740: 1749 nella 1ª ed. autorizzata da B.), sorta di testamento politico, la stessa tesi centrale viene presentata esplicitamente come l’esito ragionevole di uno sviluppo delle riflessioni di M.: sia riguardo alla necessità di «venire allo straordinario» per mantenere o riportare la libertà in uno Stato corrotto (Discorsi I xviii 26), affidando a uno solo il compito di riordinarlo (L’idea di un re patriota, a cura di G. Abbattista, 1995, pp. 77-78), sia in merito alla «gloria» e alla «sicurtà» (Discorsi I x 18) cui può sempre legittimamente aspirare «quel principe che erige un buon governo e una libera costituzione» (L’idea di un re patriota, cit., p. 64).
Bibliografia: Edizioni critiche: The works of lord Bolingbroke, 4 voll., Philadelphia 1841 (reprint Honolulu 2001), in partic. A dissertation upon parties, 2° vol., pp. 5-172 (trad. it. Una dissertazione sui partiti, a cura e con introduzione di M. Truffelli, trad. di C. Rolli, M. Truffelli, Soveria Mannelli 2013) e The idea of a patriot king, 2° vol., pp. 372-429 (trad. it. L’idea di un re patriota, a cura, trad. e introduzione di G. Abbattista, Roma 1995).
Per gli studi critici si vedano: G. Procacci, Studi sulla fortuna del Machiavelli, Roma 1965; I. Kramnick, Bolingbroke and his circle. The politics of nostalgia in the age of Walpole, Cambridge (Mass).- London 1968; J.G.A. Pocock, The Machiavellian moment. Florentine political thought and the atlantic republican tradition, Princeton 1975 (trad. it. Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, 2 voll., Bologna 1980); S. Burtt, Virtue transformed. Political argument in England, 1688-1740, Cambridge 1992; Anglo-American faces of Machiavelli. Machiavelli e machiavellismi nella cultura anglo-americana (secoli XVIXX), a cura di A. Arienzo, G. Borrelli, Monza 2009.