Vedi SELE, Heraion del dell'anno: 1966 - 1997
SELE, Heraion del
Importante santuario di età arcaica che sorgeva alla foce del fiume Sele, scorrente nella pianura a S di Eboli e a N di Paestum. Scarse notizie tramandano le fonti (Strab., vi, 252; Plin., Nat. hist., iii, 7o; Solin., ii, 12; Plut., Vita Pomp., xxiv, 3) sulla storia e sulle origini del santuario. Esse sono tuttavia concordi nell'affermare che vi si venerava Hera Argiva e che ne era stato fondatore Giasone. Strabone aggiunge che esso sorgeva a cinquanta stadî da Posidonia. Plinio lo dice insignis e Plutarco lo ricorda, insieme ai famosi santuarî di Klaros, Didyma, Samo ed Argo, a proposito delle devastazioni ivi compiute dai pirati di Cilicia.
Dello Heraion, abbandonato già in epoca tardo-antica e adoperato come cava di calcare nel Medioevo, forse qualche vestigio avanzava ancora agli inizi del '600; più nulla comunque ne rimaneva già verso la fine del secolo seguente.
La scoperta e l'esplorazione dell'importante complesso si devono a P. Zancani Montuoro e ad U. Zanotti Bianco. Una prima campagna di scavo (12 maggio-1° luglio 1934) condusse alla scoperta del tempio octastilo e della prima metopa arcaica; in una seconda (ottobre 1934-giugno 1935) fu esplorato il piccolo edificio detto Thesauròs I. Lo scavo, ancora in corso, è stato proseguito con la sola interruzione della guerra. Esso fu subito esteso all'area a N dei due edifici sacri, con l'esplorazione di una stoà arcaica (1938) e di una del IV sec.; veniva subito dopo iniziato, negli anni 1939-40, lo scavo della zona B, a circa m 300 a S-E dell'octastilo. Del 1949 è la scoperta della grande ara ad E dell'octastilo.
Gli scavi hanno mostrato come, in età anteriore agli inizî del santuario ellenico, la zona fosse frequentata, anche se non intensamente. Un coltellino ed un raschiatoio di selce si rinvennero infatti al disotto del cosiddetto Thesauròs I; un frammento di vaso dell'ultima Età del Bronzo e due fibule della prima Età del Ferro nello scarico a S-O della stoà arcaica, ed un'altra fibula simile a S-O dell'octastilo. Sembra tuttavia da escludere, per la esiguità stessa di questi reperti, l'ipotesi del Ciaceri, che il santuario ellenico si fosse sovrapposto ad un luogo di culto indigeno. Il più antico materiale greco rinvenuto nel sito non sembra anteriore alla metà del VII sec. a. C. È quindi difficile stabilire il significato storico della tradizione che indica in Giasone il fondatore del santuario. La Zancani Montuoro e lo Zanotti Bianco ne hanno dedotto che lo Heraion e la vicina Posidonia fossero stati fondati da un nucleo di Tessali, poiché appunto questi avevano in Giasone il loro eroe nazionale. La questione coinvolge così l'interpretazione del noto passo straboniano relativo alle origini di Posidonia (Strab., v, 251), né i reperti del santuario sembrano fornire, per ora, alcun documento a favore di una simile ipotesi. Mentre infatti questa postula la presenza dei Sibariti a Posidonia solo dopo il 510 a. C., le sagome arcaiche del cosiddetto Thesauròs I, databili non oltre il 550, mostrano una indubbia connessione, con quelle recentemente edite, dall'area di Sibari.
Nel silenzio della tradizione letteraria, è possibile dedurre i caratteri della Hera del S. dai numerosissimi ex voto fittili. Già dalla fine del VII sec. o dai primi del VI appare il tipo della dea seduta, con pòlos, sorreggente un bimbo col braccio sinistro, e recante nella mano destra la melagrana. La dea quindi presiede al ciclo vitale dell'uomo, dalla nascita alla sua morte; in questo suo aspetto essa e più tardi rappresentata anche come Ilizia (v.). Il carattere catactonio della divinità si confonde naturalmente con quello ctonio: a questo probabilmente alludono le terrecotte ellenistiche con busto femminile sorgente da un calice e recante sul capo un giglio.
Il santuario visse il suo periodo di massimo splendore durante il periodo arcaico: alla prima metà del VI sec. è databile la stoà N-O; tra il 570 ed il 550 venne costruito il cosiddetto Thesauròs I e fu scolpita la prima serie di metope; al volgere del secolo fu eretto il tempio octasulo recante le metope con choròs di fanciulle. Questi edifici furono fortemente danneggiati ed il Thesauròs fu forse distrutto già tra la fine del V e la seconda metà del IV sec. a. C.: gli elementi architettonici e le metope furono infatti parzialmente reimpiegati in una stoà del IV sec. e nelle costruzioni della zona B. L'avvenimento che cagionò danni così grandi al santuario è stato identificato con l'arrivo dei Lucani nella piana (fine del V sec.) o con la battaglia avvenuta tra Alessandro il Molosso ed i Lucani sulle sponde del Sele tra il 341 ed il 333 a. C. Avanzano forse tracce di un restauro subito dall'octastilo dopo questo evento. Durante lo scorcio del IV sec. e l'età ellenistica il santuario ebbe ancora vita piuttosto fiorente, ciò che è dimostrato dal numero eccezionale di ex voto rinvenuti nei bòthroi (v.), in una grande stipe ed in una favissa. Esso decadde però rapidamente tra la fine dell'età repubblicana ed il I sec. d. C.: un primo colpo fu inferto dalle depredazioni compiute dai pirati di Cilicia. Ulteriori danni furono provocati da un terremoto, forse quello del 63 d. C. ed in quest'epoca fu forse definitivamente distrutto l'octastilo. Nel 79 d. C. l'eruzione del Vesuvio seppellì lo Heraion sotto una spessa coltre di cenere provocando probabilmente il crollo della stoà N-E. Ancora nel II sec. d. C. veniva deposta la grande stipe di materiale ellenistico rinvenuta a N dell'octastilo ma, dagli inizî del IV sec. d. C., ogni traccia di vita sembra scomparire nella zona gradualmente invasa dall'acquitrino. Tuttavia l'immagine della Hera Kourotròphos servirà per l'iconografia della Maria con l'Infante venerata nel villaggio di Capaccio insieme ad offerte di barche colme di fiori.
Tracce di un tempio primitivo, sempre che questo non si debba piuttosto identificare col Thesauròs I, sono forse da riconoscere in qualche blocco dello stereobate dell'octastilo che sembra di secondo impiego. Per questo tempio primitivo, rimasto incompiuto sarebbero state scolpite secondo lo Stucchi le metope del Thesauròs I, che in questo edificio sarebbero state poi solo in parte reimpiegate.
Thesauròs I. - Ben poco rimane, in situ, del Thesauròs I; del naòs, rettangolare allungato, si conservano il muro di fondo ad O, ed i lati lunghi incompleti, per una altezza massima di quattro assise, di cui la seconda dal basso reca l'euthynterìa. I blocchi, di calcare, presentano l'anathỳrosis di tipo più antico, con i giunti fortemente concavi. Non è impiegato alcun tipo di grappe.
Allo stato attuale il naòs presenta una larghezza di m 9,10, ed è conservato per una lunghezza massima di m 12,60. Nulla rimane di un eventuale pronao e del muro tra questo ed il naòs. Sull'asse del muro settentrionale, a m 4,35 da E della sua attuale estremità orientale, è un rocchio d'arenaria, non scanalato, del diametro di m 0,77. Esso non poggia su alcun tipo di fondazione o rincalzo e s'imposta ad una profondità di soli m 0,11 rispetto al piano di campagna antico: non è pertanto certo che esso si conservi nella sua posizione originaria. Gli editori del monumento, ritenendo che il rocchio fosse in situ, hanno ricostruito l'edificio come un prostilo tetrastilo, di m 9,05 × 16,525. E tuttavia, anche ammettendo che il rocchio sia in posto, quella del prostilo tetrastilo non sarebbe l'unica soluzione possibile: si potrebbe ad esempio ammettere una pianta analoga a quella che appare nel pronao dell'Athenaion, nella vicina Posidonia.
Alle colonne del pronao spettano due capitelli d'arenaria, rinvenuti forse ancora in posizione di caduta. Nell'esemplare meglio conservato l'echino presenta alla sommità una forte rientranza leggermente concava, ed alla base una gola pronunciata, che forma una strozzatura nel profilo della colonna. I muri del naòs erano rastremati, probabilmente solo sulla faccia esterna, quelli del pronao presentavano invece la rastremazione su entrambe le facce. Questi ultimi terminavano con pilastri d'anta, a pianta rettangolare allungata, simili nel profilo per rastremazione ed èntasis alle colonne. Ad essi spettano i due capitelli d'arenaria, di tipo "protoionico" o "a sofà" rinvenuti non lontano dalla loro posizione di crollo. Essi recano, al sommo delle gole, due rocchetti, correnti nel senso dello spessore e desinenti, in un esemplare, con rosette plastiche; hanno inoltre l'abaco riccamente decorato con ornati plastici di repertorio ionico (rosette, fiori di loto e palmette). L'epikranìtis, corrente al sommo dei muri in corrispondenza dei capitelli d'anta, presenta verso l'esterno un profilo complesso: al disopra di un listello fortemente sporgente è un becco di civetta ornato con un kỳma ionico e sormontato da una fascia recante rosette plastiche. Il profilo ricorda alcune sagome arcaiche dell'ambiente di Sibari, mentre l'ornato plastico a rosette è di tradizione samia. Alla porta tra il pronao ed il naòs è stata invece attribuita una sagoma a becco di civetta con il tradizionale ornato a foglie doriche.
In base alla ricostruzione dell'edificio proposta dagli editori, il triglifo ammette trentasei metope, sei su ciascun lato breve e dodici su ognuno dei lati lunghi. Per dimensioni e cronologia esse sono state identificate in una imponente serie di metope alto-arcaiche, in massima parte reimpiegate nella stoà del IV sec. e negli edifici della zona B. Di esse soltanto due sono state rinvenute nelle immediate vicinanze del cosiddetto Thesauròs I: il n. 1 (Pholos) a m 1,50 dall'angolo S-E, ed il n. 29 (Tityos e Latona) presso il muro meridionale, a m 2,30 dall'angolo S-O. La serie si componeva, fino al 1954, di 35 metope, due delle quali (nn. 34, 35) ridotte a frammenti illeggibili. A queste si sono recentemente aggiunte altre due metope, sì che il numero complessivo ne è salito a 37: si rende pertanto necessaria una revisione nella ricostruzione dell'edificio già proposta.
Nelle lastre già edite, la metopa è in genere lavorata in un sol blocco con il triglifo alla sua sinistra, e lo spessore della metopa decresce da destra verso il triglifo. Sul lato libero corre un listello verticale fortemente sporgente. Presentano queste caratteristiche 22 lastre, cui si deve forse aggiungere una ventitreesima (n. 31). Due sole lastre presentano triglifo e spessore decrescente a destra. Infine 5 metope sono indipendenti dal triglifo. I triglifi sono rastremati verso l'alto mentre le metope presentano rastremazione inversa. Le metope non hanno capitello, ed il rilievo giunge in molti casi fino al taglio superiore delle lastre; il listello di base è inclinato verso l'esterno per rendere visibile dal basso il piano di posa delle figure. La forma particolare delle lastre indica che esse erano disposte a denti di sega: gli editori attribuiscono questa disposizione inusitata e complessa all'inesperienza delle maestranze. Ciò sembra difficilmente conciliabile con la complicata forma attribuita alle lastre proprio in vista di quella disposizione, che implicava notevoli difficoltà di esecuzione. Lo Stucchi vi scorge invece una conferma alla sua ipotesi, che il fregio fosse stato concepito per un edificio più grande: dovevano in origine esistere, a suo avviso, due gruppi equivalenti di lastre con obliquità inversa e posizione del triglifo invertita: le metope col triglifo a sinistra dovevano occupare la metà sinistra di ciascun lato dell'edificio, quelle col triglifo a destra occupavano invece l'altra metà. Lo scopo di una simile disposizione era di correggere la apparente concavità del fregio rispetto a chi si ponesse sull'asse di ciascun lato.
Secondo gli editori le metope furono poste in opera dopo la costruzione del tetto, come sarebbe indicato da numerosi incavi esistenti sul retro e sul taglio superiore delle lastre, praticati, in fase di montaggio, in corrispondenza di travi sporgenti. Ciò poté avvenire perché le lastre non erano portanti. Il montaggio procedé su ciascun lato da destra verso sinistra, inserendo per ultima una metopa isolata prima del triglifo angolare.
Gli incavi che si ritengono praticati in corrispondenza delle estremità delle travi sono in qualche caso chiaramente obliqui, e sembrano conciliabili solo con una struttura del tetto a tre o a quattro spioventi. Sicura è la presenza di uno spiovente sul lato occidentale, se ad esso vanno riferite le sei metope recanti sul taglio superiore un H (inteso come abbreviazione di ἕσπερος). Se sulla struttura generale del tetto consentono tanto il Krauss che la Zancani Montuoro, le opinioni dei due studiosi divergono invece notevolmente nei particolari della ricostruzione. Mentre infatti il Krauss ritiene estesa a tutto l'edificio la disposizione radiale delle travi indicata dagli incavi obliqui sulle lastre del fregio, la Zancani Montuoro ritiene invece questa disposizione, derivante dal tipo di copertura usuale per gli edifici absidati alto-arcaici, limitata alle due estremità del cosiddetto Thesauròs. La copertura a travi radiali qui impiegata presenterebbe affinità sostanziali con il tipo di tetto che appare riprodotto in un gruppo di tombe etrusche a camera, quali ad esempio la Tomba Campana a Veio. La parte mediana del Thesauròs avrebbe invece avuto una normale copertura a doppio spiovente. Poiché la disposizione delle metope e quella delle travi del tetto sono interdipendenti, alcune divergenze esistono di conseguenza anche sull'ordinamento delle lastre.
In undici metope il rilievo costituisce un piano più o meno unito, avanzato rispetto al fondo. È stato supposto che queste lastre fossero state poste in opera ancora incompiute, testimoniando esse delle diverse fasi di lavorazione delle sculture; e del resto tracce di incompiutezza sembrano mostrare anche il rocchio superstite, che non è stato scanalato, ed almeno uno dei blocchi dell'epikranìtis.
Delle 33 metope leggibili, fra quelle edite, 17 si riferiscono al ciclo di Eracle: sono rappresentati la centauromachia del Pholoe (nn. 1-6); il tentato ratto di Hera ad opera dei Sileni (nn. 7-9); Eracle, Deianira ed Eurytion (nn. 10-11); il ratto del tripode (n. 12); Eracle ed i Cercopi (n. 13); il cinghiale di Erimanto (n. 14); Anteo (n. 15); il leone nemeo (n. 16); Nesso (n. 17).
Dieci metope recano episodî del ciclo troiano: Achille nell'agguato a Troilo (n. 18); la morte di Patroclo (nn. 19-21); la pròthesis di Ettore (nn. 22-23); l'Oresteia (nn. 24-26); Odisseo sulla tartaruga (n. 27). Altre 6 metope recano episodî mitici varî: il ratto di Latona (nn. 28-29); il ratto delle Leucippidi (nn. 30-31) e la morte di Pelia (nn. 32-33).
Le due figure della metopa n. 7, ritenute dallo Zanotti Bianco Hera ed Eracle, erano state da lui stesso interpretate in origine come Elettra ed Oreste. A questa esegesi ritorna ora il Napoli. La metopa n. 27, interpretata dubitativamente dalla Zancani Montuoro come Odisseo sulla tartaruga, rappresenta, secondo il Kerényi, Teseo sulla tartaruga di Scirone. Nella metopa n. 32 (Pelia nel calderone) il Pugliese Carratelli riconosce invece Kokaios. La n. 33 (Peliadi) rappresenta secondo il Napoli la Pythia e una sua accolita, secondo una possibilità già adombrata dallo Zanotti Bianco. In tal caso la metopa va naturalmente collegata con l'Oresteia.
Se si prescinde da quei miti troppo genericamente diffusi nell'arte arcaica perché se ne possa individuare l'origine in un particolare ambiente, gli scultori del fregio sembrano aver attinto soprattutto alla poesia di Stesicoro. E l'ambiente italiota, in cui confluiscono e si amalgamano componenti culturali diverse, si riflette anche nel linguaggio delle sculture che, aldilà di limitati confronti con opere d'ambiente corinzio, attico e soprattutto ionico, non trova la sua spiegazione in nessuna di queste cerchie. Prevale tuttavia, come si è detto, nella falsa volumetria sottesa ad un cromatismo accentuato, quella maniera che si suole definire ionica.
Ciò risulta evidente dal raffronto con le metope del tempio di Assos: si vedano ad esempio le due lastre riprodotte dal Kahler (Das Griechische Metopenbild, Monaco 1949, tav. 37) accanto ai nn. 30 (Dioscuri) e 25 (Egistofonia).
Ma come nell'architettura posidoniate arcaica, il cromatismo ionico si modula su di una tessitura struttiva, di pianta e di elevato, rigorosa nella scansione degli spazî secondo la tradizione del dorico, così in queste sculture la maniera di costruire le figure attraverso la svalutazione della linea di contorno è subordinata ad una articolazione compositiva assai nitida, e a volte fin troppo scoperta. Notevole, e per il momento ancora difficilmente valutabile (Bianchi Bandinelli), dev'essere stata l'influenza che queste sculture hanno indubbiamente esercitato sull'arte dell'Etruria arcaica.
La Zancani Montuoro riconosce nel fregio l'opera di tre maestri indipendenti, nessuno dei quali dev'essere peraltro considerato l'ideatore o il coordinatore dell'opera. Al Maestro di Pholos, che prende il nome dalla lastra n. 1, ella attribuisce le metope 1, 3, 31, 33 e, dubitativamente, anche i nn. 2, 4, 30, 32. Il tratto caratteristico di queste sculture è riconosciuto nella ricerca sempre viva ed aperta di nuove soluzioni formali. Personalità antitetica è quella del Maestro del Centauro, così denominato dalla metopa n. 6, col centauro al galoppo. Tradizionalista e legato a modi più arcaici, gli si attribuiscono, oltre alla metopa eponima, i nn 5, 6,14, 21 e, con qualche riserva, i nn. 19, 20. Tra queste due personalità artistiche più spiccate occupa un posto intermedio il Maestro del Tripode, partecipante dei modi dei due artisti maggiori. Oltre che dalla metopa n. 12 egli è rappresentato dai nn. 7, 8, 9, 10, 11, 12, 24, 25 e forse anche dai nn. 13 e 17.
Recentemente M. Napoli ha revocato in dubbio l'appartenenza delle lastre ad un unico edificio e la loro unità cronologica, ed ha tentato un diverso raggruppamento stilistico dei rilievi. Più che ai "motivi-firma", egli ha rivolto la sua attenzione ai modi in cui è intesa e realizzata la composizione, individuando per il momento le figure di due maestri, che egli chiama Maestro dell'Oreste e Maestro della Tartaruga, rispettivamente dalle metope 7 e 27. Le metope del Maestro dell'Oreste (nn. 7, 13, 22, 23, 24, 25, cui si accostano i nn. 12 e 13, probabilmente opera di un seguace) sono contraddistinte dal prevalere nella composizione di cadenze verticali e dalla "soluzione degli spazî vuoti attraverso figure geometriche piane". Nelle opere riferibili al Maestro della Tartaruga ed ai suoi aflini (nn. 8, 9, 15, 16, 17, 18, 26, 27 e, probabilmente, il n. 21) prevale invece l'uso della linea fluente, e di una "composizione che tende a dilatarsi nel quadro metopale" annullando il fondo. Il Maestro della Tartaruga sarebbe stato attivo uno o due decennî più tardi del Maestro di Oreste.
I cavi di fondazione del Thesauròs risultano tagliati in uno strato contenente quasi esclusivamente materiale corinzio databile, a quanto pare, alla seconda metà del VII ed al primo venticinquennio del VI sec. a. C. In base a ciò ed all'esame stilistico dei rilievi, gli editori hanno datato il monumento al 570 a. C. Essi vi riconoscono un thesauròs eretto da Siris e rimasto incompiuto per la distruzione subita da questa città. Una datazione più bassa, al 540 a. C., è stata proposta dal Kähler e dal Dinsmoor, in base alla analisi delle metope che i due studiosi ritengono più recenti di quelle dei due gruppi selinuntini più arcaici. Sugli elementi architettonici, confrontati con quelli degli altri templi arcaici della piana del Sele, si fonda invece una recente proposta di porre l'edificio alla metà del secolo.
Di altri due edifici, detti Thesauròi II e III, non si sono ancora rintracciate le fondazioni. Al Thesauròs II, attribuito dubitativamente a Velia, si riferiscono una metopa ed un capitello arcaico. La metopa, recante le figure di due opliti e di un caduto, è di datazione piuttosto alta, poiché presenta una notevole rastremazione verso il basso. Assai poco rimane della superficie del rilievo, che era stata del resto solo sgrossata col puntino. Al cosiddetto Thesauròs III si attribuiscono una metopa con figura di oplita, e i frammenti di alcune lastre di analogo soggetto, riferibili forse ad una amazzonomachia. Per la forma dell'elmo, che trova stretto confronto nei vasi della media attività di Douris, e per i caratteri stilistici, il complesso è databileal 480 circa.
Lo Heraion. - Il tempio di Hera è un octastilo pseudo-diptero con 17 colonne sui lati lunghi, misurante in fondazione m 18,615 × 38,950. Ne rimane in situ solo lo stereobate, che si conserva in qualche tratto per l'intera sua altezza. Esso poggiava su due strati di arena divisi da uno strato di sabbia. È questo il consueto fondo elastico ed assorbente che si ritrova al disotto dei templi maggiori di Posidonia e del VII thesauròs (dei Sibariti) ad Olimpia; presso la foce deI Sele esso era particolarìnente necessario per l'inconsistenza del terreno e l'alto livello delle acque sotterranee. Questi stessi motivi hanno sconsigliato l'erezione di un possente stereobate, quale si riscontra nei templi maggiori della vicina Posidonia. In corrispondenza della perìstasis ci si è infatti limitati a quattro assise, delle quali l'ultima reca l'euthynterìa, che sembra peraltro assente sui lati lunghi; e di due sole assise consiste lo stereobate della cella. Allo scarso sviluppo in profondità delle fondazioni si pose rimedio inserendo trasversali (contrasti) tra la perìstasis e la cella nei punti ove più forte era la spinta dell'elevato, e rinforzando gli angoli con contrafforti. Venne inoltre preordinata la disposizione dei giunti nelle varie assise in diretto rapporto con quella delle colonne; si prevenne in tal modo ogni possibilità di slittamento dei blocchi verso l'esterno. Si osserva qui per la prima volta, nella piana del S., l'uso di grappe metalliche. L'anathỳrosis è già di tipo evoluto.
Gli assi dei muri della cella sono allineati con quelli delle corrispondenti colonne della perìstasis, secondo l'uso ionico. Ciò trova riscontro, per la Piana del Sele, nello enneastilo di Posidonia, come è stato dimostrato da un recente studio del Krauss. La cella si compone di pronao, naòs ed àdyton. I suoi muri laterali sono leggermente convessi verso l'esterno e inoltre il naòs, all'interno, si allarga sensibilmente verso il fondo; si tratta in entrambi i casi di correzioni ottiche in previsione dell'effetto prospettico. Il pronao, distilo in antis, era forse ionico; i suoi muri laterali avevano colonne al posto delle ante. L'ambulacro è più ampio sul lato orientale, dove la sua larghezza è pari a tre interassi: un fenomeno analogo si verifica nell'Athenaion di Posidonia.
Secondo la ricostruzione del Krauss la perìstasis presentava contrazione angolare semplice sulle fronti e doppia sui lati lunghi: sarebbe in tal caso questo il primo esempio di un tal genere di contrazione, il cui impiego si diffonde solo in Occidente, a partire dal 480 circa. Secondo il Krauss alla contrazione negli interassi delle colonne angolari non corrisponde qui un analogo restringimento delle metope estreme: ed anzi la metopa che egli pone in angolo (n. 3) è la più larga. La soluzione del "conflitto angolare" sarebbe dunque qui ancora in fase sperimentale.
Delle colonne avanzano pochi rocchi, alcuni di calcare, altri di arenaria: tutti hanno 18 scanalature. Ad essi corrispondono due gruppi di capitelli alquanto diversi nel profilo: quelli d'arenaria hanno infatti l'echino maggiormente espanso, con una rientranza più forte al disotto dell'abaco. Questo è sempre lavorato a parte, come in alcuni capitelli dell'enneastilo.
L'architrave non presenta taenia con regulae, ed era coronato da una modanatura multipla: su entrambe le facce dell'assisa era un kỳma dorico sopra un kỳma ionico; le sagome della faccia esterna recano una decorazione plastica con foglie, ovuli ed astragali. Un'assisa sagomata al disopra di un architrave liscio si ritrova nell'enneastilo e nell'Athenaion di Posidonia, nel tempio di Apollo Lỳkaios a Metaponto e nel Thesauròs dei Metapontini ad Olimpia. Al disopra del fregio mancava, con ogni probabilità, il normale gèison dorico, sostituito da una modanatura multipla recante, dall'alto verso il basso: un kymàtion lesbio sormontato da un listello, un kymàtion ionico ed una piccola cyma reversa sormontata da un tondino. Analogamente, nell'Athenaion di Posidonia, il gèison orizzontale è sostituito da una modanatura ionica. Sui lati lunghi, immediatamente sopra quest'assisa poggiava la sima, qui di struttura insolita: si compone infatti di una serie di blocchi massicci d'arenaria, attraversati longitudinalmente da uno stretto canale incavato; ciò rivela che la faccia superiore del blocco e non, come di consueto, quella inferiore, rimaneva al livello della falda del tetto. I blocchi erano sagomati con un'ampia cyma reversa sopra un tondino e recavano al centro una protome leonina. Il Krauss avanza l'ipotesi che al disopra della sima corresse, leggermente arretrata, una fila di antefisse. Diversa e più regolare doveva essere la disposizione in corrispondenza dei lati brevi, dove era probabilmente una normale sima sormontante la falda del tetto: ma di questa parte avanza solo un blocco angolare del frontone con parte della base di un acroterio.
Del fregio rimangono tre frammenti di triglifo e dodici metope figurate. I triglifi, salvo che nelle lastre 3 e 7, si sovrapponevano leggermente alle metope con due denti laterali; erano rastremati verso l'alto mentre le metope presentavano rastremazione inversa. Le metope sono coronate da un'ampia taenia che si arresta prima dei tagli laterali; esse presentano altezze molto diseguali, oscillanti, nelle lastre superstiti, tra m 0,915 e 0,829. Dall'analisi delle prime cinque lastre rinvenute (nn. 1-5), gli editori avevano dedotto che queste erano disposte in modo leggermente obliquo, con il lato destro più internato. In esse infatti la scena risulta spostata verso la metà sinistra del campo "ed a ciò corrisponde una diversa lavorazione del rilievo, più alto e curato fin nel sottosquadro a sinistra, sommario anche nel profilo verso l'altro lato". A ciò si aggiunge una maggiore altezza delle lastre a sinistra (nn. 1 e 2, in cui il particolare è misurabile) e l'angolo leggermente ottuso che formano, verso destra, la taenia ed il listello di base con il fondo. Lo Stucchi aveva supposto che dovevano esistere anche qui, come nella serie più arcaica, altre metope con caratteristiche opposte, e che queste ultime dovevano occupare la metà sinistra di un lato del tempio, mentre quelle superstiti andavano disposte sulla metà destra di esso. Come nella serie più antica, anche qui la leggera rotazione delle lastre verso l'esterno aveva lo scopo di correggere l'apparente concavità del fregio.
Questa ipotesi sembra trovar conferma nelle metope recentemente edite (nn. 7-12) che presentano, almeno in parte, caratteristiche opposte ai nn. 1-5, e pare fossero poste "sul tempio con obliquità inversa a quella delle precedenti, ossia col lato sinistro più internato".
Delle 12 metope superstiti, una (n. 12) ha interamente perduto il rilievo, 10 rappresentano un choròs di fanciulle, ed un'ultima (n. 6) reca la parte inferiore di due figure, l'una inginocchiata, l'altra stante, interpretate come amazzoni.
Delle metope raffiguranti il choròs, cinque mostrano una coppia di figure femminili in moto verso destra (nn. 1, 2, 4, 5, 11) ed altre tre, nelle quali il rilievo è in gran parte abraso (nn. 8, 9, 19) recavano probabilmente lo stesso soggetto. Delle rimanenti; una presenta una figura di fanciulla in moto verso destra e retrospiciente (n. 3), due recano una coppia di fanciulle, di cui quella in primo piano è retrospiciente. Le figure indossano tutte il costume ionico.
Opportunamente la Zancani Montuoro ha accostato questi rilievi alla metopa con Europa sul toro ed alla canefora di Phillo da Posidonia, riconoscendovi l'opera di scultori locali. Non lontana è la metopa fittile Griso Laboccetta da Reggio Calabria. La studiosa riconosce in questa parte del fregio l'opera di almeno quattro maestri. Nell'autore delle metope nn. 3 e 5 ella ravvisa l'ideatore ed il coordinatore dell'opera, ed è certamente questo il gruppo in cui più fresca e viva è la composizione, e più immediata l'aderenza alle fonti d'ispirazione ionica; il rendimento delle chiome a ciocche appena ondulate richiama, come ha osservato la Zancani Montuoro, le kòrai delie. Isolata rimane finora la metopa n. 1, dove più pesante è il panneggio e la ricerca luministica è meno intensa. La massa unitaria e un po' convenzionale delle chiome richiama alla mente il rilievo milesio di Karakoi; una certa genericità si osserva anche nei volti. Più lineare e nervosa è la composizione nelle due metope nn. 4 e 7, attribuite ad una stessa mano; ma nell'audacia degli schemi è forse da riconoscere un'eco di formule derivate dalle cosiddette arti minori, forse dalla ceramica. Ciò spiegherebbe anche la resa delle pieghe nel panneggio con semplici solchi su di una superficie unitaria. Nelle lastre nn. 2 ed 11, la durezza della composizione e la estraneità del panneggio alla figura sembrano da imputarsi alla indifferenza dello scultore di fronte al tema, creato in ambiente ionico come pretesto per una ricerca luministica. Per la cronologia è determinante il confronto con i prodotti di Euthymides e della sua cerchia: si ritrova nei rilievi infatti la mancanza di coordinamento fra il tronco e gli arti e la particolare resa dei seni, dei quali uno è accuratamente rappresentato di profilo, mentre l'altro è appena accennato. Ne risulta pertanto una datazione delle sculture e dell'edificio al decennio 510-500 a. C.
In questo gruppo di metope era stata in un primo tempo riconosciuta dalla Zancani Montuoro la rappresentazione di un choròs liturgico, connesso forse con cerimonie di culto locale. Ed è questa l'interpretazione che sembra anche attualmente preferibile. Ma la scoperta delle nuove lastre e l'atteggiamento, ritenuto di fuga piuttosto che di danza, nella coppia di figure della metope n. 11, ha successivamente indotto la studiosa ad escludere l'ipotesi, ed a ravvisare piuttosto nelle fanciulle uno stuolo di Nereidi presenti ad una mitica contesa: la lotta tra Eracle e lo ἅλιος γέρων o il ratto di Teti.
Ad un restauro di parte del fregio, avvenuto intorno al 400 a. C., sono state attribuite quattro metope con superficie in massima parte non conservata, e due frammenti. Solo in una lastra il soggetto è in parte riconoscibile: vi si scorge infatti, accanto ad un personaggio di minori proporzioni, la figura di Eracle.
Al tempio si accedeva mediante una rampa appoggiata al crepidoma sulla fronte E, in corrispondenza dell'interasse centrale: è incerto se essa adducesse, con una gradinata molto bassa, al primo gradino del crepidoma (Zancani Montuoro), o se montasse invece con superficie inclinata fino allo stilobate (Krauss).
A m 34,18 ad E della fronte orientale del tempio è l'ara, leggermente spostata verso N rispetto all'asse dell'octastilo. Sull'unica assisa di fondazione, recante l'euthynterìa, s'imposta il podio, composto di due assise piane. Su tre lati questo era contornato da un filare di ortostati sormontato da una assisa piana di coronamento. All'elevato dell'ara vanno forse riferiti alcuni piccoli triglifi di calcare, ed i frammenti di una cyma reversa. Sul lato O si appoggiavano al podio quattro gradini, dei quali il superiore, con pedata molto più larga, aveva funzione di pròthysis.
Stoài. - Sul lato N, l'area sacra era delimitata da due stoài a pianta rettangolare allungata, con asse maggiore E-O. Delle due, più antica è la stoà N-O, che è stata tagliata dall'edificio più recente. Sul lato S essa presentava un'ampia apertura con pilastri, dei quali avanzano in situ due basamenti. Era divisa in due ambienti di diseguale ampiezza da un muro trasversale con faccia vista più regolare verso l'ambiente maggiore. Sotto il pavimento sono state rinvenute solo alcune oinochòai protocorinzie a corpo conico. L'edificio sembra pertanto il più antico fra quelli finora esplorati.
Dopo l'evento bellico che, tra gli inizî ed il terzo venticinquennio del IV sec. arrecò gravissimi danni al santuario, va invece datata la stoà N-E, costruita con materiale reimpiegato dal cosiddetto Thesauròs I. La ceramica rinvenuta in fondazione non scende infatti oltre l'inizio del IV sec., mentre quella trovata sul pavimento è d'età ellenistica. La stoà si compone di un' ampia sala mediana, aperta verso S con un portico a cinque colonne. Ai lati di quest'ambiente, e comunicanti con esso, sono due vani minori. Alla fronte della stoà si addossava un porticato a pilastri.
All'incirca coeva alla precedente è la stoà orientale, con asse maggiore N-S, congiunta alla precedente da alcuni vani in struttura meno regolare, probabilmente più recenti. Essa è costruita in gran parte con materiale reimpiegato dal cosiddetto Thesauròs I e dall'octastilo. Si compone di un'ampia sala con ingresso sul lato lungo occidentale, e di un piccolo vano rettangolare verso S. Nell'ambiente maggiore sono i resti di due focolarî il maggiore dei quali è in asse con l'ingresso. Anche davanti a questa stoà correva probabilmente un porticato od una tettoia.
Sostegni di donarî, di colonne votive e di un lebete di bronzo sono stati rinvenuti nella zona fra il cosiddetto Thesauròs I e l'octastilo, ed a S di quest'ultimo. In un caso è stata riadoperata come base di donario una metopa scalpellata. Un'ara, minore (9,31 × 5,82 m) di quella dell'octastilo, è ancora inedita.
A circa 300 m a S-E dell'ara dell'octastilo si estende la zona B dello scavo. Si è rinvenuta qui una torre rettangolare con l'asse maggiore N-S ed apertura eccentrica sul lato occidentale. Avanzano su questo lato le fondazioni di una scala esterna, che adduceva ad un secondo piano. L'edificio era costruito quasi esclusivamente con materiale di secondo impiego, tra il quale erano i6 metope e numerosi blocchi dell'epikranìtis del cosiddetto Thesauròs I. Per l'edificio è stata. proposta una datazione al IV sec. a. C. Alla torre si sovrapposero e si addossarono costruzioni più recenti, tra le quali la più notevole è un'ampia sala rettangolare; anche in essa erano state reimpiegate due metope del gruppo più antico. Meno chiara è per ora l'interpretazione di alcuni avanzi di muri e di quattro rocchi di colonna rinvenuti immediatamente ad O della torre.
Bibl.: P. Zancani Montuoro, in La Critica d'Arte, I, 1935, p. 27 ss.; P. Zancani Montuoro-U. Zanotti Bianco, in Not. Sc., 1937, p. 207 ss.; P. Zancani Montuoro, in Palladio, IV, 1940, p. 49 ss.; id., in Le Arti, III, 1940, p. 38 ss.; H. Fuhrmann, in Arch. Anz., 1941, c. 636; H. Kähler, Das griechische Metopenbild, Monaco (Bav.) 1949, pp. 36; 38; 39 s.; 49; 76; W. B. Dinsmoor, The Architecture of Ancient Greece, Londra 1950, pp. 85 s.; 96; P. Zancani Montuoro, in Arch. Storico Calabria Lucania, XIX, 1950, p. 65 ss.; P. Zancani Montuoro-U. Zanotti Bianco, Heraion alla foce del Sele, Roma, I, 1951; II, 1954; J. Bérard, A l'Héraion du Silaris, près de Paestum, I, in Rev. Arch., 1952, II, p. 12 ss.; S. Stucchi, in Ann. Scuola Atene, N. S., XIV-XV, 1952-54, p. 41 ss.; F. Krauss, in Neue Beiträge zur klassischen Altertumswissesnchaft, Stoccarda 1954, p. 125 ss.; J. Bérard, A l'Héraion du Silaris, pres de Paestum, II, in Rev. Arch., 1955, p. 121 ss.; P. Zancani Montuoro, in Atti e Mem. Soc. Magna Grecia, N. II, 1958, p. 7 ss.; id., in Atti e Mem. Soc. Magna Grecia, N. S., III, 1960, p. 69 ss.; G. Rizza, in Arte Antica e Moderna, XII, 1960, p. 340 ss.; H. Jucker, in Antike Kunst, 1960, p. 91 s.; B. d'Agostino, I tre templi maggiori di Poseidonia, in Studi Lucani, I, 1961; M. Napoli, Le metope antiche del Thesauros dell'Heraion del Sele, Bari 1963.