Butterfield, Herbert
Storico e filosofo della storia inglese, nacque il 7 ottobre 1900 a Oxenhope (Yorkshire). Frequentò il Peterhouse College di Cambridge, dove si laureò nel 1922. Dopo una breve esperienza a Princeton, iniziò la sua carriera accademica come lettore di storia al Peterhouse (dal 1930). Professore di storia moderna a Cambridge dal 1944, diresse il «Cambridge historical journal» (dal 1936) e il Peterhouse dal 1955. Fu vicecancelliere dell’Università di Cambridge (dal 1959) e regius professor di storia moderna (dal 1963). Morì a Sawston il 20 luglio 1979.
Le sue opere storiografiche prendono le distanze dalla tradizione interpretativa cosiddetta Whig, improntata a una lettura progressista degli eventi storici, e si intrecciano con gli esiti delle indagini filosofiche sul cristianesimo e sulla presenza del divino nei processi e nell’evoluzione della civiltà umana. Particolare interesse egli riserva alla storia della scienza e al rilievo storico della rivoluzione scientifica (The origins of modern science, 1949). Tra gli altri suoi scritti: The whig interpretation of history (1931); The Englishman and his history (1944); Christianity and history (1949); George III, lord North and the people (1949); History and human relations (1951); Christian ity, diplomacy and war (1952).
B. dedica allo studio dell’opera machiavelliana The statecraft of Machiavelli (1940), un’introduzione al Principe tradotto da William K. Marriott nel 1958 e l’articolo Professor Chabod and the Machiavelli controversies (1959). La sua lettura si sofferma sul tema di un nuovo Stato per l’Italia, sul forte ancoraggio storico nella riflessione di M., sul nesso tra teoria politica e prassi; B. ribadisce la necessità di inquadrare M. nella realtà del Cinquecento, prospettando tuttavia una discutibile svalutazione del peso e dell’originalità del suo pensiero politico. La scienza politica di M. si fonderebbe, per B., sul presupposto dell’utilità del passato attraverso l’esempio di grandi uomini, la cui scarsa considerazione avrebbe determinato il fallimento dei regnanti italiani. Il pensiero di M. si ridurrebbe a una serie di formule, derivanti non tanto dall’esercizio politico quanto da un impianto dottrinario che recupera teorie già elaborate dalla scuola storica fiorentina (l’antichità intesa come guida sicura per il presente) e dai classici.
B. critica la rigidità del principio di imitare i Romani, che assolutizza il valore dei precetti antichi e trascura le diversità intrinseche a ogni evento. Più matura invece gli appare l’idea guicciardiniana di un’azione politica basata sull’impossibilità di adeguarsi a una regola certa e uniforme. In nome della continuità fra le età, B. nega la modernità del pensiero machiavelliano e il carattere induttivo del suo metodo di analisi politica, riducendo a semplici deduzioni letterarie l’acuto realismo di M. nel trattare temi portanti come il binomio conoscenza/esperienza, la virtù individuale e il suo riscontro con il contingente, la milizia, la naturale evoluzione degli Stati. Il Principe e poi i Discorsi appaiono a B. una sorta di prontuario al servizio del tiranno usurpatore; la visione di uno Stato laico, autonomo da morale e religione, monarchico nei casi di grave corruzione del popolo, risulta più efficace nella teoria che nella pratica (questo l’esito di una lettura unilaterale dell’esempio di Cesare Borgia) in quanto espressione dell’interesse del principe, indifferente al bene collettivo e al ripristino delle libere istituzioni.
Bibliografia: D. De Camilli, Machiavelli nel tempo, Pisa 2000; M. Bentley, The life and thought of Herbert Butterfield, Cambridge 2011.