Hollande nei panni dell’eroe
L’operazione Serval promossa dal presidente francese Hollande ha bloccato l’avanzata dei combattenti ribelli diretti dal nord del paese verso Bamako. Ma la vittoria di Parigi pare destinata a scolorire in una Francia in cui l’opinione pubblica è preoccupata da altro. E, in Mali, problemi e tensioni rimangono sul tavolo.
L'intervento militare francese nel Mali, nel gennaio 2013, noto come operazione Serval, è stato presentato da Parigi come una «necessità» e un «successo». Il resoconto degli avvenimenti fatto dal governo francese, largamente ripreso dai media nazionali, ha spiegato che una rivolta etnica e islamica, nel nord del paese, minacciava l’integrità di questo Stato africano 4 volte più grande dell’Italia e che i combattenti ribelli (presentati come tuareg e jihadisti) si preparavano a marciare sulla capitale Bamako per impadronirsi del potere e imporre un ordine politico e religioso rigorista ai 15 milioni di abitanti, per la maggior parte musulmani, ma favorevoli alla neutralità dello Stato in quest’ambito.
Un’altra dimensione della questione maliana è stata spesso evocata: la metà settentrionale del paese, compresa nell’immensa zona desertica sahariana, era sfuggita da tempo al potere centrale maliano. Da anni teatro di una rivolta tuareg (etnia nomade berbera), la zona – di difficile accesso e ai margini dello sviluppo economico – era diventata libero feudo di trafficanti d’ogni sorta (sigarette, macchine, migranti, droga e armi), luogo perfetto per sequestri a cui far seguire richieste di riscatto e in tempi recenti anche rifugio di gruppi di combattenti islamici locali o stranieri. In questo clima d’instabilità diffusa, i governi occidentali – America e Francia in testa – vedevano con inquietudine svilupparsi in prossimità dell’Europa un santuario terrorista, un sahelistan, da cui l’idra di al-Qaida avrebbe potuto lanciare impunemente le sue operazioni omicide.
È in questo contesto che ha preso forma alla fine del 2012 l’intervento della Francia nel Mali, che dopo la sua indipendenza nel 1960 è rimasto uno dei più poveri paesi del mondo.
Il 20 dicembre 2012 il Consiglio di sicurezza dell’ONU aveva votato la risoluzione 2085, che autorizzava il dispiegamento di una forza africana nel Mali – denominata con l’acronimo MISMA – allo scopo di ristabilire l’autorità dello Stato nel nord del paese. La risoluzione rispondeva alla situazione che vi si era sviluppata a partire dall’inizio del 2012, allorché la rivolta dei tuareg, rappresentata dal Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (MNLA), aveva scacciato l’esercito maliano dalle grandi città della regione, Timbuctù, Goa e Kidal, e nell’aprile 2012 aveva dichiarato l’indipendenza del nord. Allo stesso tempo a Bamako, capitale del Mali (1,8 milioni di abitanti), un ufficiale maliano, il capitano Amadou Haya Sanogo, attuava nel marzo 2012 un rapido putsch cacciando il presidente Amadou Toumani Touré, al potere da oltre un decennio, cui rimproverava di aver indebolito l’esercito al punto di dover cedere territori ai ribelli del nord. Formato nelle accademie belliche americane, il capitano Sanogo rappresentava per il Pentagono un investimento umano importante, al pari dei 600 milioni di dollari che gli Stati Uniti avevano versato all’esercito maliano per favorirne la riorganizzazione e facilitare la lotta contro i ribelli islamici. Uno sforzo rimasto peraltro senza risultati.
Dopo la condanna del putsch da parte degli africani, degli europei e, paradossalmente, degli stessi americani, che aveva portato nell’aprile 2012 al ripristino dell’ordine costituzionale, con la sostituzione del presidente Traoré, in esilio, e la nomina ad interim del presidente della Camera Dioncounda Traoré, Sanogo era rimasto alla testa della giunta militare, che, oltre a controllare il potere in carica, si era resa responsabile di una violenta aggressione, che nel mese di maggio aveva costretto il presidente ad interim a rifugiarsi in Francia da cui rientrerà in patria (sotto protezione francese) nel luglio successivo.
Intanto, i ribelli tuareg del nord, sempre più dominati dagli islamici radicali, alla fine del 2012 approfittano del vuoto politico a Bamako e iniziano la loro discesa verso il sud, ponendosi come primo obiettivo l’aeroporto di Sévaré: una postazione centrale ottimale, utile sia per i loro traffici clandestini sia per eventuali ambizioni politiche o progetti terroristici di più ampio raggio, dalla quale poter avanzare verso Bamako.
Alla fine di dicembre 2012 gli Stati Uniti hanno perso ogni fiducia nel capitano Sanogo, non credono in alcun modo all’efficacia della MISMA, la forza armata africana prevista dalla risoluzione 2085. Non sono però interessati, appena usciti dalla guerra in Iraq, a intervenire direttamente in un paese come il Mali. Spetta dunque soltanto alla Francia, che vede messi in gioco i propri interessi economici e il proprio prestigio in Africa, fare ‘qualcosa’.
Il «casus belli» si presenta nel gennaio 2013. Il 10 del mese i ribelli attaccano la città di Konna, ultimo baluardo prima dell’aeroporto di Sévaré, qualche chilometro più a sud. L’esercito maliano fugge senza realmente combattere. Al Consiglio di sicurezza gli Stati Uniti fanno circolare una lettera del presidente maliano che chiede un aiuto militare. La lettera è vaga quanto basta per soddisfare tutti e la Francia annuncia che risponderà all’appello delle autorità maliane.
Nello stesso tempo, le prime unità francesi atterrano a Sévaré: l’operazione Serval ha inizio.
Ufficialmente l’annuncio pubblico dell’intervento francese fatto l’11 gennaio 2013 dal presidente Hollande rispondeva alla risoluzione 2085 del Consiglio di sicurezza dell’ONU del 20 dicembre. Davanti alla stampa, Hollande insiste sul carattere ‘africano’ di questa operazione – nonostante la Francia fornisca la quasi totalità delle forze impiegate – e garantisce che i francesi si ritireranno dal territorio maliano una volta terminata l’operazione.
Alla fine di gennaio, grandi città come Timbuctù e Gao sono raggiunte senza grandi scontri armati. Una delle tappe principali di questa operazione è stato l’arrivo dei soldati francesi nella località di Kidal, città del nord-est malino presentata da Parigi come «bastione degli islamici»: un cliché che permetteva di enfatizzare i successi francesi sul territorio e di inserirli nel contesto più ampio, globale e popolare della ‘guerra contro il terrorismo’.
Il 2 febbraio, il presidente Hollande si reca in visita a Timbuctù e a Bamako: 22 giorni dopo l’inizio di Serval, è accolto nel Mali come un eroe. Hollande s’impegna a continuare la lotta al terrorismo, ad aiutare i maliani a stabilire una solida democrazia e annuncia elezioni per il mese di giugno (e che si svolgeranno il 28 luglio).
Da un punto di vista puramente militare, la Francia ha di che essere soddisfatta: l’operazione Serval ha provocato 6 morti e 200 feriti nei ranghi francesi, è stata conclusa rapidamente e il grosso del contingente sarà rimpatriato nei tempi convenuti. Sotto il profilo diplomatico, la Francia ha ugualmente saputo muoversi per ottenere una copertura internazionale e ha dimostrato di saper agire senza essere tenuta per mano dal grande fratello americano. Politicamente, il presidente Hollande può vantarsi di aver centrato l’obiettivo, come prima di lui aveva fatto il presidente Sarkozy con la Libia.
Ma questi successi esteriori sono di breve durata in un paese come la Francia in cui l’opinione pubblica
si preoccupa essenzialmente dell’aumento della disoccupazione, dell’aumento delle imposte o della crescita dell’insicurezza sul territorio nazionale. Inoltre, l’operazione Serval e le alleanze dell’ultim’ora che l’hanno facilitata non hanno certo risolto i problemi di fondo che sono all’origine della tensione fra Bamako e i popoli del nord. Le aspirazioni dei tuareg all’autonomia e gli squilibri economici fra Sud e Nord sono e rimangono temi esplosivi.
I rifugiati maliani (stime 2013)
rifugiati all’interno del Mali 70.000
rifugiati in Mauritania, Niger e Burkina Faso 190.000
Gli interessi francesi nella ‘Françafrique’: Algeria e Niger
Oltre alla sicurezza generale dello spazio europeo e del Mediterraneo, ci sono considerazioni che fanno del Mali un paese strategico per la Francia: la sua vicinanza con l’Algeria, ex possedimento francese, lacerata da anni da una sanguinosa guerra civile e considerata da Parigi potenziale fonte di pericolo; e la sua vicinanza con il Niger, da cui la Francia importa il 30% dell’uranio naturale, di cui le sue centrali nucleari hanno bisogno. Mentre la situazione degenerava nel Mali, il presidente francese Hollande riceveva il suo omologo nigerino Mohammadou Issoufou per discutere questo aspetto della questione, di cui egli era altamente competente per essere stato il direttore di Areva, gigante francese dell’uranio in Niger, prima di diventare presidente del paese.