DAUMIER, Honoré
Litografo, pittore e scultore, nato a Marsiglia il 26 febbraio 1808, morto a Valmondois, Seine-et-Oise, l'11 febbraio 1879. Frequentò per poco lo studio del Boudin, ma soprattutto si formò da sé, al Louvre e nell'acuta osservazione degli avvenimenti della strada. Un amico, Ramelet, l'iniziò alla litografia, procedimento allora novissimo. Sono del 1829 le sue prime pietre, in cui è visibile l'influenza del Charlet. Dal 1831 in poi collaborò alla Caricature, dalle cui pagine si faceva una guerriglia feroce contro il regime. Il D. vi trovò il suo stile, alieno da ideologie, la cui forza espressiva è dovuta alla stretta aderenza alla vita. Una serie di maschere e di ritratti a figura intera di uomini politici: Lameth, Thiers, Guizot, Dupin aîné, Soult, d'Agoult, fu una rivelazione per il penetrante acume con cui è colto il carattere e per una specie di grandezza epica e monumentale del disegno. Le stesse qualità si ritrovano in una vasta composizione, rimasta famosa col titolo di Il Ventre legislativo, in cui i deputati "moderati" son raffigurati come un'accolta di uomini soddisfatti e satolli.
Altri disegni sono saturi di senso comico, di pathos tragico: basti citare il famoso Enfoncé, La Fayette! e la Rue Transnonain, che nella spietata violenza satirica espressa con forma classica e solenne, fanno comprendere la frase di Balzac: "Questo giovane ha del Michelangelo sotto la pelle". Soppressa dal governo il 27 agosto 1835 la Caricature, per circa dodici anni il D. si dedicò in Charivari, che l'aveva sostituita, alla critica e alla descrizione dei tipi, dei costumi, dei difetti del vivere borghese. La maggior parte di questi disegni costituisce delle serie, quali Bravi borghesi (1846-1849), Vita coniugale (1839-42), i Papà (1846-48), Bas-Bleus (1844), Divorceuses (1848). Questa immensa commedia umana non si diletta mai del vizio, della perversità. Egli lascia al Gavarni l'equivoco, la parodia, le donnine allegre del ballo dell'Opera.
Qualche volta riprende la satira sociale per fustigare i finanzieri e i cavalieri d'industria, come nella celebre serie Robert Macaire (1840-41). La rivoluzione del 1848 rese per qualche anno all'artista una maggiore libertà, ma presto gliela tolse il colpo di stato del 1851. Da questo momento, il vecchio leone non ha quasi più occasione di ruggire e di mostrare le zanne altro che nelle questioni di politica estera: guerra di Crimea, campagna d'Italia e, dal 1867, diffidenza verso la Prussia. Dopo gli avvenimenti del 1870, la sua vena sovente si stanca e cede, ma già dal 1850 la sua produzione è abborracciata; gli succede di fare in un sol giorno gli otto o dieci disegni per tutto il mese. Si disinteressa sempre più della litografia e financo vi rinuncia per tre anni, dal 1863 al 1866. In questa seconda metà della sua esistenza l'antico libellista s'apparta dalla vita pubblica e non sogna altro che la pittura, alla quale si era iniziato con un bozzetto (museo del Louvre) che presentò a un concorso per un quadro dedicato al trionfo della Repubblica. Espose solo ai Salons del 1849,1851,1861 e 1869; ma il pubblico non prestò alcuna attenzione ai suoi quadri. Essi furono apprezzati soltanto da qualche artista, come Corot, Daubigny e J. F. Millet.
Questi quadri, di costumi e di caratteri, dai soggetti presi dalla vita quotidiana o dalla leggenda, si potrebbero quasi dire i più classici di tutto il sec. XIX, perché il D. è forse il solo maestro che abbia saputo elevare i soggetti più umili (Lavandaie, Sguattere, Viaggiatori di terza classe) alla dignità del grande stile senza cadere nella retorica. E in lui qualche cosa di naturalmente epico, che dà vita immortale ai suoi tipi presi dal La Fontaine, come I due ladri, Il mugnaio, suo figlio e l'asino, o da Molière, come Crispino e Scapino, Il malato immaginario o dal Don Chisciotte, che è sempre il tema favorito di questo generoso impenitente idealista.
Morì misconosciuto, solitario, quasi cieco nella piccola casa che il suo amico Corot aveva comprata per lui. Le sue opere, vendute dalla vedova, finirono incognite presso varî collezionisti. Venti anni dopo la sua morte, l'esposizione del 1900 lo rivelò al gran pubblico, e forse oggi l'influenza del D. è, insieme con quella di Cézanne, la più forte che si eserciti sopra la gioventù. Senza teorie, senza partiti presi, il D. è forse tra i maestri francesi quello al quale il mondo moderno può domandare con maggior fiducia le leggi dell'espressione e dello stile. Si hanno di lui alcune sculture, come il bassorilievo degli Emigranti (coll. G. Brière). Della statuetta di Ratapoil, tipo dell'aguzzino bonapartista, sono state fatte alcune repliche in bronzo nel 1888. (V. tavv. CXIII e CXIV).
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