Hou Hsiao-Hsien (pinyin Hou Xiaoxian)
Regista cinematografico cinese, nato a Meixian (provincia del Guandong) l'8 aprile 1947. Nell'irruzione della modernità nel cinema di area cinese (Cina Popolare, Hong Kong, Taiwan) degli ultimi venti anni, H.H.-h. è forse il solo cineasta (insieme, per aspetti diversi, a Tian Zhuang-zhuang) la cui cifra filmica, unita alla qualità dello sguardo e al senso del racconto, si è imposta per la sua forma classica. Nel suo cinema emerge un vero e proprio lavoro sul tempo, che sembra agire, quasi indipendentemente dalla volontà autoriale, all'interno dell'immagine, producendo un cortocircuito tra memoria individuale e memoria collettiva, tra passato e presente, e installandosi nell'agire interno della Storia. Questa si fa epica del 'vissuto' in un 'sentimento' di lontananza delle singole vite e vicende dei personaggi, non a caso ripresi spesso in campi lunghi, come a sottolinearne la funzione di veicoli indispensabili per un più ampio di-scorso sul trascorrere del tempo e sulle stratificazioni storiche dei luoghi e delle comunità che li abitano ‒ tema centrale in quasi tutto il suo percorso almeno fino a Hao nan hao nü (1995, noto con il titolo di Good men, good women), film sul dissolversi della Storia nel moltiplicarsi dei piani della rappresentazione stessa. Trasferitosi con la famiglia a Taiwan dal 1948, dopo il servizio militare si iscrisse all'Accademia Nazionale delle Arti, nel 1969, per studiare cinema e teatro e si diplomò nel 1972. Dopo aver svolto piccoli lavori, tra cui il venditore ambulante, iniziò a lavorare nel cinema come segretario di edizione, assistente alla regia e infine sceneggiatore per il regista Li Xing. Nel 1980 ha realizzato il suo primo lungometraggio, Jiushi liuliu de ta, noto con il titolo di A cute girl, una commedia musicale con due vedettes allora molto in voga tanto da procurare al film un buon riscontro di pubblico. A qualche anno più tardi risale l'incontro con la scrittrice Zhu Tianwen, con la quale avrebbe scritto, a partire da Fenggui lai de ren (1983, Quelli di Fengkuei), tutti i suoi film successivi. È stata Zhu Tianwen a fargli conoscere il gruppo di cineasti e intellettuali, tra i quali Edward Yang (pinyin Yang Dechang), autore di un significativo 'manifesto del cinema taiwanese', Wu Nien-chen (pinyin Wu Zianzhen) e Peggy Chiao (pinyin Jiao Xiongping), che avrebbe dato vita alla nouvelle vague taiwanese degli anni Ottanta, di cui H.H.-h. è stato uno dei protagonisti più convinti. Lo stile istintivo e contemplativo di H.H.-h., cifra dell'eccezionale ricchezza dei suoi film, non si risolve mai soltanto nell'autosufficienza della forma o della forza delle immagini, pur di grande intensità. Tende piuttosto, attraverso l'uso intenso e non programmatico del piano-sequenza, a un rigore consapevole dei limiti ontologici della visione, e nel contempo si svela per l'estrema libertà dello sguardo e per la capacità di far riecheggiare nella visione ciò che è fuori campo eppure incide nella composizione dello spazio. La dilatazione del tempo rispetto alla sua frammentazione costituisce il senso e la direzione di un film come Beiqing chengshi (Città dolente), Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia nel 1989, imponente affresco sulla società taiwanese del dopoguerra vista in filigrana attraverso le vicende di quattro fratelli e prima parte di una trilogia incentrata sulla storia di Taiwan che comprende Xi meng rensheng (1993; Il maestro di marionette), riflessione sulla Storia e sulla finzione teatrale attraverso i ricordi di un marionettista, e Hao nan hao nü. Nella centralità di un ininterrotto discorso sulla memoria, storica o personale, c'è nel cinema di H.H.-h. un forte senso della impossibilità di cogliere la realtà nel suo insieme: non da lontano, ma proprio avvicinandosi a essa si dispiega l'analisi esistenziale della quotidianità frammentaria. Ecco allora il vuoto che nei suoi ultimi film, Nanguo zaijian, nanguo (1996, noto con il titolo Goodbye south goodbye) e Qianxi manbo (2001; Millennium mambo), si approfondisce in un discorso sulla durata e sull'inanità del tempo, subentrando una sorta di nostalgia struggente di fronte al senso della perdita. Così in Qianxi manbo si mettono in scena il disagio e la tenerezza del rapporto tormentato di due giovani con un procedimento di decostruzione ellittica della narrazione. Nello stupefacente Hai shang hua (1998, I fiori di Shanghai) il flusso straniante delle parole costituisce il vero e proprio tessuto in cui sono dissolte le immagini delle vite raccontate dalle cortigiane nei bordelli della Shanghai d'inizio Novecento. Un film in cui le uniche immagini che si vedono sono quelle, fluttuanti, di chi racconta e di chi ascolta, e dove pure l'intensità delle immagini evocate dai racconti è tale da creare una sorta di visione doppia, di sovrimpressione tra ciò che si vede sullo schermo ‒ gli eleganti interni dei bordelli entro cui clienti e cortigiane si intrattengono ‒ e ciò che non si vede ma di cui continuamente si parla. Quello di H.H.-h. è un cinema tutt'altro che minimalista, è un cinema sontuoso, imponente, di fronte al quale resta fortissimo il senso di nostalgia di una forma classica, paragonabile forse solo al sentimento comunicato da certi film di John Ford.
W. Zhenghuan, I due mondi di Hou Xiaoxian, in Taiwan, nuove ombre elettriche, a cura di M. Müller, Venezia 1988, pp. 151-57.
A. Pastor, B. Lizzio, Conversazione con Hou Hsiao-hsien, in "Filmcritica", 1996, 467, pp. 395-97.
Hou Hsiao-hsien, a cura di J.-M. Frodon, Paris 1999.
B. Reynaud, Nouvelles Chines, nouveaux cinémas, Paris 1999.
Hou Hsiao-hsien. Cinema delle memorie nel corpo del tempo, a cura di R. Chiesi, Genova 2002.