I Balcani
La svolta di fine secolo
Fra il 1999 e il 2000, alla vigilia del nuovo secolo, grazie a un’incalzante sequenza di avvenimenti verificatisi in alcune repubbliche eredi della Iugoslavia, i protagonisti delle guerre di secessione degli anni Novanta uscirono per sempre dalla scena politica. In dicembre, infatti, morì il presidente croato Franjo Tudjman; dieci mesi dopo, in ottobre, il leader bosgnacco (termine, di origine ottocentesca, con il quale viene indicata la nazionalità musulmana in Bosnia ed Erzegovina e nel Sangiaccato) Alija Izetbegović si dimise da membro della presidenza collettiva della Bosnia ed Erzegovina per ragioni di salute (morì poi nel 2003), mentre quasi contemporaneamente, a Belgrado, Slobodan Milošević perse le elezioni presidenziali iugoslave e fu costretto – suo malgrado – ad accettarne il verdetto, per venir poi arrestato nel marzo 2001 e trasferito d’imperio all’Aja, per essere giudicato dal tribunale penale per i crimini di guerra commessi nell’ex Iugoslavia (ICTY, International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia), dove morì nel marzo 2006. La rapidità di questi mutamenti indusse tanto l’opinione pubblica, quanto le élites politiche, in special modo quelle degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, a ritenere che – con il tramonto del 20° sec. – un’epoca fosse finita e che il processo di disgregazione della Iugoslavia fosse terminato, riportando finalmente la pace nei tormentati Paesi balcanici e aprendo la strada a una decisa stabilizzazione regionale. In realtà, si trattò soltanto di un’illusione. Gli assetti geopolitici rimasero incerti e aperti a nuove crisi, anche drammatiche. Al tempo stesso, però, il quadro europeo nel suo insieme non era più quello degli anni Novanta e, quindi, pur nell’incertezza che ancora regnava localmente, si era aperto un varco per la realizzazione di nuove politiche, capaci di contrastare e, nella prospettiva, superare le ragioni che avevano condotto alla violenta deflagrazione (con pericolose ripercussioni per i Paesi circostanti) della federazione fondata da Tito (pseud. di Jozip Broz).
Quali erano allora gli aspetti di novità che si potevano cogliere? Certamente, il mutamento delle maggioranze e delle leadership politiche a Zagabria, Belgrado e Sarajevo, cui si accennava poc’anzi, fu un fattore decisivo in questo senso. All’inizio del 2000 si era, infatti, insediato a Zagabria un nuovo governo di coalizione di sei partiti guidato dal socialdemocratico (ed ex comunista) Ivica Račan. Presidente della Repubblica era diventato Stipe Mesić che alcuni anni prima era entrato in aperto contrasto con Tudjman, di cui pure era stato un fedele sostenitore, non avendone condiviso la politica di intervento militare in Bosnia ed Erzegovina al fine di una spartizione con la Serbia. A Sarajevo, una coalizione di partiti fino allora all’opposizione aveva vinto le elezioni del novembre 2000, consentendo al socialdemocratico (ed ex comunista) Zlatko Lagumdžija di diventare primo ministro, benché le fazioni nazionaliste serba, croata e bosgnacca avessero mantenuto il controllo della presidenza collettiva. Anche a Belgrado, dove l’opposizione unita aveva battuto Milošević, si era affermata una sorta di coabitazione fra orientamenti divergenti, con il nazionalista conservatore Vojislav Koštunica a presidente della federazione serbo-montenegrina e l’esponente più liberal-democratico Zoran Djindjić alla guida di un governo, anch’esso di coalizione.
Di fatto, erano scomparsi i vecchi monocolori, talvolta sostenuti da piccoli partiti acquiescenti, mentre si erano affermati cartelli costituiti da più partiti, espressione di una più variegata e matura articolazione politica. Inoltre, si avvertiva ovunque la stanchezza per le violenze del decennio precedente; erano venute altresì meno le ragioni che avevano indotto l’ONU a imporre le sanzioni e l’isolamento politico della Serbia, mentre in Kosovo si era ormai dispiegata la forza amministrativa della missione di pace internazionale, sostenuta militarmente dalla NATO.
Le numerose svolte intervenute sul piano locale furono, peraltro, assecondate dal prevalere di uno spirito più dinamico e mobilitante in campo europeo. Nonostante, infatti, gli Stati Uniti apparissero all’epoca il soggetto determinante della politica mondiale e quindi il fattore capace di influire con maggior efficacia nel Sud-Est europeo grazie alla loro potenza militare, fu in realtà l’Unione Europea (UE) l’attore in grado di tracciare con incisività inedite un percorso di stabilizzazione politica ed economica.
Nel dicembre del 1999, al Consiglio europeo di Helsinki, si era affermata la proposta della Commissione Prodi di aprire i negoziati per l’allargamento dell’UE a tutti i Paesi candidati ex socialisti. Per i Balcani, questo significava che Bruxelles era pronta a intavolare trattative, oltre che con la Slovenia (già iniziate nel 1998), anche con la Bulgaria e la Romania, mentre l’Albania aveva avviato – prima sotto tutela italiana e poi euroamericana – un complesso consolidamento istituzionale dopo la grave ‘crisi delle piramidi’ del 1997 (una frode finanziaria che coinvolse migliaia di risparmiatori).
Di fatto, l’area iugoslava più sconvolta dai conflitti era ormai fortemente condizionata dall’incedere del processo d’integrazione europea. Un processo, questo, che, per impostazione ideale e prassi politica, si presentava in forma antagonista rispetto alle spinte nazionaliste che avevano dominato nella regione durante il decennio precedente. A riprova, vi fu proprio nel 2000 il discorso alla Humboldt Universität di Berlino dell’allora ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer. In questo, forse più unico che raro, tentativo di spiegare a una comunità scientifica e all’opinione pubblica le ragioni profonde dell’allargamento a est, Fischer esplicitamente menzionò il dramma iugoslavo e la necessità di assicurare la pace in Europa. In altre parole, egli seguì in quella circostanza l’ispirazione e il metodo che avevano favorito la riconciliazione franco-tedesca, suggerendo di condividere sovranità e politiche in Europa come strumento essenziale sia per rifiutare la guerra, sia per determinare le condizioni dello sviluppo economico e la crescita della democrazia.
In una fase, quindi, profondamente segnata dal desiderio di coniugare l’approfondimento della governance europea con l’allargamento a est – giacché si annunciavano allora l’introduzione materiale della moneta unica, la libera circolazione di uomini e merci (con il Trattato di Schengen), e una possibile Costituzione europea – la decisione comunitaria di aprire un percorso di adesione all’UE per tutta l’area culturale iugoslavo-albanese rappresentò un atto politico di forte incisività, poiché univa a una convincente ‘condizionalità’ una prospettiva certa di inclusione e sviluppo che poteva, a sua volta, trovare un terreno ricettivo nell’avvenuto cambio di leadership politica in alcuni Paesi cardine della regione balcanica.
E così il 24 novembre 2000, proprio a Zagabria, venne lanciato il ‘processo di stabilizzazione e associazione’, cui seguirono le offerte di accordi bilaterali (ASA, Accordo di Stabilizzazione e Associazione) e la messa in campo di strumenti finanziari a sostegno delle necessarie riforme istituzionali, traendo ispirazione da quanto già sperimentato con i Paesi del blocco sovietico dopo il 1990, allorché erano stati istituti i Phare e gli Europe agreements. Qualche anno più tardi, il 21 giugno 2003, il Consiglio europeo di Salonicco – non senza una travagliata mediazione interna – offrì esplicitamente la prospettiva dell’adesione a tutti i Paesi dei Balcani occidentali (ossia la ex Iugoslavia senza la Slovenia e con l’Albania).
I fondamenti ambigui della stabilità balcanica
Perché allora, di fronte a una fase tanto promettente di sbocchi positivi, si è invece detto che gli assetti geopolitici regionali restarono incerti?
Innanzi tutto perché, sotto il profilo ideale, il nazionalismo, come prospettiva politico-territoriale e strumento di accesso ai diritti di cittadinanza, era espressione di un profondo convincimento, radicato nelle società non solo balcaniche, ma più ampiamente europee, mentre élites e opinioni pubbliche occidentali avevano creduto – sbagliando – che si trattasse semplicemente di un fenomeno estremo, legato in particolare al comportamento aggressivo di S. Milošević ed eventualmente di alcuni altri leader regionali, che avevano pensato di seguirne l’impianto culturale di fondo. In altre parole si può dire che era stata colpevolmente sottovalutata la forza espansiva ed esemplare della volontà di esclusione dell’altro che è all’origine di fenomeni solo superficialmente diversi, ma in realtà fortemente intrecciati fra loro come lo sono appunto il nazionalismo, il razzismo e la xenofobia.
In secondo luogo, perché i trattati di pace imposti nei Balcani avevano sì bloccato il ricorso alla violenza, ma non avevano affatto risolto il contrasto fra integrazione e separazione, lasciando adito a tutti i soggetti politici locali e internazionali di interpretare quegli accordi secondo convenienza.
In terzo luogo, perché la coerenza e la determinazione del processo di integrazione europea, che sembrava bene avviato, sono state successivamente indebolite dagli stessi Stati membri, in seguito al parziale venir meno – in alcuni di essi – della volontà politica di proseguire sul cammino intrapreso.
Infine, perché il quadro politico mondiale nel corso del primo decennio del 21° sec. si è venuto modificando ben più rapidamente e inaspettatamente di quanto avessero ipotizzato le élites dell’UE e degli Stati Uniti nel 2001, attribuendo un nuovo ruolo a Russia, Cina, India e Brasile, ossia a quattro potenze in forte espansione economica e con problemi di gestione democratica in contesti plurinazionali, per cui anche decisioni che potevano sembrare circoscritte alle peculiarità balcaniche (e/o dipendenti da esse) finirono, invece, con l’esercitare un’influenza sui loro comportamenti globali.
Non a caso nessuna delle quattro potenze appena menzionate aveva deciso di riconoscere l’indipendenza del Kosovo, dichiarata unilateralmente dalla sua leadership albanese il 17 febbraio 2008, e ciò nonostante che la Russia, pur interessata per ragioni storiche e geopolitiche a esercitare un ruolo nei Balcani, avesse sempre pubblicamente sostenuto l’adesione della Serbia all’UE (assumendo così un atteggiamento ben diverso rispetto a quello manifestato nei confronti di Ucraina, Caucaso e, in precedenza, perfino dei Paesi baltici). Analogamente, la stessa UE si era profondamente divisa di fronte a questa sfida e diversi Paesi membri, fra cui Spagna, Grecia, Romania, Cipro e Slovacchia si erano rifiutati di riconoscere il nuovo Stato, mentre in altri Paesi – come la Repubblica Ceca – la decisione del riconoscimento fu assunta fra mille contrasti e l’opposizione della maggioranza del Parlamento (privo peraltro di competenza in materia).
In realtà, proprio nel decennio della sfida terroristica alla democrazia e della spesso inconsulta reazione statunitense dell’amministrazione Bush seguita agli attentati dell’11 settembre, gli eventi nei Balcani sono stati ritenuti di secondaria importanza, sicché se ne sono sottovalutate le dinamiche, anche se il tarlo del nazionalismo ha continuato a operare, modificando gli equilibri regionali e influenzando talvolta il comportamento dei Paesi limitrofi.
Di fatto, fra il 2001 e il 2008, la mappa geopolitica di questa regione è rimasta instabile, anche se l’esercizio della violenza è stato, nel complesso, contenuto. Basti però ricordare che il nuovo secolo è iniziato con la guerra in Macedonia. Anzi, il rischio di una nuova catena di ripercussioni fu tale da indurre l’Unione Europea a intervenire subito con un negoziato le cui risultanze furono imposte alle parti con gli accordi di Ohrid (ag. 2001). Nel frattempo, si erano accentuati i contrasti fra Serbia e Montenegro e nuovamente una mediazione comunitaria consentì di stabilire, sia pure in forme provvisorie, nuove regole per una federazione a due, finché il 21 maggio 2006 in seguito a un referendum, il Montenegro decise, a maggioranza, di abbandonare l’Unione e di diventare indipendente. Infine, nel 2008 è stato il Kosovo a dichiarare l’indipendenza, dopo un’inutile e fallita trattativa con la Serbia, avviata – su incarico del Consiglio di sicurezza – prima dall’ex presidente della Finlandia, Martti Ahtisaari, poi da una trojka (Stati Uniti, UE, Russia), mentre le relazioni fra Skopje e Atene si inasprivano. La Macedonia, infatti, fu costretta a subire nuovamente il veto greco a causa del nome dello Stato, contestato da Atene in quanto ritenuto lesivo dell’identità e della cultura elleniche (fu, anzi, proprio tale opposizione a indurre le Nazioni Unite a riconoscere il nuovo Stato balcanico nel 1993 con il nome di The former Yugoslav Republic of Macedonia, FYROM). Di conseguenza, alla Macedonia fu impedito di avviare i negoziati per l’ingresso nella NATO durante il summit di Bucarest dell’aprile del 2008, lasciando peraltro intravedere anche la possibilità di metterne in discussione l’accesso all’Unione Europea, e precipitando così il Paese in una grave crisi politica, al punto di condurlo in giugno a elezioni anticipate, caratterizzate da un’alta tensione sociale, violenze e brogli elettorali.
Certo, la situazione appariva sostanzialmente diversa in Bulgaria e Romania dove, rispettivamente, una larga coalizione comprendente la minoranza turca e una nuova maggioranza di centro-destra coadiuvata dal partito della minoranza ungherese avevano costituito due governi, fra il 2004 e il 2005, orientati decisamente a concludere in modo positivo i negoziati per entrare nell’UE entro il 2007. Sia pure tra difficoltà e resistenze, legate soprattutto al persistere di un alto livello di corruzione e di un’inefficienza strutturale della magistratura, al punto di essere ammessi nell’Unione con alcune riserve, questi Paesi erano stati capaci di centrare l’obiettivo. Tuttavia, i nazionalisti romeni di România Mare (Grande Romania), guidati da Corneliu Tudor, erano riusciti a confermare una forza fra il 9,6 e il 13,1% nelle due Camere del Parlamento nelle elezioni del novembre 2004, ma soprattutto in Bulgaria si era affermato nelle elezioni del giugno 2005 – per la prima volta dalla caduta del regime comunista – un partito nazionalista ed euroscettico, Ataka (Attacco). Vero è che alle elezioni per l’europarlamento del 2007 România Mare aveva perso ogni rappresentanza, ma in Bulgaria Ataka passò dall’8,1 al 14,2%, grazie in particolare al ricorso a una forte campagna antiturca, che fece rapidamente risorgere nel Paese i fantasmi dell’atteggiamento xenofobo che caratterizzò soprattutto gli ultimi tempi della lunga dittatura comunista di Todor Živkov.
In Albania, intanto, sembrò perdurare inalterato nel tempo il conflitto personale fra il leader del Partito democratico Sali Berisha e quello del Partito socialista Fatos Nano, con ripercussioni negative sulla già fragile struttura istituzionale del Paese. I ripetuti boicottaggi del Parlamento da parte dell’opposizione guidata dal Partito democratico furono, però, gradualmente superati grazie alle pressioni internazionali e all’elezione condivisa di un presidente della Repubblica nel 2002, mentre la condizionalità esterna si rivelò determinante nel suggerire un atteggiamento moderato, da parte del governo albanese, sia durante i bombardamenti NATO per il Kosovo nel 1999, sia soprattutto durante la guerra in Macedonia. Ambivalenti, invece, erano rimaste le relazioni con la Grecia. Da un lato, infatti, Albania e Grecia stavano maturando una serie di convergenze e di comuni interessi, grazie ai cosiddetti Corridoi paneuropei. Nella prospettiva, infatti, di collegare l’integrazione europea a una nuova rete d’infrastrutture principalmente su rotaia e su gomma, la costruzione del Corridoio 10 (Salonicco-Monaco) avrebbe consentito ad ambedue di stabilire vie privilegiate di comunicazione verso nord, intrecciandosi vantaggiosamente, soprattutto per Tirana, con il Corridoio 8 fra l’Adriatico e il Mar Nero (Bari-Varna), e rafforzando di conseguenza i mercati e le prospettive di espansione regionali in vista dell’allagamento dell’Unione Europea.
Dall’altro, esse hanno continuato a risentire di polemiche bilaterali, vuoi a causa dei diritti della minoranza greca in Albania meridionale, vuoi per la questione della Camëria o Epiro del Nord, a loro volta complicate dalla forte pressione esercitata da Atene su Tirana, allorché quest’ultima parve diventata più incline a riconoscere il nome costituzionale della Macedonia. Gli Stati Uniti, infatti, si erano decisi a compiere questo passo nel novembre 2004 per evitare una vittoria del partito Vnatrešna Makedonska Revolucionerna Organizacija (VMRO, Organizzazione interna rivoluzionaria di Macedonia) al referendum, convocato proprio in quei giorni, e il cui obiettivo – anche a costo di innescare una gravissima crisi istituzionale nel Paese – era quello di impedire il decentramento municipale previsto dagli accordi di Ohrid, in quanto ritenuto troppo favorevole alla minoranza albanese. La decisione di Washington si rivelò determinante nel provocare la sconfitta dei referendari. Da tempo, del resto, gli Stati Uniti erano considerati, tanto a Tirana, quanto a Priština, come i ‘grandi protettori’ del popolo albanese, nonché i più convinti sostenitori dell’indipendenza del Kosovo. Al tempo stesso, non avevano esitato a schierare un proprio, piccolo, contingente a protezione del confine settentrionale della Macedonia, quando il veto cinese – innescato dal riconoscimento di Taiwan da parte del governo di Skopje – aveva imposto all’ONU di ritirare la propria presenza nell’area. Tutto ciò aveva indotto sia Skopje sia Tirana a partecipare con entusiasmo alla campagna antiterroristica promossa dall’amministrazione Bush, inviando proprie truppe in Afghānistān e ῾Irāq. Ambedue le capitali balcaniche avevano inoltre aderito alla richiesta statunitense – contestata dall’UE – di assicurare l’immunità ai suoi cittadini nel caso di una richiesta di estradizione da parte del costituendo tribunale penale internazionale.
Ben più cauto, per non dire freddo, era stato invece l’atteggiamento del governo di Atene su tutti questi temi, nonostante il Paese aderisse alla NATO. Come è noto, infatti, l’antiamericanismo è ben diffuso in Grecia e le manifestazioni contro la guerra in ῾Irāq avevano confermato quanto radicato esso fosse, a differenza dei vicini settentrionali. La controversia sul nome dello Stato macedone, le altalenanti relazioni con l’Albania e il flusso incontrollato di centinaia di migliaia di immigrati albanesi verso sud avevano in gran parte contribuito a mantenere fragile il quadro delle relazioni regionali e guardingo l’atteggiamento greco verso l’alleato statunitense.
Sia pure nella loro vacillante complessità, tali relazioni si trovavano però vincolate da una rete tale di interdipendenze (ancorché contraddittorie) vuoi con l’UE, vuoi con la NATO o con i soli Stati Uniti, da costituire un fattore di attenuazione delle tensioni nazionaliste regionali che pure, come si è visto, hanno dimostrato di aver mantenuto una loro vitalità. In altre parole, assecondando la metodologia funzionalista indicata ancora nel 1943 da David Mitrany e fatta propria nel dopoguerra da Jean Monnet e da Robert Schuman, la condizionalità derivante dalla molteplicità dei collegamenti e delle agenzie coinvolte ha permesso gradualmente il consolidamento della transizione postcomunista di Albania, Bulgaria e Romania, agganciandole alle più solide istituzioni europee e transatlantiche, favorendone altresì importanti aggiustamenti strutturali, grazie all’esplicito sostegno di un’élite locale, politico-economica, decisa a spendersi a favore dell’integrazione europea, indipendentemente dal proprio orientamento ideologico. Tale rete di interdipendenze ha dimostrato, invece, di funzionare con maggiori difficoltà, nel contesto postiugoslavo.
In realtà, pur entro certi limiti, la condizionalità europea (ossia quel principio comunitario mirato a stabilire le condizioni politiche ed economiche in base alle quali i governi realizzano riforme atte a rendere gradualmente possibile l’avvicinamento e l’integrazione fra Paesi europei) è riuscita a esercitare un’influenza positiva; se non altro, ha limitato il ricorso alla violenza, ma i risultati – sul piano sia economico sia politico – sono apparsi assai meno visibili e consistenti di quelli avvertiti nei Paesi vicini. La ragione risiede soprattutto nel fatto che il trauma per la disintegrazione della Iugoslavia – a quasi vent’anni dal crollo – non è stato ancora superato, né assorbito, mentre un’esperienza simile non è stata comunque vissuta da Albania, Bulgaria e Romania. Sicché, la mancata rielaborazione politica del lutto – unitamente alla dura lacerazione di tutte le relazioni, da quelle istituzionali a quelle famigliari e amicali – continua a ostacolare il necessario processo di riconciliazione, perpetuandosi nel tempo grazie all’ambiguità di fondo con cui sono stati delineati i trattati di pace a cavallo dei due secoli. Ciò spiega, d’altronde, anche perché le élites postiugoslave si siano dimostrate, nel complesso, assai più divise e incerte di fronte ai richiami contrastanti del neonazionalismo e dell’integrazione europea, rispetto alle leadership degli altri Paesi balcanici.
Del resto, l’ambiguità cui si faceva riferimento poc’anzi può esser colta confrontando i messaggi implicitamente contenuti nei trattati. Gli accordi di Dayton, per es., pur avendo posto fine al conflitto militare in Bosnia ed Erzegovina nel 1995, hanno delineato uno Stato fondato su due entità e tre popoli costituenti, con un’autonomia talmente forte per le due entità, di cui una centralizzata (la Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina, Republika Srpska) e l’altra imperniata su ben 10 cantoni autonomi (la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, Federacija Bosna i Hercegovina), ciascuno con una propria costituzione, un proprio governo e Parlamento, da lasciar intendere che questa soluzione di compromesso preluda sia a una futura, più efficace, integrazione istituzionale, sia – invece – a un’inevitabile separazione, appena i tempi saranno ritenuti maturi. Al contrario, gli accordi di Ohrid del 2001 hanno esplicitamente affermato l’unità dello Stato macedone, rifiutando l’idea di una sua federalizzazione, e prevedendo solo un forte decentramento amministrativo a livello municipale.
Tale aspetto integrativo ha dominato pure nell’accordo di Belgrado del 2003, allorché Serbia e Montenegro vennero convinte dall’UE a superare la crisi della ‘piccola Iugoslavia’ voluta da Miloševič nel 1992 e a dar vita a una unione a due serbo-montenegrina (che ricordava piuttosto, anche nel nome, l’Ausgleich austro-ungarico del 1867). Ciò nonostante, tale convergenza non ha resistito e dopo appena tre anni l’Unione si è dissolta, mentre nel 1999 l’Accordo di Kumanovo – grazie al quale si era messo fine ai bombardamenti da parte della NATO di Serbia e Montenegro – aveva di fatto, anche se non formalmente, separato il Kosovo da Belgrado, ponendo Priština sotto il protettorato dell’ONU fino alla dichiarazione unilaterale di indipendenza avvenuta nel 2008 (e anche successivamente a essa).
Sicché, due opposte priorità, una fondata sull’integrazione, l’altra sulla separazione, hanno caratterizzato il processo di stabilizzazione dello spazio postiugoslavo, riproducendo in realtà, dopo lo scontro militare, le medesime opzioni presenti nelle agende politiche prima che la guerra scoppiasse, con l’unica – significativa – differenza che ora l’ambivalenza dei comportamenti era legittimata dalle contraddittorie decisioni della comunità internazionale. Gioco forza, quindi, hanno finito con il consolidarsi contrastanti visioni di State-building, nonché una dicotomia di aspettative, di convinzioni e comportamenti da parte delle organizzazioni politiche, dei movimenti sociali e delle opinioni pubbliche di tutta l’area interessata. Vista in un’ottica di retrospettiva storica di medio-lungo periodo, tale situazione si stava riproducendo inalterata dalla metà dell’Ottocento, allorché federalismo balcanico e iugoslavismo da una parte, ed etnonazionalismo dall’altra avevano iniziato a confrontarsi in tutto il Sud-Est europeo, traendo ispirazione i primi dal processo di costruzione dell’unità italiana, e il secondo dai meccanismi disintegrativi che stavano minando sia l’Impero asburgico sia quello ottomano.
Politiche locali e condizionalità europea
È in tale contesto storico-politico che debbono essere collocate le vicende di avvio del 21° sec., in cui le spinte alla frantumazione hanno trovato un inatteso ostacolo nel processo di integrazione europea, così come nelle resistenze frapposte, pur fra molteplici errori e contraddizioni, e nelle mediazioni proposte dagli Alti rappresentanti indicati dall’UE per la Bosnia ed Erzegovina e il Kosovo e da quello per la politica estera e di difesa dell’UE, nonché nei negoziati di preadesione e di adesione all’UE che hanno inciso sulle legislazioni per una vasta gamma di argomenti, compreso quello della protezione delle minoranze.
Grazie all’impatto esercitato da tali dinamiche la Croazia è arrivata a includere nel suo governo, dopo le elezioni del 2007, un vice primo ministro serbo, sulla scia di quanto avevano già fatto con le loro minoranze gli esecutivi di Slovacchia, Romania e Bulgaria. Analogamente in Kosovo, la speranza (e l’illusione) di convincere la Serbia ad accettarne l’indipendenza, aveva indotto i mediatori internazionali a disegnare un quadro di forti autonomie locali a livello municipale per la popolazione serba (peraltro accettate dalla delegazione albanese-kosovara), anche a costo di stabilire un precedente che, infatti, altre minoranze (come gli ungheresi di Transilvania) hanno cominciato a reclamare per sé, innescando inattese tensioni in alcuni Paesi membri dell’Unione Europea.
Sostanzialmente fallito è stato, invece, il tentativo di favorire il ritorno dei profughi e dei rifugiati in Bosnia ed Erzegovina, Croazia e Kosovo. Tale strategia era chiaramente diretta a vanificare gli effetti della pulizia etnica e l’affermazione di una concezione etnica della cittadinanza, ma né la comunità internazionale, né i governi locali hanno saputo (e voluto) creare le condizioni materiali e politico-culturali di un rientro che avrebbe potuto costituire un terreno essenziale per attuare, in ambito locale, diffuse microforme di riconciliazione e reintegrazione. A fronte, invece, di alcuni indubbi successi conseguiti nella maggioranza dei casi questi rientri – tanto entusiasticamente registrati dalle statistiche internazionali – si sono semplicemente risolti in operazioni temporanee destinate alla vendita, da parte dei vecchi proprietari, che hanno alienato i propri beni immobili, prima di lasciare definitivamente le loro terre d’origine.
D’altra parte, proprio grazie alla condizionalità europea, che ha vincolato l’intensificazione delle relazioni con l’UE alla collaborazione con il Tribunale penale per i crimini di guerra nella ex Iugoslavia, quest’ultimo ha, almeno in parte, influito sul clima politico regionale e – pur godendo di pessima stampa in ambito locale (per la costante riproposizione di cliché ‘sovranisti’ e nazionalisti) e quindi mancando di sostenere, almeno a breve termine, il processo di riconciliazione – è riuscito ad assicurarsi numerosi ricercati, da Milošević, al generale croato Ante Gotovina (dic. 2005), a Radovan Karadžić (luglio 2008). Esso ha, inoltre, raccolto e reso noti migliaia di documenti che gettano una luce decisiva sulle responsabilità politiche (e non solo giuridiche) delle guerre di secessione iugoslave, consentendo in tal modo, grazie a questo spesso ingrato lavoro, di documentare molti drammatici eventi, fra i quali l’eccidio di Srebrenica (1995). La trasmissione, anzi, di alcuni documentari originali di quel massacro in Serbia ha provocato, nel 2005, un vero e proprio trauma nazionale, permettendo di riconoscere pubblicamente alcuni autori di quell’atto di genocidio e inducendo il governo di Belgrado, per la prima volta, a reagire tempestivamente, arrestandoli e consegnandoli al tribunale dell’Aja. In altre parole, la condizionalità europea riusciva a liberare nuove energie politiche nei Balcani: energie, queste, che erano esistite anche prima, ma che proprio la guerra aveva intimidito e marginalizzato grazie alle accuse di antipatriottismo e tradimento. Nel nuovo clima che si veniva così a creare, la cooperazione economica e culturale ha permesso di ristabilire in Bosnia ed Erzegovina dei ponti fra le varie comunità nazionali e le due entità, riprendendo il filo dei legami spezzati dalla violenza e dalle esecuzioni di massa: la rigidità dei confini si è fatta via via più labile, la mobilità regionale si è gradualmente riavviata e soprattutto le università, anche se non ovunque, hanno promosso programmi di formazione capaci di ristabilire un dialogo fra le giovani generazioni di questo mondo lacerato.
In Macedonia, tutte le coalizioni di governo succedutesi dopo il 2001 hanno incluso un partito della minoranza albanese, nonostante questa fosse e sia rimasta profondamente divisa al suo interno sulle strategie da perseguire nei confronti del futuro del Paese. Pur in una situazione rimasta sempre esposta al rischio della deflagrazione, gli esecutivi di Skopje sono riusciti a riformare il sistema amministrativo comunale, nonché a gestire il doloroso licenziamento di una parte di slavo-macedoni e l’assunzione di albanesi nei pubblici uffici nel nome del riequilibrio etnoamministrativo, nonostante la non sempre coerente attuazione delle riforme concordate o ispirate agli Accordi di Ohrid.
Anche in Kosovo, specie dopo la rivolta albanese del 17 marzo 2004, si è verificata una svolta significativa. La violenza fu allora scatenata dalla notizia, poi rivelatasi infondata, secondo cui tre ragazzini albanesi, spaventati da alcuni giovani serbi che li stavano inseguendo, erano affogati nel fiume Ibar. La reazione armata di migliaia di albanesi innescò un’ondata di scontri con la minoranza serba che si protrasse per diversi giorni, provocò numerosi morti, alcune centinaia di feriti, la distruzione di proprietà e di luoghi di culto serbi, un’ondata di critiche all’amministrazione internazionale che spaventò fortemente le rappresentanze occidentali. Fu proprio quella vicenda a indurre gli Stati Uniti e alcuni Paesi europei a rompere gli indugi e tentare di chiudere la partita dello status del Kosovo, arrivando a prospettarne l’indipendenza in tempi accelerati per non vedere sacrificati i propri militari da una possibile insurrezione di albanesi esasperati.
Al tempo stesso, però, le autorità di Priština – che avevano bisogno a tutti i costi del sostegno euroatlantico per raggiungere l’agognata indipendenza – decisero di avviare una sistematica campagna di attenuazione delle tensioni. Nello sforzo di incidere sulla cultura politica e i valori di riferimento della popolazione vennero così coinvolti i mass media, l’intero spettro politico, la società civile, gli intellettuali e le associazioni di esperti, gli istituti impegnati sul fronte della riconciliazione e singole personalità carismatiche, in modo che ai sentimenti di vendetta e alle accuse di tradimento si sostituissero gradualmente comportamenti più pacati e un maggior senso di pacificazione.
L’impegno in questa direzione permise di contenere, negli anni seguenti, i conflitti interetnici e diede l’impressione che, effettivamente, un cambiamento fosse stato avviato, anche se la collaborazione serba nelle istituzioni kosovare è sempre rimasta molto problematica, talvolta più agevole nelle enclave del Centro-Sud (anche per mancanza di alternative praticabili), ma assai più controversa al Nord e soprattutto a Kosovska Mitrovica, una città nettamente divisa in due e presidiata dalle forze dell’ONU.
Tra alti e bassi, comunque, questa situazione di ambivalenza fra cooperazione e divisione, fra prospettive di integrazione (non solo e non tanto regionale, quanto in riferimento all’Unione Europea), e vampate improvvise di nuove tensioni, quasi una sorta di assestamenti tellurici in vista di un adeguamento degli equilibri geopolitici, continuò a riprodursi nel tempo. Certo, l’UE aveva proseguito, dopo il 2003, a definire il calendario degli impegni e degli accordi, offerti ai vari governi della regione. Così, dopo aver sottoscritto gli ASA con Macedonia e Croazia già nel 2001, una nuova forza di polizia europea sostituì le Nazioni Unite in Bosnia ed Erzegovina nel 2003, mentre l’anno dopo toccò alla missione militare europea prendere il posto di quella della NATO. Nel frattempo, Croazia e Macedonia avevano presentato domanda di adesione all’Unione Europea. I negoziati con Zagabria furono effettivamente avviati nell’ottobre 2005, una volta assicurata la piena collaborazione di questo governo con l’ICTY (ciò che portò, infatti, all’arresto, in dicembre, del generale Gotovina). A sua volta, la Macedonia ottenne il riconoscimento dello status di Paese candidato nel dicembre dello stesso anno. La rete delle relazioni fra UE e Balcani occidentali si intensificò con l’avvio dei negoziati ASA con l’Albania (l’accordo fu firmato nel 2006), cui seguirono quelli con la Serbia, il Montenegro e, per ultima, anche la Bosnia ed Erzegovina, tutto entro il 2005.
Sotto il profilo finanziario, l’UE offrì assistenza attraverso i programmi Phare, Obnova e Cards durante il periodo compreso fra il 2000 e il 2006 per oltre 5 miliardi di euro, cui vanno aggiunti i fondi preadesione messi a disposizione della Croazia dal 2005. Nell’insieme, sembrava, insomma, che il cammino per l’allargamento a Est e a Sud-Est stesse proseguendo senza soluzioni di continuità.
In realtà, una differenza sostanziale stava emergendo rispetto al decennio precedente. Al di là del peso esercitato dalla situazione locale (in special modo dall’eredità bellica negli Stati della ex Iugoslavia e dalla devastante crisi delle piramidi in Albania), e al di là degli impegni verbali e formali assunti dall’UE nei confronti della regione d’Europa che ha conosciuto una transizione ben più drammatica dei Paesi dell’ex campo sovietico, la prospettiva di un’inclusione – e della conseguente stabilizzazione – cominciò ad allontanarsi sempre più, nei fatti, a partire proprio dal 2005.
Crisi dell’Unione Europea e nazionalismo nei Balcani
Risale a quell’anno, infatti, l’inizio di una grave crisi istituzionale e progettuale dell’Unione Europea, dopo l’intenso periodo riformatore di fine secolo e il successo dell’allargamento a est nel 2004. Il fallimento del trattato costituzionale, respinto nei referendum di ratifica francese e olandese, fu seguito da un inatteso inasprimento delle relazioni fra gli Stati membri che, a fatica, raggiunsero l’accordo per il bilancio comunitario 2007-2013, peraltro ridimensionato rispetto a quello precedente. Difficili trattative erano successivamente riprese, per salvare almeno parte delle innovazioni istituzionali concordate in seguito al lavoro compiuto dalla Convenzione per una Costituzione europea, cui avevano partecipato anche le delegazioni di tutti i Paesi candidati. Ciò nonostante, il successivo Trattato di Lisbona non conobbe sorte migliore, giacché fu respinto nel referendum confermativo irlandese del giugno 2008. Fu così inflitto un colpo durissimo alla credibilità dell’intero progetto di integrazione europea e alle sue prospettive, tanto più che, fra i leader politici dei vecchi Paesi membri, si era venuta via via affermando la convinzione secondo cui si era esaurita, per un lungo periodo, la capacità di assorbimento da parte dell’Unione Europea di nuovi membri e, dunque, ulteriori allargamenti a nuove nazioni avrebbero dovuto essere rinviati nel tempo.
Un tale modo di procedere esercitò un’influenza negativa profonda proprio nei Balcani, ossia nell’area più esposta ai venti del nazionalismo e della guerra, giacché indebolì la forza di convincimento della condizionalità europea. Qui, infatti, profonde incertezze caratterizzavano pur sempre il processo regionale di costruzione dello Stato. Confini e sovranità territoriali rimanevano contestati nell’area compresa fra la Bosnia ed Erzegovina e la Grecia, lasciando spazio al manifestarsi periodico di tensioni ancora vive e per nulla sopite, a conferma di quanto ancora pesasse l’ambiguità insita nei trattati firmati a cavallo dei due secoli, di cui si è detto. Non fu un caso, del resto, che, proprio nel momento in cui si indeboliva l’UE, maturarono le spinte indipendentiste nel Montenegro e in Kosovo, mentre affioravano tentazioni analoghe nella Republika Srpska, in Macedonia e Vojvodina.
In realtà, i segnali di destabilizzazione non erano mai venuti meno. Ciò apparve evidente soprattutto a partire dal marzo 2003, allorché il primo ministro serbo Z. Djindjić venne ucciso in un attentato a Belgrado. Tale vicenda mise in evidenza quanto profondo fosse a Belgrado il legame fra criminalità organizzata e potere politico ereditato dagli anni precedenti. Al tempo stesso, la scomparsa di Djindjić – ossia di una figura, per quanto discussa, ma certamente dotata di prestigio personale e di carisma, nonché intenzionata ad affrontare la questione del Kosovo in termini nuovi e a rafforzare i legami fra Serbia e Unione Europea – costituì un colpo duro per un Paese chiave nella regione e, al tempo stesso, traumatizzato dall’isolamento, dai bombardamenti NATO e dalla perdita di territori.
Di fatto, nonostante l’arresto degli esecutori materiali dell’attentato e la forte reazione del governo contro la criminalità registratasi nei mesi seguenti, il tentativo di imprimere una rottura netta con la politica nazionalista perseguita dalla metà degli anni Ottanta fu fermato e i successori di Djindjić si ritrovarono presto invischiati in logiche segnate dalla continuità con il recente passato, proprio nel momento in cui si indeboliva il progetto europeo. Alla fine dell’anno, infatti, il Partito democratico – privo ormai del suo leader Djindjić – era passato all’opposizione e una coalizione nazionalista moderata, di minoranza, guidata da V. Koštunica aveva preso il sopravvento. Pochi mesi dopo, nel 2004, mentre il Kosovo veniva attraversato dall’ondata di violenza di cui si è detto in precedenza, la vittoria alle elezioni presidenziali del candidato democratico Boris Tadić aveva confermato l’esistenza del dualismo politico presente in Serbia e il forte condizionamento esercitato dalla componente nazionalista spalleggiata dai radicali, mentre le relazioni politiche e diplomatiche con il Montenegro si mantenevano problematiche.
Con il 2005 le tensioni regionali cominciarono ad accumularsi. Il presidente del Kosovo, Ibrahim Rugova, diede l’annuncio della malattia che lo avrebbe portato alla morte nel gennaio 2006: la prospettiva della sua successione apparve subito alquanto incerta. Nel frattempo, in Croazia, la Comunità democratica croata (Hrvatska Demokratska Zajednica, HDZ), ossia il partito di F. Tudjman, aveva vinto le elezioni ed era tornata al governo con una coalizione sostenuta dai partiti delle minoranze. In verità, guidata ora dallo spalatino Ivo Sanader, e fortemente influenzata dalla CDU tedesca (Christlich-Demokratische Union), l’HDZ si era profondamente rinnovata e, pur con molte ambiguità, stava cercando di darsi un profilo di moderno partito conservatore europeo. Ciò nonostante, le pulsioni nazionaliste presenti nel Paese tornarono a emergere: prima con alcuni attentati, poi con l’uccisione di un generale serbo, quindi con una campagna a difesa del generale A. Gotovina (ricercato dall’ICTY), cui non furono estranee alcune componenti della Chiesa cattolica croata. Intanto, il cantante croato Marko Perković Thompson riempiva le piazze con i suoi concerti impregnati di simbologie ustaša e naziste, mentre in Serbia furoreggiava ancora la musica turbo-folk (infarcita di porno-nazionalismo) e veniva promossa un’ondata di revisionismo storico in chiave antifascista a favore dei četnici (che soprattutto a partire dal 1942 avevano combattuto a fianco dell’Italia e della Germania), con il consenso dell’allora ministro degli esteri Vuk Drašković. Un’operazione, questa, destinata a gettare ulteriore sconcerto in Croazia e in Bosnia ed Erzegovina, dove il movimento dei četnici era associato alle operazioni di guerra da questi sostenute dopo il 1991. Tali vicende si intrecciarono poi con la decisione di alcuni nostalgici nazionalisti serbi di creare un governo serbo in esilio della Krajina croata, mentre un convegno promosso dalla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Belgrado negò ogni responsabilità serba per l’eccidio di Srebrenica, scatenando accese polemiche in tutta la regione.
In Bosnia ed Erzegovina, nel frattempo, i partiti nazionalisti erano tornati al governo, senza riuscire a risolvere i molteplici problemi del Paese, anzi entrando spesso in rotta di collisione con l’Alto rappresentante e bloccandosi a vicenda con il ricorso al diritto di veto. La Chiesa cattolica croata, dal canto suo, si fece sempre più attiva sostenitrice della necessità di creare una terza entità per i croati bosniaco-erzegovesi, modificando i trattati di pace e agitando gli animi dei bosgnacchi, mentre un’associazione serba riuscì a raccogliere, in poche settimane, ben 40.000 firme in favore di una petizione che reclamava un referendum per l’indipendenza della Republika Srpska.
Le tensioni all’interno dello spazio culturale serbo-croato ebbero un riflesso anche nelle relazioni fra gli Stati. E, infatti, i rapporti economici e commerciali fra Zagabria e Sarajevo conobbero un netto peggioramento a causa delle restrizioni imposte a turno, dall’uno o dall’altro Paese, all’importazione di beni alimentari o di valuta estera. Talvolta fu la nomina di un ambasciatore a risultare sgradita, talaltra il progetto di costruzione dell’autostrada per Dubrovnik, che doveva attraversare la Bosnia ed Erzegovina o implicare la costruzione di un ponte verso la penisola di Pelješac, con il conseguente rischio di limitare l’accesso al mare proprio alla Bosnia ed Erzegovina.
Anche le relazioni fra Serbia e Croazia ebbero un andamento altalenante, per cui alla collaborazione nel settore giudiziario corrispose l’intensificarsi di polemiche reciproche sulle responsabilità per gli efferati crimini di guerra commessi dopo il 1991 (e, talvolta, anche durante la Seconda guerra mondiale). D’altra parte, perfino i rapporti fra Lubiana e Zagabria subirono improvvisi peggioramenti a causa della controversia, ancora insoluta, sulle acque territoriali nella zona di Pirano e su alcuni confini terrestri, alla quale si è successivamente aggiunta la diatriba innescata dall’istituzione, da parte del governo di Zagabria, di una zona ecologica a protezione della pesca nell’Adriatico che avrebbe danneggiato i pescherecci sloveni e italiani. La sua entrata in vigore nel 2008 è stata poi sospesa perché in contrasto con le direttive dell’UE e pertanto in grado di fermare il negoziato di adesione della Croazia. Al contrario, il perdurare della controversia territoriale e marittima con la Slovenia ha spinto Lubiana a bloccare i negoziati di adesione della Croazia sul finire del 2008.
Tra Serbia e Macedonia del resto, le relazioni si erano a loro volta inasprite a causa dei contrasti religiosi intercorsi fra le due Chiese ortodosse, in particolare in seguito all’arresto di un vladika serbo a Skopje: è noto, infatti, che la controversia esplosa sul riconoscimento reciproco delle Chiese ortodosse abbia una dimensione politica, giacché essa implica un riconoscimento di fatto della nazione ed è proprio questo mancato riconoscimento da parte della chiesa di Belgrado ad avvelenare le relazioni politico-religiose fra Serbia e Macedonia, così come è accaduto – dopo il 2006 – fra Montenegro e Serbia.
Di fronte al riproporsi di rigurgiti nazionalisti in contesti istituzionalmente fragili, apparve evidente la necessità di consolidare gli assetti esistenti attraverso adeguate riforme costituzionali e aggiustamenti strutturali. Non essendo ancora concluso il processo di disgregazione della Iugoslavia, qualsiasi mutamento territoriale avrebbe potuto provocare ripercussioni in altre aree sensibili, secondo il meccanismo del domino. I segnali in questa direzione certamente non mancavano, in particolare da quando l’ONU aveva incaricato M. Ahtisaari di avviare i negoziati per trovare uno sbocco allo status del Kosovo. Gli albanesi formularono allora una piattaforma rivendicativa che prevedeva unicamente l’indipendenza, mentre la Serbia manifestò una posizione disponibile a considerare soltanto un’ampia autonomia, affrettandosi a votare e ratificare una nuova Costituzione nell’ottobre 2006 il cui preambolo, con il consenso di tutti i maggiori partiti, stabiliva esplicitamente la difesa del Kosovo come parte integrante del territorio serbo.
Era evidente, quindi, già allora, che le trattative fossero destinate al fallimento. Nel frattempo, l’ingovernabilità della Bosnia ed Erzegovina (e il rischio che da questa scaturissero sempre più forti tentazioni separatiste, come conseguenza di quanto poteva maturare in Kosovo) aveva accresciuto le preoccupazioni degli Stati Uniti. Washington convocò quindi tutti i leader dei partiti, allo scopo di imporre loro una riforma della Costituzione di Dayton. L’operazione si rivelò presto ambigua e pasticciata, giacché il compromesso individuato sembrava favorire l’integrazione del Paese, ma in realtà consolidava il peso delle entità. Nonostante ciò, e forse proprio per questo, la riforma venne bocciata dal Parlamento di Sarajevo, rinviando nel tempo qualsiasi cambiamento istituzionale benché, successivamente al fallimento statunitense, anche l’UE provò (inutilmente) a riattivare il dialogo fra le parti.
Alla fine, rinunciando per il momento ad affrontare il nodo costituzionale, l’UE tentò di utilizzare la forza della propria condizionalità promettendo la ratifica dell’ASA se fosse stata almeno approvata la riforma della polizia, contestata fino ad allora dalla Republika Srpska, in quanto le sue competenze non ricalcavano la divisione territoriale delle entità. In realtà, l’UE si adoperò in modo analogo anche con la Serbia, promettendo prima una riduzione dei limiti ai visti e poi la firma dell’ASA al solo scopo di favorire la rielezione di Tadić alla presidenza della Repubblica e fermare l’ascesa dei radicali e dei nazionalisti alle elezioni politiche seguite al riconoscimento statunitense e, parzialmente, anche europeo dell’indipendenza del Kosovo. Questi risultati furono effettivamente raggiunti, pur con grandi difficoltà, nel 2008: la Bosnia ed Erzegovina approvò faticosamente la riforma della polizia e in Serbia un dialogo, per quanto precario, venne preservato fra i membri dell’UE e alcune componenti politiche del Paese (in particolare democratici, liberal-democratici e taluni partiti delle minoranze), con i socialisti a far da ago della bilancia. Insomma, l’UE riuscì a estendere la propria rete di condizionamenti entro la prima metà del 2008, ottenendo in tutti i Paesi dei Balcani occidentali quei mutamenti ritenuti essenziali per firmare gli ASA, mentre i negoziati per l’accesso della Croazia all’Unione Europea continuavano a svilupparsi positivamente (fino al blocco imposto dalla Slovenia cui si è già accennato).
In precedenza, l’UE aveva affrontato un altro ostacolo sulla via dell’integrazione dei Paesi balcanici, candidati o potenzialmente tali: partendo, infatti, dalla necessità di rafforzare i mercati locali, per metterli in condizione di meglio competere con quello comunitario in vista dell’allargamento, l’UE aveva insistito perché si creasse una cooperazione economica e commerciale regionale, scontrandosi con la resistenza ideologica della Croazia. Il suo primo ministro I. Sanader dapprima giustificò il proprio atteggiamento negativo con il rifiuto di veder ricostituita una sorta di Iugoslavia (di cui peraltro nessuno aveva parlato), poi però, pressato dai suoi imprenditori, che vedevano invece nel progetto un’opportunità unica per le loro esportazioni, acconsentì proponendo di allargare la CEFTA (Central European Free Trade Agreement, l’organizzazione economica fondata dal gruppo di Višegrad), anziché crearne una nuova. La soluzione accontentò tutti, ed entrò in vigore il 1° maggio 2007, dopo che 32 accordi commerciali bilaterali erano stati sostituiti da un unico trattato regionale. Ma il paradosso della situazione stava nel fatto che, per le regole comunitarie, i Paesi che avevano dato vita al gruppo di Višegrad, così come la Bulgaria e la Romania che vi erano successivamente entrati, diventando Stati membri dell’Unione avrebbero abbandonato l’organizzazione, per cui la CEFTA, pur continuando a riferirsi geopoliticamente all’Europa centrale, in realtà incluse solo i Balcani occidentali con la mera aggiunta della Moldavia: una soluzione, questa, evidentemente ritenuta sufficiente da Sanader per sentirsi rassicurato che l’UE non intendeva far risorgere la Iugoslavia.
Insomma, tali vicende, e soprattutto la sinuosità politica che le aveva caratterizzate e poi condotte a uno sbocco risolutore, costituivano conferma di quanto accidentato e tortuoso fosse diventato il cammino verso l’inclusione e la stabilizzazione della regione che più aveva sofferto della transizione postcomunista, nonostante le tante speranze alimentate dalle svolte d’inizio secolo. Esse costituiscono altresì una riprova dell’impegno per l’allargamento da parte delle istituzioni comunitarie, specialmente la Commissione e il Parlamento, mentre erano i vecchi Stati membri, a più riprese, a mettere in discussione sviluppi e strategie dell’UE in quei frangenti. In particolare, dopo il 2005, una grave responsabilità è ricaduta sulla Francia, che ha insistito sulla capacità di assorbimento dell’UE, ha tentato di bloccarne l’allargamento e si è schierata pubblicamente a fianco della Grecia nella controversia sul nome della Macedonia, contribuendo ad aggravare la fragilità di questo Stato chiave per la pace nei Balcani, mentre l’UE nel suo complesso si trovava nella incapacità di dare uno sbocco alla questione cipriota, a causa soprattutto delle pressioni esercitate da Atene. E la divisione/reintegrazione di Cipro, come noto, presentava molti elementi in grado di influire, nel bene e nel male, sui comportamenti politici nello spazio ex iugoslavo. Ad aiutare inconsapevolmente la Francia, poi, hanno contribuito i governi di Romania e Bulgaria che, una volta diventati membri a pieno titolo dell’Unione Europea, non si sono impegnati a sciogliere – come avevano invece promesso – i nodi giuridici, fiscali e amministrativi rimasti insoluti alla vigilia del loro ingresso nel 2007.
Lo strappo (specialmente sotto il profilo del diritto internazionale) provocato dall’indipendenza del Kosovo nel 2008 ha poi innescato ulteriori problemi, giacché si sono intensificate le tensioni in Bosnia ed Erzegovina (e, con esse, le richieste di un referendum per l’indipendenza nella Republika Srpska), in Macedonia (specialmente fra i partiti albanesi, profondamente divisi sulla strategia di governo), ma anche nell’Unione Europea, dove alcuni Paesi membri (come abbiamo detto) non hanno riconosciuto il nuovo Stato balcanico, così come nelle relazioni fra UE e Serbia, giacché le incertezze su territorio e sovranità spettanti a Belgrado hanno finito con il trasformarsi in un cuneo profondo, capace di alimentare ambiguità e controversie infinite, con ripercussioni negative di lungo termine per il futuro della regione e per la stessa Unione Europea. Il colpo di grazia, assestato dal referendum irlandese al Trattato di Lisbona, ha poi gettato nel caos le relazioni comunitarie e frenato il processo di allargamento: se tale situazione di incertezza dovesse perdurare e l’intervenuta crisi economico-finanziaria mondiale di fine 2008 prolungarsi nel tempo, il riemergere di tensioni mal sopite diverrebbe un rischio reale nei Balcani. D’altra parte, l’ingresso della Croazia e dell’Albania nella NATO nel 2009 potrebbe contribuire a stabilizzare la regione, se non altro perché revival pancroatisti o panalbanesi, almeno a Zagabria e Tirana, troverebbero spazi di manovra più ristretti che in passato.
Infine, a partire dalla seconda metà del decennio, un nuovo/vecchio protagonista è apparso sulla scena regionale: la Russia. Consolidatasi economicamente sotto la presidenza di Vladimir Putin, Mosca ha sviluppato una propria strategia di penetrazione nel Sud-Est europeo, sia sostenendo la Serbia sulla questione del Kosovo, sia realizzando gradualmente un piano di rifornimenti energetici, attraverso la costruzione di gasdotti che, facendo leva sulla convergenza con Bulgaria, Serbia e Grecia, le hanno consentito di ridimensionare drasticamente le possibilità attribuite, dall’UE, alla propria rete di gasdotti, denominata Nabucco. La Russia, anzi, muovendosi con estrema duttilità nel contesto regionale, è riuscita a trovare nuove convergenze anche con la Croazia e la Bosnia ed Erzegovina, né si è opposta all’avvicinamento di Belgrado all’UE sostenendo la ratifica serba dell’ASA, nonostante la stampa occidentale avesse spesso superficialmente commentato il comportamento russo come meramente antieuropeo e neonazionalista, mentre esso appariva più interessato a trarre vantaggio dalle divisioni europee per penetrarne il mercato e condizionarlo, grazie a una rete di ‘Paesi amici’ fra gli Stati membri (fra i quali, oltre ai Balcani, vanno annoverate anche la Germania e l’Italia).
Conclusione
All’avvicinarsi della fine del primo decennio del nuovo secolo, il quadro geopolitico balcanico si conferma incerto. È vero, come si è visto, che una complessa rete di relazioni è stata stesa non solo nella regione, ma fra questa e l’Unione Europea (pur con la presenza sempre significativa degli Stati Uniti e quella, per molti versi nuova, della Russia), permettendo di guardare alla governabilità delle persistenti tensioni locali con maggior ottimismo rispetto al passato; tuttavia, la profonda crisi politica e progettuale in cui è caduta l’UE dal 2005 lascia aperto il quesito se tale rete sia sufficiente a evitare una ripresa delle conflittualità. Gli assetti geopolitici regionali non sono stati stabilizzati, nella misura in cui l’attrazione nazionalista, dello Stato etnicamente puro, inteso come forma estrema di protezione di una comunità dal ‘vicino’ e/o dall’‘altro’ o dal ‘diverso’, non è mai venuta meno nel Sud-Est europeo; anzi, essa ha trovato nuovi, inattesi, sostegni nelle paure antiglobalizzazione dei vecchi Stati membri dell’Unione e dei loro strati socialmente e culturalmente meno avvertiti. Paure, queste, che si sono tradotte in ventate razziste e xenofobe, avvertite a Parigi come a Roma.
In questo quadro, ormai interdipendente, il futuro della stabilità nei Balcani non dipenderà più (se mai è dipeso) dalle mere dinamiche regionali, quanto piuttosto dall’interazione fra i problemi locali ancora aperti e quelli più ampi della governabilità europea, giacché la gestione delle differenze è diventata nel tempo la vera, grande, sfida della democrazia postmoderna.
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