I beni comuni
I processi di privatizzazione imposti dal progressivo smantellamento del welfare e dalle politiche neoliberiste hanno accresciuto enormemente l’interesse per i beni comuni. Ma la lotta per i commons non è solo una reazione al mercatismo in favore della restaurazione della potestà dello Stato sulle risorse comuni, al contrario indica una prospettiva di superamento della tradizionale opposizione pubblico/privato che dia voce all’insoddisfazione per quelle politiche pubbliche che hanno generato l’attuale crisi di fiducia nelle istituzioni. Questo contributo mette a fuoco i profili giuridici propri dell’emergere dei commons nei più vari settori dell’economia e della società, dimostrando come un diritto dei beni comuni sia possibile qui e ora.
Costruire uno statuto giuridico dei beni comuni significa promuovere un cambiamento politico e culturale importante, individuando in concreto gli strumenti che il diritto offre a difesa dei beni comuni1. Il problema principale nel teorizzare un diritto dei beni comuni sta nella difficoltà di autonomizzarsi da un paradigma, quello della proprietà privata individuale, tuttora presentato come unica forma giuridica possibile della relazione tra cose e persone2.
In questa fase della globalizzazione, allora, appare strategico fare emergere la tensione fra individualismo e solidarietà, fra esclusivo e comune, che pervade l’intero sistema giuridico fin dentro alle strutture del mercato, poiché a partire da essa è possibile sin da ora pensare la costruzione di uno statuto giuridico del comune. Si considerino alcune attuali applicazioni del comune. In tutta Europa sono presenti esperienze importanti di proprietà collettive, in cui immediato è il legame fra il bene e la comunità di riferimento. Né esse possono considerarsi semplicemente fenomeno premoderno, destinato all’estinzione; anche volendo giustificare lo jus excludendi alios con la necessità di retribuire il lavoro (secondo la nota teoria di Locke), ci scontreremmo con due evidenze: i terreni su cui insistono le proprietà collettive conservano integro il loro valore naturalistico ed economico e smentiscono l’inevitabilità della tragedia dei beni comuni in assenza di forme di appartenenza esclusiva3; esistono proprietà collettive come le partecipanze dell’Emilia Romagna che rappresentano una realtà agricola moderna, gestita in comune sulla base di una forma di appartenenza collettiva, a dimostrazione della non inevitabilità dell’appartenenza esclusiva sui beni produttivi4. Sul terreno dell’immateriale, forme di resistenza all’appropriazione esclusiva, dall’accesso alle risorse cognitive in rete5 alla tutela delle culture indigene, sono quotidianamente messe a punto con successo, spesso facendo ricorso – in una prospettiva di commodification rovesciata6 – allo stesso strumentario messo a disposizione dal diritto della proprietà intellettuale, con l’esito di far apparire obsoleto, almeno in alcuni casi, l’uso consueto del brevetto e la stessa retorica dell’autore. Ci si riferisce qui a strategie anche differenti fra loro. Le pratiche riconducibili al cd. copyleft (General Public License, Creative Commons, ecc.) sono alquanto significative al riguardo: predispongono una sorta di via di fuga dalla logica del diritto d’autore, senza formalmente contestare l’esistenza della sua disciplina.
Il progetto Creative Commons, in particolare, pur nascendo da una critica serrata al concetto di authorship e alla superprotezione garantita dal copyright, riconosce un diritto di esclusiva all’autore, ma combina property rights a opzioni di natura contrattuale consentendo accessibilità e riproducibilità dell’opera per scopi non commerciali (e non solo)7. Anche nel settore della proprietà industriale, la reazione agli abusi derivanti dall’ampliamento senza freni della brevettabilità assumono talora proprio le forme della tutela, sia pur sui generis, della proprietà intellettuale a vantaggio delle comunità indigene (first nations), che imprese e enti di ricerca tendono a spossessare dei saperi e delle pratiche da loro tramandati di generazione in generazione8.
1.1 La giurisprudenza del comune
Negli ultimi mesi le pratiche di resistenza contro lo spossessamento del comune hanno trovato importanti riconoscimenti da parte delle corti di vari Paesi.
Nel campo dell’immateriale è fondamentale la decisione della Corte federale statunitense (Southern District of New York) del 29.3.2010 nel caso Myriad Genetics9, che giudica i geni umani non appropriabili in via esclusiva attraverso i dispositivi della proprietà intellettuale, in questa ipotesi il brevetto.
Parlano esplicitamente di beni comuni le Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza n. 4.2.2011, n. 3665 e la Corte Suprema dell’India in una decisione del 28.1.2011. Le S.U. hanno dato un primo riconoscimento formale alla categoria dei beni comuni in un caso riguardante lo statuto giuridico di una valle da pesca della laguna di Venezia: nel rigettare la pretesa di un’impresa ittica, che asseriva di aver acquistato la proprietà della valle da pesca, la Cassazione non si è accontentata di accertarne la natura di bene demaniale, ma ha altresì affermato trattarsi di un bene comune funzionalizzato alla realizzazione dei diritti fondamentali, facendo particolare riferimento al diritto all’ambiente e alla rilevanza costituzionale dell’ambiente stesso (art. 9 Cost.). Dal suo canto, invece, la Corte Suprema indiana, nell’annullare l’alienazione a scopo di lottizzazione di uno spazio pubblico (lo stagno di un villaggio) ad un imprenditore edile, denuncia le politiche di privatizzazione dello spazio urbano e delle zone rurali come il risultato di un’alleanza nefasta fra developers privati e amministrazioni pubbliche incapaci o corrotte, a queste ultime chiedendo di mettere fine allo spossessamento dei beni comuni necessari alla sopravvivenza delle comunità10.
Non altrettanto esplicita, ma assolutamente fondamentale la sentenza C. cost., 20.7.2012, n. 199, che ha ridato voce alla volontà popolare espressa nel referendum del 12-13.6.2011, dichiarando incostituzionale l’art. 4, d.l. 13.8.2011, n. 138, con il quale il governo, ignorando l’esito referendario, e perciò in violazione dell’art. 75 Cost., rintroduceva la privatizzazione dei servizi pubblici locali11. Non è un caso che la lotta per l’acqua bene comune resti centrale in questo panorama: l’acqua è simbolo forte di un legame stretto e imprescindibile fra risorse naturali e comunità umane, che non ammette l’interferenza di terzi beneficiari, né di natura pubblica, né di natura privata.
Significativa è poi la vicenda giudiziaria dell’occupazione romana dell’ex-cinema Palazzo, all’esito della quale il tribunale di Roma tratteggia un rapporto privilegiato tra destinazione culturale del bene e moltitudine degli occupanti che mette in ombra la titolarità del diritto sull’immobile12.
Volendo tratteggiare una tassonomia, propongo di ordinare l’eterogeneità dei commons in quattro classi:
a) le risorse materiali come l’acqua e l’ambiente, il patrimonio culturale ed artistico del Paese, ecc.;
b) le risorse immateriali – la conoscenza e le sue applicazioni, le creazioni artistiche, i saperi tradizionali e le culture popolari, le informazioni genetiche, ecc. – oggi interessate da un imponente fenomeno di ‘recinzione’ (the second enclosure movement13) attraverso le varie forme di proprietà intellettuale (diritto d’autore, brevetto, ecc.) che ne consentono l’appropriazione esclusiva, e di converso rivendicate (si pensi alle varie pratiche di resistenza contro l’enclosure poste in essere in rete) come risultato della produzione collettiva;
c) lo spazio urbano, bene comune per eccellenza in quanto «cosa umana per eccellenza»14, prodotto della cooperazione sociale, spazio nel quale l’andamento delle nostre vite si definisce15, oggetto di uno spossessamento che è frutto della partnership fra pubblico e privati e fonte di disgregazione sociale, di costruzione di identità svantaggiate, di distruzione di spazi di democrazia16;
d) infine le istituzioni erogatrici di servizi pubblici finalizzati alla realizzazione di diritti fondamentali come l’istruzione e la salute: dunque università, scuola, sanità, ecc. Nella ricostruzione giuridica corrente, ad esse fanno capo i diritti sociali riconosciuti dalla costituzione e tipici del welfare State: la sfida del definirle beni comuni sta nel reclamare per esse una gestione diversa, partecipata, soppiantando il modello tradizionale che vede l’ente pubblico erogatore del pubblico servizio e il cittadino/suddito portatore della pretesa alla prestazione.
Questa approssimativa mappatura conferma l’eterogeneità delle accezioni e dei contesti in cui l’espressione bene comune è impiegata. Evidentemente è impossibile ricondurre alle diverse categorie uno statuto giuridico generale del comune.
Si possono però individuare alcuni caratteri che queste diverse facce del comune condividono.
Un primo carattere si definisce, dunque, in negativo, nella mancanza di un regime giuridico comune ai beni che definiamo come comuni. Ciò implica la diversità delle strategie da eleggere caso per caso nell’affermare e difendere la natura di commons di una risorsa.
Un altro tratto sicuramente condiviso da tutte le accezioni del comune prima individuate è invece il legame fra risorsa (o servizio) e comunità17. L’individuazione della comunità di riferimento, elemento chiaro ad es. nelle proprietà collettive tuttora esistenti in molte regioni d’Italia, è un problema chiave nella definizione di uno statuto giuridico per i beni comuni. La comunità si definisce in ragione dei legami sociali di solidarietà che esistono o dovrebbero instaurarsi in relazione alla fruizione del bene comune: il discorso è volutamente circolare poiché fra commons e comunità esiste una relazione per cui l’uno risulta costitutivo dell’altra e viceversa. Inoltre i legami di solidarietà e l’individuazione della comunità che insistono sul bene comune hanno anche una necessaria dimensione diacronica: quasi per definizione, la gestione di un bene comune deve tener conto degli interessi delle generazioni future.
Terzo decisivo elemento di un possibile statuto giuridico dei beni comuni è la gestione, già lumeggiata dall’art. 43 Cost. L’idea di gestione partecipata non è però pacifica. Alcuni elementi per pensare in positivo la gestione partecipata si desumono dalla regolamentazione delle proprietà collettive presenti in Italia: innanzitutto il vincolo di destinazione sul bene, che incide sulla gestione in funzione di limite. Ove il carattere comune del bene si accompagni ad una situazione di appartenenza collettiva, com’è nel caso delle proprietà collettive, forti limiti alla facoltà di disposizione connoteranno ovviamente l’attività di gestione.
Il lavoro teorico nel diritto deve aspirare ad un passaggio ulteriore, e cioè a disarticolare il diritto di proprietà per aprirlo al comune e, per altro verso, a inventare delle soluzioni che funzionalizzino il pubblico alla logica del comune.
Solo così l’elaborazione giuridica può porsi all’altezza del presente, cioè all’altezza dei conflitti e delle lotte contro lo spossessamento di ciò che è comune. Nelle recenti esperienze italiane di occupazione di teatri, cinema, e non solo, si registra una crescente domanda di diritto ispirata dalla consapevolezza di lavorare sulla frontiera di un nuovo modello di società. Il giurista è dunque chiamato a svolgere un ruolo importante, che richiede tuttavia di ragionare a partire dal superamento della dicotomia pubblico/privato.
Occorre ammettere che le strutture concettuali del diritto vigente, che è di solide basi liberali, non sono familiari a questo ordine del discorso. Pure, la prospettiva del comune che prende corpo nelle lotte di questi ultimi anni e in movimenti come Occupy, non è l’auspicio di un ritorno al pubblico ai danni del privato, piuttosto la tensione verso un’alternativa in termini sociali, economici ed istituzionali, che si ponga appunto oltre la contrapposizione pubblico/privato. Sul piano giuridico e istituzionale ciò vuol dire superare l’egoismo proprietario quale paradigma fondante del diritto privato, ma anche la sovranità dello Stato come filtro necessario nella gestione e nel godimento delle risorse da parte della collettività18.
Per un verso è allora strategico dissociare l’uso dalla titolarità del diritto di proprietà, ciò che è possibile rimanendo nell’alveo della nostra tradizione: come insegna Hohfeld, la proprietà non è un monolite, ma un fascio di situazioni soggettive positive che tendono a disaggregarsi, ed è proprio lavorando sulla tendenza alla disaggregazione delle utilità prodotte dai beni e degli entitlements ad essi inerenti che possiamo ragionare in termini giuridici di beni comuni, a partire da una decostruzione del diritto di proprietà nella sua centralità, compattezza ed intangibilità19. Intende questo Rodotà quando sostiene che l’art. 42 Cost. deve essere riletto dissociando l’accesso ai beni dalla titolarità della proprietà e dunque ripensando la funzione sociale come possibilità di uso garantita a chi non è proprietario20.
Per l’altro, occorre assumere in pieno la tensione fra pubblico e comune. Nella modernità, l’esclusione definitiva delle comunità dalla gestione delle risorse comuni, dopo che il cd. primo movimento delle enclosures aveva portato alla privatizzazione di gran parte di esse, è dovuta proprio all’azione dello Stato, che si è eretto a unico interprete dell’interesse generale e di ogni politica redistributiva trasformando in pubblico ciò che restava del comune; in cambio provvedendo alle esigenze primarie dei cittadini attraverso la predisposizione dei servizi pubblici necessari alla realizzazione dei diritti fondamentali. La prospettiva del comune rovescia questo scenario, rivendicando la restituzione ai cittadini dell’accesso diretto alle risorse e di specifici poteri di programmazione, gestione, controllo, e reclamando un esercizio dei pubblici poteri funzionale al coronamento di questi obiettivi.
1 Amplius cfr. i contributi raccolti in Marella, M.R., a cura di, Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Verona, 2012.
2 Come dimostrano le costituzioni neoliberali, vedi l’art. 17 della Carta di Nizza, che considerano la proprietà privata fra le libertà e le fanno ri-assumere i connotati del diritto fondamentale.
3 Smentendo la nota teoria di Hardin, G., The Tragedy of the Commons, in Science, 1968.
4 Doveroso il rinvio alle ricerche di Paolo Grossi, fra le quali ricordo in particolare «Un altro modo di possedere»: l’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano, 1977. In materia di domini collettivi si segnala il d.d.l. n. 2086/2010, presentato al Senato e che intende riconoscere, tra l’altro, il diritto d’uso del dominio collettivo, in quanto diritto avente ad oggetto le utilità del fondo – consistenti in uno sfruttamento del dominio riservato ai cittadini del comune – determinando per i partecipanti una situazione giuridica complessa: di un interesse individuale avente ad oggetto un uso dei beni conforme alla loro destinazione ed un interesse collettivo alla conservazione della destinazione dei beni (art. 1, co. 1).
5 Per una prima informazione cfr. Lessig, L., The Future of Ideas. The Fate of the Commons in a Connected World, Vintage Book 2002.
6 Sul complesso rapporto fra culture minoritarie e mercato cfr. Austin, R., Kwanzaa and the Commodification of Black Culture, in Ertman, M.M.-Williams, J.C., (eds.), Rethinking Commodification. Cases and Readings in Law and Culture, New York and London, 2005, 178.
7 Per una critica ai limiti del progetto cfr. Elkin-Koren, N., What Contracts Cannot Do: The Limits of Private Ordering in Facilitating a Creative Commons, in Fordham Law Review, 74, 2005-2006, 375 ss.
8 Cfr. Vezzani, S., Sciamani e «cacciatori di geni». Proprietà intellettuale e diritti dei popoli indigeni, in Papanicopulu, I., a cura di, Incontro di studio dei giovani cultori delle materie internazionalistiche, Milano, 2008, 85.
9 È possibile leggerne una sintesi in Oltre il pubblico e il privato, op. cit., 175 ss.
10 Per una sintesi tradotta v. Oltre il pubblico e il privato, op. cit., 173 ss.
11 In www.giurcost.org, ove è possibile leggere anche il commento di Lucarelli, A., La sentenza della Corte costituzionale n. 199/2012 e la questione dell’inapplicabilità del patto di stabilità interno alle S.P.A. in house e alle aziende speciali.
12 Trib. Roma, 8.2.2012. Per un’analisi cfr. Agabitini, C., Tutela possessoria e beni comuni. Il caso del cinema Palazzo, in Nuova giur. civ. comm., 2012.
13 Cfr. Boyle, J., The Second Enclosure Movement and the Construction of the Public Domain, in Law and Contemporary Problems, Winter-Spring 2003, 33-74.
14 Così Strauss, C.L., Tristi tropici, Milano, Il Saggiatore, 1965, citato da Petrillo, A., Ombre del comune: l’urbano fra produzione collettiva e spossessamento, in Oltre il pubblico e il privato, cit., 203.
15 Cfr. Hardt, M.-Negri, A., Commonwealth, Cambridge, 2009, 249 ss.
16 Cfr. Harvey, D., Il capitalismo contro il diritto alla città, Verona, 2012.
17 Cfr. Lucarelli, A., Note minime per una teoria giuridica dei beni comuni, in Quale stato, 2007, 87 ss.
18 Un primo elemento a sostegno di questo “oltre” si trae dai lavori della ormai celebre commissione Rodotà, insediatasi presso il Ministero della giustizia nel 2007 per riscrivere quella parte del codice civile dedicata ai beni pubblici (artt. 822 ss. c.c.), la quale ha chiarito che i beni comuni sono quei beni che, a prescindere dall’appartenenza pubblica o privata, si caratterizzano per un vincolo di destinazione, essendo funzionali alla realizzazione dei diritti fondamentali di tutte e tutti.
19 Hohfeld, W.N., Some Fundamental Legal Conceptions as Applied in Judicial Reasoning, Yale L.J., 1913, 16.
20 Cfr. Rodotà, S., Postfazione. Beni comuni: una strategia globale contro lo human divide, in Oltre il pubblico e il privato, op. cit., 311 ss.